Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
La vera funzione sociale del cosiddetto “dibattito” non è purtroppo quella di confrontare le rispettive idee ed argomentazioni, bensì di fissare delle gerarchie nella comunicazione. Si tratta quindi di stabilire chi ha il privilegio di occupare il piedistallo dell’accusatore o del giudice e chi invece si trova nella condizione cronica di imputato. Non conta che le accuse siano infondate o assurde, anzi, più lo sono e meglio è, poiché con punti di riferimento vaghi diventa molto più complicato discolparsi. La gerarchizzazione comporta non solo l’assegnazione dei ruoli ma anche la recinzione in cui il dibattito può svolgersi, cioè gli argomenti che ti fanno acquisire status e quelli che invece ti squalificano. Ciò vale anche per il dibattito elettorale; infatti il risultato delle elezioni non va valutato contando chi ha preso più voti, il che spesso è del tutto irrilevante, bensì in base a chi è riuscito a detenere il controllo della cosiddetta “realtà”, alla quale qualsiasi governo dovrà poi piegarsi. L’irrilevanza del dato numerico del voto è uno schema che funziona anche al netto delle trasversalità che si riscontrano nel sistema dei partiti, per cui, ad esempio, Enrico Letta e Giorgia Meloni sono tutti e due nell’Aspen Institute, mentre la Lega ed il PD spingono entrambi per l’autonomia differenziata.
Un elettore incazzato può votare un partito che in quel momento appare come anti-establishment, oppure può non votare affatto; l’importante è che non si esca dalla recinzione della realtà virtuale. Spesso si ritiene, erroneamente, che la “realtà” coincida tout court con la comunicazione ufficiale o mainstream, ma non è affatto così, poiché anche i dati ufficiali o le notizie dei media accreditati perdono valore se risultano fuori dal recinto, di cui alcuni paletti si chiamano “peso del debito pubblico” e “spread”.
Sul sito della Banca d’Italia ci si spiega che il Quantitative Easing della Banca Centrale Europea (con i vari programmi con i quali si declina, dal PEPP all’APP), non è indirizzato solo all’acquisto di titoli del debito pubblico, ma anche, e soprattutto, all’acquisto di titoli di aziende private. Il Quantitative Easing è cominciato infatti in Paesi come il Giappone o gli Stati Uniti dove non c’era un problema di “spread” rispetto ai titoli tedeschi come nell’Unione Europea.
Nel marzo del 2020 la presidentessa della BCE, Christine Lagarde, pronunciò la famosa “gaffe”, cioè dichiarò che non era tra i compiti dell’istituzione da lei presieduta il tenere sotto controllo gli spread. In effetti si trattava di una banalità: l’abbassamento degli spread è un effetto secondario dei Quantitative Easing, in quanto i veri destinatari della facilitazione non sono gli Stati, bensì le banche. All’epoca l’establishment italico si irritò tremendamente con la Lagarde, poiché questa in un attimo aveva smentito tutta la narrativa sullo spread. Come la fiaba sui vaccini, anche la fiaba sullo spread si era evoluta: inizialmente lo spread si teneva a bada solo facendo i bravi bambini e tagliando le spese per rassicurare i “Mercati”; poi il racconto si è arricchito con nuovi dettagli, per cui a Francoforte c’era una mano provvida e premurosa verso le sorti dell’Italietta e, grazie a ciò, non colavamo a picco sotto la zavorra dei debiti. Rischiava di crollare tutto il castelletto delle colpevolizzazioni con cui ci si tiene al guinzaglio. Guai se le masse povere venissero a sapere che nella realtà vera, non quella virtuale, l’assistenzialismo è riservato esclusivamente ai ricchi.
Il gioco delle parti fa sembrare che la Germania e gli altri Paesi “frugali” siano contrari al QE e lo tollerino per chissà quali pressioni, mentre i Paesi “spendaccioni” come noi lo esigano per non affondare. Ma quando si è andata materializzando la prospettiva di un aumento dei tassi di interesse e di una diminuzione delle iniezioni di liquidità della BCE, le principali vittime non sono stati i debiti pubblici degli Stati, bensì le grandi banche tedesche, che hanno visto crollare in Borsa il valore delle loro azioni. Il disastro Deutsche Bank-Commerz Bank è tamponato dai QE, e lo si sa benissimo in base alle notizie della stampa mainstream; ma chi osasse sottolinearlo in qualche talk show verrebbe subissato di biasimo, derisione ed accuse infamanti.
