Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Alla destabilizzazione della Siria avviata nel 2011 ha partecipato una notevole coalizione internazionale, composta dagli USA, dalla Francia, dal Regno Unito, dalle petro-monarchie del Golfo Persico e dalla Turchia. L’operazione si è risolta in un parziale fallimento, poiché il regime di Assad ha retto ed ha consolidato la sua alleanza con la Russia e con l’Iran. Un fallimento non completo, poiché la Siria è stata neutralizzata come potenza militare per molti anni a venire.
Da qualche anno l’opera di destabilizzazione si è concentrata nuovamente sul Libano, sede di uno dei principali alleati della Siria e dell’Iran, cioè il partito-milizia sciita Hezbollah. Da anni il Libano è oggetto di sanzioni, di isolamento internazionale e di criminalizzazione politica. Anche la Germania ha collocato Hezbollah nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. Dato che Hezbollah è un partito politico che prende molti voti, il fatto di considerarlo un’organizzazione terroristica appare come un chiaro invito ad una nuova guerra civile in Libano.
Il senso strategico di quest’opera di destabilizzazione dell’area del Vicino e Medio Oriente non risulta per niente chiaro. Se lo scopo è di eliminare i possibili avversari di Israele, ciò comunque si andrebbe a scontrare con i limiti di potenza militare dello stesso Israele, che ha largamente dimostrato di non possedere la consistenza per diventare egemone nell’area. Il mito della potenza militare israeliana si regge ancora sulla Guerra dei Sei Giorni del 1967; ma già nel 1973 Israele rimediò una batosta contro l’Egitto e fu salvato dall’intervento, anche se non dichiarato, degli USA. Nel 2006 Israele ha cercato di nuovo di invadere il Libano, rimediando un’altra sconfitta contro una semplice milizia come Hezbollah.
L’unica potenza che può aspirare ad un ruolo egemone nell’area è la Turchia, che detiene anche lo spessore demografico per sostenerne lo sforzo. Attaccando Siria, Iran e Libano, gli USA stanno di fatto “inventando” la Turchia come grande potenza regionale e nei prossimi anni dovranno incaricarsi di ridimensionarla attraverso un’ulteriore opera di destabilizzazione. Del resto la nascita della stessa milizia di Hezbollah, oggi principale bersaglio degli USA, fu un effetto della destabilizzazione del Libano operata da Israele tra la metà degli anni’70 e l’inizio degli anni ’80. Analogamente, l’emergere dell’Iran come potenza regionale è stato l’ovvio risultato della scelta statunitense di liquidare il suo naturale contrappeso nell’area, cioè l’Iraq di Saddam Hussein.
Il motivo di questi apparenti paradossi è che gli imperialismi non procedono per strategie ma, pavlovianamente, per schemi comportamentali. Lo schema imperialistico del destabilizzare i presunti avversari di oggi per crearsi l’avversario da destabilizzare domani, fu inaugurato dal Regno Unito nei primi decenni dell’800 e sostituì lo schema precedente della politica dei contrappesi tra le varie potenze. Lo schema del mobbing internazionale e della criminalizzazione della vittima di turno, che culmina poi in aggressioni aperte, fu sperimentato dal Regno Unito contro la Cina con le guerre dell’oppio.
Il Libano ha vissuto pochi giorni fa un altro capitolo della guerra a bassa intensità di cui è fatto bersaglio. La strana esplosione nel porto di Beirut non è però un episodio da potersi considerare tanto a “bassa intensità”, poiché causerà anche un’ondata di profughi con il conseguente depauperamento demografico del Paese. Sta continuando parallelamente la psywar, la guerra psicologica, contro il Libano. Un analista, “arabo” di etichetta ma in effetti occidentalista puro e duro, ci fa sapere dal suo blog sul “Fatto Quotidiano” che dopo le sanzioni, l’isolamento, la criminalizzazione e l’esplosione, ora il Libano rischia la “credibilità”.
