Ogni tanto qualcuno si distrae e per abitudine superstiziosa ricomincia a credere all’esistenza dello Stato. Meno male che ogni tanto arrivano anche le sentenze della sedicente magistratura a riportare tutti alla realtà. La recente sentenza della Corte di Cassazione che legittima il
licenziamento motivato dal “maggiore profitto”, è indicativa non solo e non tanto perché santifica il valore del profitto rispetto a quello del lavoro, ma soprattutto perché sposta la motivazione del licenziamento su un piano del tutto ipotetico ed oggettivamente indimostrabile all’atto del licenziamento stesso. A meno che il risparmiare su uno stipendio non venga di per sé considerato “maggior profitto”; o che non venga considerato foriero di maggior profitto soprattutto l’effetto terroristico che un licenziamento provoca sul resto del personale.
La sentenza della Corte di Cassazione è quindi antigiuridica in quanto stabilisce una sistematica incertezza della norma che si presta ad ogni abuso.
Alcuni giuristi hanno constatato che la sentenza della Cassazione può persino sortire un effetto di vera e propria istigazione a delinquere, in quanto conferisce, grazie alla generica motivazione del “maggior profitto”, una
patente di impunità al padronato. Ecco che la legalità può esercitarsi in funzione dell’illegalità; ed il bello è che la “sinistra” (compresa quella “radicale”) si è suicidata ideologicamente proprio in nome del mito della legalità.
Che la giurisprudenza e la stessa legislazione possano risultare criminogene è dimostrato anche dal caso delle varie “riforme” del lavoro, tra cui il “Jobs Act”. L’uso dei cosiddetti “voucher” era stato ampliato a dismisura e giustificato dal governo Renzi con l’esigenza di far emergere il lavoro nero. Un pur edulcorato
studio dell’INPS ha smentito completamente questa pretesa, in quanto la tanto decantata “emersione” del lavoro nero, in quasi quindici anni di vita dei voucher, non solo non è risultata statisticamente rilevabile, semplicemente non c’è.
Il punto è però che i voucher costituiscono, al contrario delle dichiarazioni ufficiali, un incentivo al lavoro nero, dato che consentono tuttora, nonostante le presunte “correzioni”, di sanare legalmente a posteriori le assunzioni irregolari in caso di incidenti sul lavoro. I voucher creano una zona grigia al confine tra legalità ed illegalità e perciò configurano oggettivamente un’istigazione a delinquere (anche soggettivamente, se è per questo: basti considerare la facies da sociopatico criminale del ministro Poletti). Un’istigazione a delinquere proprio da parte del cosiddetto “Stato” o, per meglio dire, da parte delle lobby che usano questa etichetta che fa leva sulla pubblica superstizione.
Chiunque non sia TG-dipendente oggi sa che l’attuale crisi finanziaria non è stata generata dal debito pubblico, bensì dal sistema bancario. Bisogna però sfatare il luogo comune secondo cui oggi si cercherebbe di far pagare la crisi ai lavoratori. Le “riforme strutturali” contro il lavoro hanno preceduto di gran lunga la crisi finanziaria e, in un certo senso, ne hanno posto le basi deprimendo i redditi. La crisi dei titoli derivati è scoppiata negli USA tra il 2007 ed il 2008, mentre le politiche di massiccia precarizzazione del lavoro sono cominciate in Europa ben cinque anni prima, nel 2003, con il piano Hartz in Germania e, in Italia, con la Legge 30/2003; quella legge che ha istituito per prima i voucher e quella stessa legge, non a caso, collocata sotto l’icona del martire del “terrorismo” Marco Biagi, a dimostrazione che il delitto va sempre a vantaggio del “maggior profitto”.
Il terrorismo delle sparatorie è stato accompagnato e integrato da un terrorismo giudiziario contro i dirigenti sindacali. L’ex segretario della CGIL Sergio Cofferati fu
scagionato dalla Procura di Bologna dall’accusa di concorso nell’assassinio di Biagi solo dopo aver ottenuto il calo di brache della stessa CGIL sulla questione del precariato.