Le iniezioni di liquidità delle banche centrali avrebbero potuto sortire effetti positivi per le economie e per l’occupazione se si fossero concretizzate in investimenti in infrastrutture, in risanamento del territorio e in welfare. Ma così non è stato; anzi, si è fatto di tutto per evitare che il denaro iniettato nella finanza avesse ricadute positive nell’economia reale. Non a caso il prestigioso settimanale “The Economist” addirittura invoca la recessione, poiché consentirebbe di continuare ad iniettare liquidità nella finanza senza rischiare un’iper-inflazione che azzererebbe i debiti degli Stati, con il conseguente sistema di ricatti. Il settimanale britannico dà voce esplicita ad una lobby di cui molti ignorano l’esistenza: la lobby della deflazione, che coincide con gli interessi delle multinazionali del credito. La recessione diventa la nuova emergenza che giustifica altri QE, ma le emergenze hanno anche i loro risvolti utopici e palingenetici da valorizzare. Come tutte le lobby, anche quella della deflazione ruba infatti suggestioni e slogan dall’armamentario ideologico dell’ambientalismo e della “Decrescita Felice”.
Ci si potrebbe domandare quali prospettive possa offrire questa sinergia tra banche centrali e finanza privata a colpi di iniezioni di liquidità che alimentano bolle azionarie in Borsa, mentre l’economia reale arretra. Il punto è che qui si sta parlando di lobby, cioè di semplici macchine comportamentali che non si pongono problemi di prospettiva o di continuità. Non c’è considerazione geopolitica o strategica che possa spiegare il comportamento USA, ma il lobbying delle armi invece sì.
Di solito siamo abituati a dare per scontata l’esistenza dello Stato; mentre in effetti si tratta di una costruzione storica piuttosto recente, che solo in parte è riuscita ad integrare e sostituire le precedenti gerarchie sociali. Lo Stato - inteso come istituzione che si articola a sua volta in varie istituzioni interconnesse tra loro e che perseguono una continuità ed uno scopo comune -, rappresenta solo una chimera giuridica ed ormai un guscio vuoto. Dovunque il lobbismo riesca ad insinuarsi, la sua prima vittima è proprio il senso dell’istituzione, per cui si assiste al paradosso di uno Stato che disprezza se stesso e mette alla berlina il suo personale presentandolo come fannullone e disonesto. Uno Stato può trattare il proprio popolo come una bestia da soma, come un pollo da spennare, come carne da cannone, ma comunque lo considererebbe una risorsa da tutelare. Dato che l’Italietta è annoverata come un caso atipico e quindi non farebbe testo, c’è l’esempio di Israele, un Paese che basa la sua sopravvivenza sulla leva militare, che ora riscontra di aver compromesso la salute della sua giovane generazione con un vaccino sperimentale.
Il governo Draghi è stato un episodio minore della conflittualità interna all’oligarchia nostrana: un Presidente della Repubblica in carica che doveva “bruciare” il suo principale concorrente incastrandolo a Palazzo Chigi, in modo da garantirsi la rielezione al Quirinale. Ma questa esperienza di governo potrebbe passare ugualmente alla Storia come una seduta psicanalitica dell’establishment, che ha vissuto il suo grande sogno d’amore, il suo romanzo Harmony, con l’uomo affascinante e misterioso, che avrebbe dovuto anche fungere da vendicatore di presunti torti subiti da parte delle classi subalterne. Si tratta di un tipico fenomeno di auto-intossicazione, per cui ci si fa suggestionare dalla propria stessa propaganda, finendo per crederci. In molti si sono bevuta la fiction dell’Uomo Superiore caduto nel vile agguato di personaggi meschini e volgari, probabilmente al soldo dell’autocrate straniero; perciò lo sdegno esibito era vibrante ed autentico. In questa suggestione è caduto persino Draghi, che era lui il primo a volersene scappare, ma poi, con la sua ostentazione di superiorità e di arroganza, ha finito per incassare in parlamento un’umiliazione del tutto inutile.
Ci dovrebbe essere anche il momento in cui è opportuno tenere un basso profilo; ma è un’opzione che oggi appare del tutto preclusa, per cui ogni vicenda viene enfatizzata nella narrativa epica e nell’alternativa tra l’abiezione e la palingenesi morale. Un esempio interessante di questo bisogno insopprimibile di narrarsi epicamente, ce lo fornisce una strana intervista a monsignor Paolo Bizzeti, vicario apostolico in Anatolia. Dopo aver trattato delle questioni migratorie con toni da consulente aziendale, il nostro monsignore sente il bisogno di elevarsi e ci descrive la guerra in Ucraina come uno scontro di civiltà tra la democrazia e l’oligarchia. Ma se c’era di mezzo la civiltà, perché l’Ucraina non fa già parte della NATO? Svezia, Finlandia e Ucraina erano tutte e tre già partner della NATO, ma alle prime due è stata concessa la membership a pieno titolo senza fare tante storie, mentre l’Ucraina è ancora in lista d’attesa. Prudentemente la NATO non ha ritenuto opportuno inglobare un Paese che aveva dispute di confine con la Russia, però lo ha ritenuto degno di comprarsi le sue armi; per cui un Paese povero come l’Ucraina era anche uno di quelli con la maggiore spesa militare. Un banale lobbying delle armi adotta l’iperbole pubblicitaria dello slogan dello scontro di civiltà, e il monsignore ci casca.