“Credibilità” è una delle parole magiche del lessico del politicorretto, un nonsenso che serve a dissimulare il fatto che un certo Paese sia sotto un mobbing internazionale e che gli aggressori si atteggino a giudici imparziali della loro vittima. Come già aveva fatto dieci anni fa il suo collega Robert Ford in Siria, oggi l’ambasciatrice USA in Libano, Elizabeth Richard, si prodiga in una instancabile opera di “denuncia” dei mali del Paese: la “corruzione” e Hezbollah. L’ambasciatrice ha anche potuto rivendicare il ruolo di vittima, poiché la magistratura libanese ha sanzionato un’emittente che aveva diffuso sue dichiarazioni che istigavano alla guerra civile contro Hezbollah. Che gli ambasciatori USA approfittino delle loro immunità e dei loro privilegi diplomatici per trasformarsi in capi della rivolta contro il regime che li ospita, è già abbastanza criminale; sarebbe poi interessante vedere se i media USA sarebbero disposti a concedere altrettanto spazio ad ambasciatori stranieri che denunciassero i mali americani, auspicando magari una guerra civile come soluzione.
Il tema della corruzione è molto caro alla propaganda USA poiché molto “gerarchizzante”, pone cioè il Paese che è oggetto della “denuncia” in palese stato di inferiorità morale. Il governo libanese di Hassan Diab non ha esitato a sottomettersi ed umiliarsi e, all’atto delle dimissioni, ha attribuito il disastro del porto di Beirut alla “corruzione endemica” dell’amministrazione. Si tratta di un’affermazione senza senso poiché il Libano di sessanta anni fa era corrotto quanto e più di quello attuale, eppure Beirut era una città-vetrina che riscuoteva l’ammirazione invidiosa degli occidentali. Si tratta comunque delle regole del mobbing, che prevedono che l’essere aggrediti sia una colpa e che l’aggredito debba sentirsi in colpa.
Gli USA non rischiano accuse di questo genere, anzitutto perché sono al vertice della gerarchia internazionale, ed anche perché da loro la corruzione è stata da tempo legalizzata dalla Corte Suprema, che ha riconosciuto la liceità dei finanziamenti delle corporation ai politici, ciò in nome della libertà di espressione. Quindi ciò che altrove viene etichettato come corruzione, negli USA si chiama “libertà”. Tanta saggezza ha riscosso da noi il plauso del Centro Einaudi.
In uno dei romanzi basati sul personaggio di Hannibal Lecter si scopre che il meschino è diventato cannibale perché ha avuto un’infanzia difficile. Al contrario, il cannibalismo bancario di Intesa Sanpaolo sembra sia dovuto ad un’infanzia, ad un’adolescenza ed una maturità troppo facili. Il “facilitatore”, il tutore, che ha assistito e aiutato questo gruppo bancario, sin dai suoi esordi alla fine degli anni ‘80 nelle vesti di Banco Ambrosiano-Veneto, è stato un personaggio-icona della “sinistra morale” e politicorretta, cioè Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca ancora Governatore della Banca d’Italia.
Nel 1997, diventato ministro del Tesoro del primo governo Prodi, l’ex Governatore Ciampi ebbe modo di esternare in un discorso ai banchieri i motivi che lo spingevano a incentivare le fusioni bancarie. A parere di Ciampi la concentrazione bancaria era la premessa e la condizione per estromettere la mano pubblica dal settore bancario. Oligopolio bancario e privatizzazione venivano quindi individuati da Ciampi come fenomeni correlati e interdipendenti. In un contesto economico di crescente caduta dei saggi di profitto, l’intervento pubblico era infatti l’unico possibile argine contro la tendenza alla concentrazione dei capitali in poche mani private. Dagli anni ‘90 la mano pubblica si è messa ad operare addirittura nel senso opposto, cioè di assistere e finanziare le privatizzazioni e la concentrazione dei capitali, spacciandole acriticamente come “efficienza”.
L’altro aspetto posto in rilievo da Ciampi era la necessità di ridurre il costo del lavoro nel settore bancario attraverso drastiche riduzioni di personale. Negli anni ’60 e ’70 l’assistenzialismo per ricchi era stato giustificato con la necessità di aiutare le imprese a creare posti di lavoro. Con le dichiarazioni di Ciampi la finzione cadeva, per cui il ministro di un governo di “centrosinistra” ammetteva di fare assistenzialismo per banchieri con lo scopo di consentirgli di tagliare i posti di lavoro.
