Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Jerome Powell, il presidente della banca centrale statunitense, la Federal Reserve, ha annunciato la scorsa settimana che d’ora in poi il suo obbiettivo istituzionale non sarà più di mantenere un tasso fisso di inflazione al 2%, bensì questa percentuale sarà considerata come tasso medio. Secondo il presidente della Fed questa nuova politica monetaria andrebbe a privilegiare l’occupazione invece che la stabilità dei prezzi. L’annuncio di Powell è stato considerato una “svolta epocale” non solo dalla stampa europea ma anche da quella americana.
Siamo in piena deflazione, cioè crollo dei prezzi e dell’occupazione, perciò non preoccuparsi dell’inflazione sarebbe puro buonsenso. In realtà, l’annuncio di Powell sa del classico “troppo bello per essere vero”. Anzitutto indicare il 2% di inflazione come tasso medio, vuol dire sì che si potrà sforare al 3% oppure al 4% ma significa anche che, per recuperare la media stabilita, occorrerà scendere all’1%, o addirittura allo zero. C’è poi da rilevare che la deflazione comporta una condizione di schiavitù per debiti, sia per gli Stati, sia per le famiglie. La deflazione determina infatti un crollo dei redditi e delle entrate fiscali, con una conseguente maggiore dipendenza dal debito, senza peraltro alcuna prospettiva che i creditori vedano eroso il valore dei loro crediti dall’inflazione.
Risulta quindi ovvio che esista una lobby della deflazione, cioè una lobby dei creditori, una coalizione di interessi delle grandi multinazionali del credito, che fa le sue fortune in deflazione e che non ha voglia che le cose cambino. Se si pensa che i gruppi industriali la pensino molto diversamente a riguardo, si è in errore, poiché la deflazione azzera il potere contrattuale del lavoro ed abbatte i salari.
Il punto è che il monopolio ideologico della lobby della deflazione non si esprime nella formula “la deflazione è bella”, ma in forme più insidiose e indirette. Ad esempio, in Europa l’Italia passa per essere il Paese che con più convinzione si batte contro le politiche di austerità che alimentano la deflazione e la disoccupazione. Gli enunciati però si scontrano con un retroterra ideologico molto diverso che implica risultati spesso opposti a quelli che ci si aspetterebbe.
La deflazione e l’austerità non si presentano come obbiettivi desiderabili in sé, bensì come una strada dolorosa ma obbligata, come “una medicina amara ma necessaria” per rimediare alle colpe passate di popoli che “hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi”. Il tono dolente è funzionale all’intento doloso. Questi popoli che non hanno saputo amministrarsi, devono rimanere in soggezione per essere “educati” ad accedere, in un futuro molto ipotetico, alle “virtù” che consentano di governarsi da soli. Questa operazione ideologica non ci viene imposta dall’esterno ma, al contrario, è tutta “made in Italy”. Si tratta del plurisecolare mito del “Paese Senza”, secondo il titolo del noto saggio del 1980 di Alberto Arbasino; un saggio che si ispirava appunto a quella lunga tradizione del pensiero italiano.
L’Italia si presenta a se stessa come una nazione incompiuta, poiché non ha avuto la Riforma Protestante e non ha avuto neppure la Rivoluzione Borghese, quindi non avrebbe nemmeno un vero capitalismo. L’Italia sarebbe il Paese delle mancate riforme, della “mancanza” tout-court. Ciò che ha reso automaticamente credibili le emergenze finanziarie del 1976, del 1992 e del 2011 è appunto l’idea radicata che vi sia un atavico passato colpevole ed omissivo che incombe sul presente e sul futuro del Paese. L’espiazione sociale, i “sacrifici”, rappresenterebbero perciò la scontata, inevitabile, conseguenza delle tare ereditarie della nazione.
Lo schema propagandistico della “Europa bella, austerità brutta” si rivela perciò piuttosto ipocrita, in quanto l’europeismo, cioè l’autocolonialismo della ricerca del ”vincolo esterno”, si concretizza in un preciso strumento di pauperizzazione sia del ceto lavoratore, sia del ceto medio. Proclamare la propria inferiorità e inadeguatezza come popolo, comporta per i ceti dominanti dei notevoli vantaggi nella gestione dell’oppressione di classe.
