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LA GUERRA A “BASSA INTENSITÀ” CONTRO IL LIBANO
Di comidad (del 13/08/2020 @ 00:32:37, in Commentario 2020, linkato 6318 volte)
Alla destabilizzazione della Siria avviata nel 2011 ha partecipato una notevole coalizione internazionale, composta dagli USA, dalla Francia, dal Regno Unito, dalle petro-monarchie del Golfo Persico e dalla Turchia. L’operazione si è risolta in un parziale fallimento, poiché il regime di Assad ha retto ed ha consolidato la sua alleanza con la Russia e con l’Iran. Un fallimento non completo, poiché la Siria è stata neutralizzata come potenza militare per molti anni a venire.
Da qualche anno l’opera di destabilizzazione si è concentrata nuovamente sul Libano, sede di uno dei principali alleati della Siria e dell’Iran, cioè il partito-milizia sciita Hezbollah. Da anni il Libano è oggetto di sanzioni, di isolamento internazionale e di criminalizzazione politica. Anche la Germania ha collocato Hezbollah nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. Dato che Hezbollah è un partito politico che prende molti voti, il fatto di considerarlo un’organizzazione terroristica appare come un chiaro invito ad una nuova guerra civile in Libano.
Il senso strategico di quest’opera di destabilizzazione dell’area del Vicino e Medio Oriente non risulta per niente chiaro. Se lo scopo è di eliminare i possibili avversari di Israele, ciò comunque si andrebbe a scontrare con i limiti di potenza militare dello stesso Israele, che ha largamente dimostrato di non possedere la consistenza per diventare egemone nell’area. Il mito della potenza militare israeliana si regge ancora sulla Guerra dei Sei Giorni del 1967; ma già nel 1973 Israele rimediò una batosta contro l’Egitto e fu salvato dall’intervento, anche se non dichiarato, degli USA. Nel 2006 Israele ha cercato di nuovo di invadere il Libano, rimediando un’altra sconfitta contro una semplice milizia come Hezbollah.
L’unica potenza che può aspirare ad un ruolo egemone nell’area è la Turchia, che detiene anche lo spessore demografico per sostenerne lo sforzo. Attaccando Siria, Iran e Libano, gli USA stanno di fatto “inventando” la Turchia come grande potenza regionale e nei prossimi anni dovranno incaricarsi di ridimensionarla attraverso un’ulteriore opera di destabilizzazione. Del resto la nascita della stessa milizia di Hezbollah, oggi principale bersaglio degli USA, fu un effetto della destabilizzazione del Libano operata da Israele tra la metà degli anni’70 e l’inizio degli anni ’80. Analogamente, l’emergere dell’Iran come potenza regionale è stato l’ovvio risultato della scelta statunitense di liquidare il suo naturale contrappeso nell’area, cioè l’Iraq di Saddam Hussein.

Il motivo di questi apparenti paradossi è che gli imperialismi non procedono per strategie ma, pavlovianamente, per schemi comportamentali. Lo schema imperialistico del destabilizzare i presunti avversari di oggi per crearsi l’avversario da destabilizzare domani, fu inaugurato dal Regno Unito nei primi decenni dell’800 e sostituì lo schema precedente della politica dei contrappesi tra le varie potenze. Lo schema del mobbing internazionale e della criminalizzazione della vittima di turno, che culmina poi in aggressioni aperte, fu sperimentato dal Regno Unito contro la Cina con le guerre dell’oppio.
Il Libano ha vissuto pochi giorni fa un altro capitolo della guerra a bassa intensità di cui è fatto bersaglio. La strana esplosione nel porto di Beirut non è però un episodio da potersi considerare tanto a “bassa intensità”, poiché causerà anche un’ondata di profughi con il conseguente depauperamento demografico del Paese. Sta continuando parallelamente la psywar, la guerra psicologica, contro il Libano. Un analista, “arabo” di etichetta ma in effetti occidentalista puro e duro, ci fa sapere dal suo blog sul “Fatto Quotidiano” che dopo le sanzioni, l’isolamento, la criminalizzazione e l’esplosione, ora il Libano rischia la “credibilità”.
“Credibilità” è una delle parole magiche del lessico del politicorretto, un nonsenso che serve a dissimulare il fatto che un certo Paese sia sotto un mobbing internazionale e che gli aggressori si atteggino a giudici imparziali della loro vittima. Come già aveva fatto dieci anni fa il suo collega Robert Ford in Siria, oggi l’ambasciatrice USA in Libano, Elizabeth Richard, si prodiga in una instancabile opera di “denuncia” dei mali del Paese: la “corruzione” e Hezbollah. L’ambasciatrice ha anche potuto rivendicare il ruolo di vittima, poiché la magistratura libanese ha sanzionato un’emittente che aveva diffuso sue dichiarazioni che istigavano alla guerra civile contro Hezbollah. Che gli ambasciatori USA approfittino delle loro immunità e dei loro privilegi diplomatici per trasformarsi in capi della rivolta contro il regime che li ospita, è già abbastanza criminale; sarebbe poi interessante vedere se i media USA sarebbero disposti a concedere altrettanto spazio ad ambasciatori stranieri che denunciassero i mali americani, auspicando magari una guerra civile come soluzione.

Il tema della corruzione è molto caro alla propaganda USA poiché molto “gerarchizzante”, pone cioè il Paese che è oggetto della “denuncia” in palese stato di inferiorità morale. Il governo libanese di Hassan Diab non ha esitato a sottomettersi ed umiliarsi e, all’atto delle dimissioni, ha attribuito il disastro del porto di Beirut alla “corruzione endemica” dell’amministrazione. Si tratta di un’affermazione senza senso poiché il Libano di sessanta anni fa era corrotto quanto e più di quello attuale, eppure Beirut era una città-vetrina che riscuoteva l’ammirazione invidiosa degli occidentali. Si tratta comunque delle regole del mobbing, che prevedono che l’essere aggrediti sia una colpa e che l’aggredito debba sentirsi in colpa.
Gli USA non rischiano accuse di questo genere, anzitutto perché sono al vertice della gerarchia internazionale, ed anche perché da loro la corruzione è stata da tempo legalizzata dalla Corte Suprema, che ha riconosciuto la liceità dei finanziamenti delle corporation ai politici, ciò in nome della libertà di espressione. Quindi ciò che altrove viene etichettato come corruzione, negli USA si chiama “libertà”. Tanta saggezza ha riscosso da noi il plauso del Centro Einaudi.