Mentre la politica dovrebbe potersi consentire un basso profilo, il lobbying invece non può assolutamente farlo, poiché non è in grado di fare a meno dell’iperbole pubblicitaria, che trasforma anche un tubetto di dentifricio in una scelta esistenziale. Tra l’altro le lobby sono trasversali al pubblico ed al privato, e i lobbisti passano con disinvoltura dagli incarichi pubblici a quelli privati e viceversa. Di Draghi e Goldman Sachs si è già parlato anche troppo, ma l’attuale presidente della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde, non sta messa meglio. Sul sito della BCE la Lagarde esibisce il suo ricco curriculum, che annovera anche una lunga esperienza con uno studio legale americano che si occupa di consulenza finanziaria, il Baker McKenzie.
Dai famosi “Pandora Papers” sono venute fuori le commistioni dello Studio Baker McKenzie con molte società con sede in paradisi fiscali. Certo, quando ci lavorava la Lagarde tutte quelle brutte cose non succedevano, anzi, la sua esperienza nel settore privato ci dimostra che è una “competente”.
Grazie al politicamente corretto gli Africani non sono più chiamati “negri”, però si deve chiamarli “corrotti”. Il Fondo Monetario Internazionale è costernato: ma quanto sono corrotti questi governi africani con cui ho a che fare! Chissà da chi hanno preso. Per riallacciare i rapporti col FMI, il Congo Kinshasa ha dovuto versare una parcella per consulenze (in pratica una tangente) allo Studio Baker McKenzie, lo stesso studio in cui lavorava la Lagarde, la quale ha diretto per anni anche il FMI. Ma non è che per caso il Baker McKenzie e il FMI fanno cosca unica? Per carità, qui non siamo in Africa dove c’è la corruzione o in Russia dove ci sono gli oligarchi. Nel Sacro Occidente non si chiamano corrotti o oligarchi, si chiamano “competenti”, anche se si sta parlando della stessa cosa. Da noi c’è una super-razza, quella dei “competenti”, esseri superiori che possono alternare carriere nel pubblico e nel privato, perché sono al di sopra delle meschinità umane, e noi dobbiamo essergli grati per questo.
Qualche mente gretta e invidiosa potrebbe supporre che la mitologia dei “competenti”, le gerarchie antropologiche su cui si fonda l’aura delle sedicenti élite, siano in realtà solo una campagna pubblicitaria ed una etichetta ingannevole con cui vengono vendute alla pubblica opinione le solite corruttele e il malcostume delle porte girevoli tra pubblico e privato. Il “vile affarista” di cui ci parlava Cossiga, si nobilita attraverso i miti della razza superiore. Nelle società classiste le differenze di status sono percepite come vere e proprie cesure antropologiche, quindi non ha senso riferire il razzismo solo al colore della pelle.
Ogni business ci viene venduto come una via di salvezza per il genere umano. Ma ognuna di queste vie di salvezza risulta compatibile con le altre? Transizione ecologica e transizione digitale possono stare assieme? La digitalizzazione si sta dimostrando sempre più energivora. Il quotidiano “The Guardian” ha pubblicato i risultati di ricerche secondo le quali il digitale potrebbe risucchiare nell’immediato futuro qualcosa come il 20% delle risorse energetiche del pianeta. Il bello è che adesso ci preparano anche un altro business salvifico altrettanto poco compatibile con la digitalizzazione: il razionamento, che ci venderanno tramite quella grande gallina dalle uova d’oro che è la bolletta. Il lobbista ti fa credere di avere una visione d’insieme dei problemi, ma per definizione non può averla, poiché tutta la sua azione è funzionale a quello specifico business.
In pubblicità ci sono i “testimonial”, cioè associare un’immagine positiva ad un certo prodotto. Ma ci sono anche i “contro-testimonial”, cioè associare un’immagine negativa al rifiuto di un certo prodotto. Questa tecnica del contro-testimonial è stata messa in atto con i vaccini. C’è una fascia di opinione pubblica che non si fida delle campagne vaccinali, in base alla constatazione che queste mobilitano troppi soldi e troppi conflitti di interessi, perciò il sistema dei controlli non risulta attendibile. Altri dubitano dell’opportunità di spostare le risorse finanziarie della Sanità verso prodotti effimeri come i vaccini, a scapito di strutture durevoli. Si possono aggirare queste perplessità molto concrete semplicemente associandole ad un’immagine oscurantistica e ridicola come i terrapiattisti. Ammesso che la diatriba fra terrapiattisti e debunkers non sia solo un gioco delle parti fra troll, non si giustificherebbe comunque perché ti si venda un prodotto associandolo ad un senso di superiorità morale e culturale. Come le auto di lusso, oggi anche il vaccino ti conferisce uno status, il rango sociale di adepto dell’Ascienza; per cui si sfrutta lo spirito di competizione dei consumatori per indurli a sorvolare sulle contraddizioni tra i vari business.
Ringraziamo Cassandre.
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