Il Recovery Fund è stato presentato come una svolta solidaristica dell’Unione Europea ed effettivamente sembrerebbe una risposta di Germania e Francia alle pressioni dell’Italia, in quanto comporta anche l’istituzione di una sorta di Eurobond. Il problema è che però, mentre gli effetti in termini di aiuto del Recovery Fund sono tutti da verificare, i dati certi riguardano l’allargamento del bilancio comunitario, quindi un esborso immediato da parte dell’Italia, oltre che un crescente controllo esterno sulle proprie finanze. L’effetto certo è quindi un rafforzamento del “vincolo esterno”.
L’ideologia è tale perché genera non un semplice conformismo ma una vera e propria falsa coscienza, perciò nulla esclude che i nostri governanti siano persino sinceri quando affermano di combattere contro l’austerità. Ma la questione non è stabilire se i nostri governanti si salveranno o meno l’anima.
Germania e Francia hanno rivendicato il Recovery Fund come una propria creatura ma, a ben vedere, il ruolo del motore in tutta la vicenda è stato svolto dall’Italia, che, dal punto di vista ideologico, è il vero Paese leader dell’Unione Europea. L’azione dell’Italia ha finito per assegnare anche le parti in commedia ai vari membri dell’Unione: le “cicale e le formiche”, gli “spendaccioni” e i “frugali”.
La ricerca storica si è molto concentrata su ciò che è “mancato” all’Italia, su ciò che l’Italia non ha fatto e avrebbe dovuto fare. L’attenzione eccessiva a ciò che sarebbe mancato, ha fatto sfuggire ciò che invece c’è, anzi, che incombe. L’Italia non è solo un “Paese senza”, è soprattutto un “Paese con”. Un Paese con una lobby della deflazione molto agguerrita, una lobby che è riuscita a colonizzare la cultura e le coscienze persino degli “oppositori”. L’Italia spacciata per frivola e spendacciona, è di fatto l’unico Paese al mondo che abbia portato alla Presidenza della Repubblica due eroi della deflazione, cioè due ex Governatori della Banca d’Italia: Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi.
L’apparato mediatico si era attivato per liquidare la manifestazione berlinese del 29 agosto scorso contro il lockdown e il “distanziamento sociale” nei termini del politicamente corretto, cioè come un’adunata di “negazionisti”, complottisti, terrapiattisti e nazisti. Ciò in sé non costituirebbe un dato molto rilevante, poiché solo in base ad una visione ingenua si potrebbe pensare alla possibilità di un potere disposto a confrontarsi col dissenso in termini aperti.
In realtà tutti i poteri, anche i micropoteri più informali e insignificanti, possono ammettere il dissenso solo in astratto, salvo poi ricorrere alla ridicolizzazione ed alla criminalizzazione non appena si esercita in concreto. Non esistono poteri buoni e neanche poteri mezzo-cattivi; la pericolosità di un potere è data dalla potenza materiale in termini militari, finanziari e mediatici che è in grado di esprimere. Ogni emergenza diventa una cordata di affari e dietro all’emergenza-Covid si è formata una coalizione di interessi che va dalle multinazionali finanziarie sino a quelle farmaceutiche e del digitale. Siamo quindi di fronte ad una notevole “potenza di fuoco” che è in grado di spaventare le masse molto più del Covid; tanto che molti ormai ostentano la loro mascherina anche fuori dagli orari di obbligo, solo per allontanare da sé qualsiasi sospetto di essere dei “negazionisti”.
L’aspetto curioso nel tentativo mediatico di esorcizzare il dissenso nei canoni consolidati del politicamente corretto, è che evidentemente non ci si aspettava che gli organizzatori della manifestazione berlinese fossero in grado di contrapporre ai media addirittura un’icona del politicamente corretto, cioè Robert Kennedy Junior, il figlio del senatore assassinato a Los Angeles nel 1968.
