Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
L’accordo tra il gruppo liberal-democratico del parlamento europeo ed il Movimento 5 Stelle alla fine è saltato; ma rimane comunque significativo che il tentativo sia stato fatto, che cioè Grillo abbia cercato, con il supporto della consueta farsa della “democrazia sul web”, di far rientrare il suo movimento nei canoni della “rispettabilità” politica. Non è affatto una sorpresa dato che molti commentatori avevano rilevato da tempo il carattere del tutto mistificatorio dell’euroscetticismo del M5S.
La pubblicazione del “codice di comportamento” del M5S ha suscitato scontati commenti su presunte “svolte garantiste” o su “norme salva-Raggi”, ma anche in questo caso l’adesione del grillismo agli schemi della “rispettabilità” politica rimane immutata, poiché esso continua a considerare la condanna nel giudizio di primo grado come discriminante per eventuali dimissioni. Per un movimento che si era presentato come sfida all’establishment, risulta davvero ben strana questa sudditanza morale nei confronti della magistratura, come se questa non facesse parte a sua volta dell’establishment. Per un vero movimento di opposizione sarebbe stato più logico non vincolarsi a questioni di condanna di primo grado o di condanna definitiva, ma valutare caso per caso, proprio perché nessuna sentenza può ritenersi di per sé immune dal sospetto di essere originata da manovre di lobbying.
L’affanno e l’auto-discredito crescenti del M5S sono l’effetto di contraddizioni che erano palesi da anni e che sono scoppiate non appena i successi elettorali hanno avvicinato il movimento ad una possibilità di accedere al governo. La pretesa di risolvere le questioni con un presunto “onestismo” ha rappresentato per molti militanti del movimento la benda sugli occhi per evitare di prendere atto della violenza del contesto coloniale. A riguardo vi è nel 1976 il precedente del PCI di Enrico Berlinguer, che si arrese allo strapotere imperialistico della NATO adottando slogan diversivi come la “questione morale” ed il “governo degli onesti”: lo stesso mito di quella che si potrebbe chiamare “ortocrazia”, oggi invocata anche dal M5S.
Viene da supporre che lo stesso Grillo sia in realtà costretto a muoversi sotto la pressione di minacce alla sua persona, con la conseguenza di procedere per dichiarazioni stentoree e passetti ambigui. La proposta del M5S di sottoporre la questione della moneta unica ad un referendum consultivo restituisce appieno la dimensione di un’opposizione che non si oppone, che fa finta di non accorgersi che un eventuale referendum del genere si svolgerebbe sotto il ricatto di tempeste finanziarie e sotto l’attacco ad un debito pubblico al quale nei prossimi mesi verrà a mancare anche il peloso ombrello del Super-Buffone di Francoforte, in arte Mario Draghi.
Da un punto di vista tecnico il venir meno della tutela di Draghi non dovrebbe preoccupare i nostri governi, in quanto non vi è nessun bisogno di collocare i nuovi titoli del debito pubblico sul “mercato” alla mercé degli speculatori. Un governo italiano potrebbe semplicemente emettere titoli a tasso zero ed usarli per pagare i debiti della Pubblica Amministrazione. Da un punto di vista formale si tratterebbe di “prestiti forzosi”, ma in effetti si potrebbe considerarli come una vera e propria emissione della tanto agognata “moneta sovrana”.
Sennonché non si vive in un mondo ideale fatto di astratte scelte tecnico-economiche, bensì nel mondo materiale della concreta tecnica della violenza imperialistica, cioè della violenza nella sua accezione più diretta e brutale. Nel febbraio del 2003 il quotidiano britannico “The Guardian” ci informava dei vantaggi finanziari che il governo iracheno di Saddam Hussein stava riscuotendo facendosi pagare il petrolio in euro, accumulando anche crediti sulle banche francesi. Del resto tanti Paesi europei avevano desiderato di far parte dell’Eurozona proprio illudendosi di poter comprare petrolio ed altre materie prime in euro e non più in dollari.
Ma nel marzo del 2003 l’Iraq veniva invaso dagli Stati Uniti e l’inganno si svelava: gli USA avevano imposto la moneta unica europea in funzione del rafforzamento della disciplina della NATO in Europa e non perché avessero intenzione di tollerare la nascita di una valuta di riserva che facesse concorrenza al dollaro. La Francia, dapprima illusa e poi umiliata nelle sue ambizioni di leadership finanziaria, ha esibito dopo Chirac soltanto presidenti da pochade, i vari Sarkozy e Hollande, umili zerbini degli USA. Dopo Monti, Letta e Renzi, anche Gentiloni è corso in Francia ad inaugurare l’ennesimo “asse” con Hollande in funzione anti-austerity, ed i giornali fanno persino finta di crederci, come se ormai non si sapesse che Hollande in Europa, e non solo in Europa, è solo un passacarte. Delusa nelle aspirazioni globali, l’oligarchia francese se la prende con l’Italia, trasformata in una colonia finanziaria come le ex (?) colonie africane. Gentiloni ovviamente non ha perso occasione per ringraziare ufficialmente la Francia di questa colonizzazione (pardon, di questi “investimenti”).