Da notare il fatto che l’impiegato di Banca era stato una delle figure-simbolo del ceto medio negli anni del boom economico. Qualcuno ricorderà la canzone del 1965 “Io vado in banca” dei Gufi, nella quale si metteva in caricatura l’ideale di quieto vivere borghese incarnato dall’impiegato di banca. La fine della guerra fredda e la conseguente restaurazione oligarchica hanno segnato l’avvio di un drastico regolamento di conti non solo con la classe operaia ma anche col ceto medio, di cui le oligarchie avevano dovuto favorire l’espansione in funzione antisovietica. In questo senso ciò che è avvenuto in Italia dal 1992 in poi non può essere interpretato soltanto come un’operazione coloniale nei confronti dell’Italia. Il colonialismo europeo è stato voluto e sollecitato dalle oligarchie italiane per avere una sponda esterna nell’opera di restaurazione dei rapporti di classe all’interno.
Per decenni il ceto medio dei risparmiatori e dei piccoli imprenditori aveva vissuto un rapporto pseudo-idilliaco con la propria banca, sentendosi servito e riverito. Magari era un’illusione, ma quello che è arrivato dopo è stata la materializzazione di un incubo, che ha assunto anche la forma estrema del “bail-in”, cioè del salvataggio interno a spese dei risparmiatori della banca in crisi. Il terrore generato dal bail-in nei risparmiatori ha rappresentato un ulteriore fattore di instabilità del sistema bancario e, di conseguenza, una spinta energica al cannibalismo bancario.
Tenere la cronaca delle “incorporazioni” da parte di Intesa Sanpaolo richiederebbe pagine e pagine. Nel 2018 è avvenuta anche la sua definitiva “digestione” del Banco di Napoli e di molti altri istituti di credito. Oggi che non c’è più Ciampi per il cannibalismo di Intesa Sanpaolo continuano a non mancare i “facilitatori”. L’acquisizione di UBI Banca infatti non ha trovato alcun ostacolo, semmai avalli cavillosi sia dalla Banca Centrale Europea, sia dalla Consob, sia dall’Antitrust.
Non finisce qui: altre fusioni bancarie sono già in atto. La prossima tappa riguarda la fusione di Monte dei Paschi di Siena, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare di Sondrio e BPER, cioè l’ex Banca Popolare dell’Emilia-Romagna, che a sua volta ha già “incorporato” Unipol Banca ed ha persino una miriade di società controllate, tra cui il Banco di Sardegna.
Le fusioni bancarie vengono cantate dai media come foriere di sorti luminose per l’economia nazionale. La ricerca empirica però non ha quasi mai confortato queste attese; anzi, passato il breve periodo dell’euforia di Borsa delle speculazioni azionarie, l’affare di solito non si rivela vantaggioso neppure per il cannibale; eppure queste acquisizioni continuano, sebbene non siano gratificate dai risultati.
Negli USA la ricerca scientifica sul fenomeno delle fusioni bancarie, ha cercato di spiegare questo paradosso con motivazioni psicologiche dei manager, come il cosiddetto ”Ego Trip”. In realtà il problema non riguarda tanto la megalomania dei manager, bensì quella spinta oligarchica alla concentrazione dei capitali di cui Ciampi è stato un efficace teorico oltre che meticoloso attuatore pratico.
Una delle critiche che vengono più spesso mosse alle fusioni bancarie è che facciano venire meno la concorrenza tra gli istituti di credito. In realtà le banche hanno sempre fatto cartello e di concorrenza se ne è sempre vista davvero poca. Il vero problema è che le fusioni accelerano il processo di distacco delle banche dal territorio e quindi dall’attività di credito per imprese e famiglie. Le banche così si inoltrano sempre di più sul terreno della speculazione finanziaria, dove trovano oggi concorrenti più attrezzati di loro, cioè i fondi di investimento, di cui il più famoso è Blackrock, che è già il secondo azionista di Intesa Sanpaolo. La spinta alla concentrazione dei capitali comporterà probabilmente una cannibalizzazione del sistema bancario da parte dei fondi di investimento.
In collaborazione con Claudio Mazzolani.
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