La sorpresa è stata del tutto fuori luogo, dato che oggi il liberalismo/occidentalismo, nella moderna versione del politicorretto, rappresenta l’ideologia unica e dominante, tanto che neppure le opposizioni vi sfuggono. Nei canoni del politicorretto rientra anche il fatto che Robert Kennedy Jr. sia un miliardario, come Soros e Trump, poiché i miliardari che “vanno incontro al popolo” sono i nuovi “santi” della religione politicorretta. Oggi il loro miliardario di riferimento non ce l’hanno solo i globalisti e i “sovranisti” ma anche gli oppositori che vorrebbero non farsi ingabbiare in quella fittizia dicotomia.
I media hanno cercato di correre ai ripari in modo un po’ goffo, presentando Robert Jr. come lo scemo di famiglia. Risulta però davvero poco realistico che un Kennedy, cioè un esponente dell’oligarchia statunitense (per quanto in standby), potesse partire per parlare dal palco di Berlino senza delle garanzie sulla qualità e quantità del pubblico che avrebbe dovuto trovarsi davanti e, soprattutto, senza delle coperture all’interno dell’establishment statunitense. Del resto il fatto che le autorità tedesche siano state costrette a smentirsi ed a concedere la manifestazione, indica che qualcosa nei rapporti di forza si è modificato. Il politicorretto prevede infatti la possibilità di schierarsi dalla parte del più debole, ma soltanto nel caso che il debole abbia già uno molto forte alle spalle.
Con vibrante oratoria in tipico stile kennediano, Robert Jr ha detto al suo pubblico ciò che questo voleva ascoltare, dandogli anche in pasto i soggetti più sputtanati nella vicenda Covid per i loro sfacciati conflitti di interessi: Bill Gates, Anthony Fauci e Big Pharma. Robert Jr. ha detto però anche ciò che interessava a lui ed all’establishment USA, quando ha fatto riferimento al discorso pronunciato da suo zio John a Berlino il 26 giugno del 1963. Il senso di quel discorso del ’63, rivolto ai Russi ma anche ai Tedeschi, era piuttosto chiaro. Dire “sono un cittadino di Berlino”, per bocca di un presidente USA, significava: qua ci stiamo e qua rimaniamo. Il senso delle parole di Robert Jr., rivolte al governo tedesco, non era molto diverso. Magari quel senso è sfuggito a coloro che erano in piazza a Berlino ed ai media, ma sicuramente non è risultato oscuro ai veri destinatari.
L’emergenza Covid è partita dalla Regione Lombardia, con lo scopo evidente di accelerare l’integrazione del Nord Italia nell’orbita tedesco-bavarese. A colpi di insulti e fatti compiuti i biogolpisti della Regione Lombardia hanno forzato la mano al governo Conte, che sino a febbraio era apparso molto riluttante a proclamare il lockdown, anche se successivamente ci ha preso fin troppo gusto.
Le oligarchie del Nord Italia, eredi storiche dei vecchi “austriacanti” dell’800, sono infatti le prime vessillifere del colonialismo tedesco, con lo scopo di creare un’aggregazione delle Regioni “ricche” dell’Europa. Non era difficile prevedere che l’istituzione dell’Eusalp, la macroregione alpina a guida bavarese e che integra il Nord Italia, avrebbe sortito effetti destabilizzanti.
A proposito di destabilizzazione, anche il Recovery Fund, i cui effetti di “aiuto” sono praticamente nulli, va in realtà nella direzione della crescente dipendenza dalla Germania, alla quale, nella fiaba ufficiale, spetterebbe la missione di salvare l’Italia dal disastro economico dovuto al lockdown. L’emergenza Covid è stata quindi un episodio di guerra imperialistica “a bassa intensità”, attuata cioè con strumenti di boicottaggio economico e di guerra psicologica.
Tramite Robert Kennedy Jr. l’oligarchia statunitense ha lanciato però un monito per “raffreddare” le velleità neo-imperialistiche della Germania e dei suoi zelanti alleati del Nord Italia, che devono sempre ricordarsi di chi comanda davvero in Europa. Non a caso l’emergenza Covid è sempre più sotto tutela della NATO, che ha già irreggimentato le strutture sanitarie italiane per ciò che riguarda i test diagnostici.
Ringraziamo Mario C. “Passatempo” e Cassandre per le segnalazioni.
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