A contrastare l’euro rimarrebbe la Lega di Salvini. Ma non è che la Lega adotta una battaglia giusta solo per usarla come veicolo per tutt’altri messaggi? Le ambiguità della Lega riguardano soprattutto il tema dell’immigrazione, ancora rappresentata come un fenomeno dovuto ad una sorta di “troppobuonismo” dei governi, mentre invece la mobilità internazionale della forza-lavoro costituisce una diretta conseguenza della mobilità internazionale dei capitali.
Poco più di un anno fa Matteo Salvini fu anche protagonista di una provocazione contro la Nigeria, da lui accusata di avergli negato il visto di entrata per una missione per “aiutare gli Africani a casa loro”, ovviamente portando investimenti. In realtà la Nigeria è una colonia come l’Italia e, come l’Italia, non soffre per la presunta mancanza di investimenti esteri, semmai per il contrario. Per aiutare gli Africani a casa loro e noi a casa nostra, occorrerebbe intanto bloccare quella “libera circolazione dei capitali” (alias imperialismo) di cui anche l’euro è un’espressione.
Anche la demagogia anti-immigrazione si risolve quindi in un espediente per non prendere atto della violenza del contesto coloniale. Viste le premesse, la “strategia” della Lega si riduce ad aspettarsi il regalo dal Babbo Natale Trump, o meglio, dalla lobby che lo ha spinto alla presidenza, sperando che sia davvero una lobby anti-globalizzazione.
Ogni tanto qualcuno si distrae e per abitudine superstiziosa ricomincia a credere all’esistenza dello Stato. Meno male che ogni tanto arrivano anche le sentenze della sedicente magistratura a riportare tutti alla realtà. La recente sentenza della Corte di Cassazione che legittima il licenziamento motivato dal “maggiore profitto”, è indicativa non solo e non tanto perché santifica il valore del profitto rispetto a quello del lavoro, ma soprattutto perché sposta la motivazione del licenziamento su un piano del tutto ipotetico ed oggettivamente indimostrabile all’atto del licenziamento stesso. A meno che il risparmiare su uno stipendio non venga di per sé considerato “maggior profitto”; o che non venga considerato foriero di maggior profitto soprattutto l’effetto terroristico che un licenziamento provoca sul resto del personale.
La sentenza della Corte di Cassazione è quindi antigiuridica in quanto stabilisce una sistematica incertezza della norma che si presta ad ogni abuso.
Alcuni giuristi hanno constatato che la sentenza della Cassazione può persino sortire un effetto di vera e propria istigazione a delinquere, in quanto conferisce, grazie alla generica motivazione del “maggior profitto”, una patente di impunità al padronato. Ecco che la legalità può esercitarsi in funzione dell’illegalità; ed il bello è che la “sinistra” (compresa quella “radicale”) si è suicidata ideologicamente proprio in nome del mito della legalità.
Che la giurisprudenza e la stessa legislazione possano risultare criminogene è dimostrato anche dal caso delle varie “riforme” del lavoro, tra cui il “Jobs Act”. L’uso dei cosiddetti “voucher” era stato ampliato a dismisura e giustificato dal governo Renzi con l’esigenza di far emergere il lavoro nero. Un pur edulcorato studio dell’INPS ha smentito completamente questa pretesa, in quanto la tanto decantata “emersione” del lavoro nero, in quasi quindici anni di vita dei voucher, non solo non è risultata statisticamente rilevabile, semplicemente non c’è.
Il punto è però che i voucher costituiscono, al contrario delle dichiarazioni ufficiali, un incentivo al lavoro nero, dato che consentono tuttora, nonostante le presunte “correzioni”, di sanare legalmente a posteriori le assunzioni irregolari in caso di incidenti sul lavoro. I voucher creano una zona grigia al confine tra legalità ed illegalità e perciò configurano oggettivamente un’istigazione a delinquere (anche soggettivamente, se è per questo: basti considerare la facies da sociopatico criminale del ministro Poletti). Un’istigazione a delinquere proprio da parte del cosiddetto “Stato” o, per meglio dire, da parte delle lobby che usano questa etichetta che fa leva sulla pubblica superstizione.
Chiunque non sia TG-dipendente oggi sa che l’attuale crisi finanziaria non è stata generata dal debito pubblico, bensì dal sistema bancario. Bisogna però sfatare il luogo comune secondo cui oggi si cercherebbe di far pagare la crisi ai lavoratori. Le “riforme strutturali” contro il lavoro hanno preceduto di gran lunga la crisi finanziaria e, in un certo senso, ne hanno posto le basi deprimendo i redditi. La crisi dei titoli derivati è scoppiata negli USA tra il 2007 ed il 2008, mentre le politiche di massiccia precarizzazione del lavoro sono cominciate in Europa ben cinque anni prima, nel 2003, con il piano Hartz in Germania e, in Italia, con la Legge 30/2003; quella legge che ha istituito per prima i voucher e quella stessa legge, non a caso, collocata sotto l’icona del martire del “terrorismo” Marco Biagi, a dimostrazione che il delitto va sempre a vantaggio del “maggior profitto”.
Il terrorismo delle sparatorie è stato accompagnato e integrato da un terrorismo giudiziario contro i dirigenti sindacali. L’ex segretario della CGIL Sergio Cofferati fu scagionato dalla Procura di Bologna dall’accusa di concorso nell’assassinio di Biagi solo dopo aver ottenuto il calo di brache della stessa CGIL sulla questione del precariato.
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