Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Dopo mesi di annunci a vuoto da parte di CialTrump, finalmente è arrivata la promessa svalutazione del dollaro. A salutare con la maggiore preoccupazione l’evento è stato il Super-Buffone di Francoforte, in arte Mario Draghi. Il presidente della BCE ha paventato gli effetti negativi che la corrispondente rivalutazione dell’euro rispetto al dollaro comporterà sulla esitante ripresina economica europea. In tal modo Draghi ha confermato quanto gli osservatori marginalizzati dai grossi media dicevano da tempo, cioè che il mitico “bazooka” di Draghi, il Quantitative Easing, non ha rilanciato l’economia europea per le sue iniezioni di liquidità in se stesse, ma per l’effetto di svalutazione dell’euro che ha reso più competitive le esportazioni.
Di questa realtà il dibattito economico ufficiale in Italia non tiene minimamente conto. Il ministro dell’Economia Padoan sin da aprile ha dichiarato che intende negoziare con Bruxelles nuovi margini di “flessibilità” sui vincoli di bilancio, offrendo “in cambio” le privatizzazioni. Padoan vuol quindi spacciare l’ennesima operazione di lobbying a favore delle multinazionali come una manovra di risanamento finanziario.
Stavolta la notizia non ha riempito di gioia i vertici del PD, i quali vedono così messe in forse le loro residue fonti di finanziamento, ma Padoan evidentemente si deve sentire forte delle protezioni sovranazionali, poiché ha riconfermato di voler procedere sulla strada di quelle che lui, con somma faccia tosta, chiama “riforme”. Da parte dei vertici del PD comunque le contromosse non sono affatto chiare. Il massimo che il Genio di Rignano è riuscito sinora a produrre riguarda le proposte sul superamento del Fiscal Compact e sulla riduzione generalizzata delle tasse.
Nelle condizioni attuali ridurre le tasse non servirebbe a nulla, poiché nulla assicura che ciò comporterebbe un aumento degli investimenti. Ammesso e non concesso che gli imprenditori non siano già intenzionati ad investire in speculazioni finanziarie all’estero quanto risparmiato nei confronti del fisco, c’è da considerare che un decennio di recessione ha spazzato via quasi un terzo dell’apparato industriale, quindi non basta mettere in circolazione più soldi per rilanciare la produzione.
A questo serviva il bistrattato IRI quando faceva il pieno di aziende “decotte”, cioè a preservare le capacità produttive in vista della eventuale ripresa. Oggi invece i macchinari delle fabbriche italiane dismesse sono già stati svenduti in India o in Indonesia. Per rimpiazzare quanto si è perso in termini di potenziale industriale in questi dieci anni, occorrerebbe un polo tecnologico pubblico in grado di assistere anche il sistema della piccola e media impresa: roba dai costi mostruosi per i vincoli del Trattato di Maastricht.
Le proposte di Renzi rimangono perciò a metà del guado, nella posizione ideale per affondare. Abolire il Fiscal Compact consentirebbe infatti soltanto di tornare ai deficit di bilancio del 3% dettato da Maastricht, quindi ricavando spiccioli rispetto a quanto si avrebbe bisogno.
Gli avversari di Renzi come Bersani neppure brillano per iniziativa. Bersani ammette che occorre rilanciare gli investimenti pubblici, ma poi il massimo che riesce a partorire è la proposta di ripresentare l’IMU sulla prima casa dei più abbienti. Ancora una volta si tratterebbe di spiccioli, ammesso che poi l’IMU non sortisca l’effetto di deprimere i valori immobiliari favorendo acquisizioni estere. Non a caso la reintroduzione dell’IMU è un “pallino” del Fondo Monetario Internazionale, la principale agenzia di lobbying delle multinazionali.
Bersani non proviene dal FMI come Padoan, perciò si può anche credere alla sua buona fede, ma sta di fatto che anche lui risulta vittima di una sudditanza ideologica al lobbying sovranazionale. Il dominio ideologico del FMI è davvero incontrastato a livello dei gruppi dirigenti; e sempre il FMI alimenta quella parodia del politicamente corretto vigente nella “sinistra”, che tra i suoi mantra annovera il fisco come via maestra all’equità sociale. Non per nulla in questi giorni è al centro del dibattito internazionale la questione del far pagare le tasse alle multinazionali del digitale. In sé sarebbe giusto, ma si tratta di un approccio che inverte i rapporti di causa ed effetto. Lo strapotere delle multinazionali costituisce la conseguenza diretta e inevitabile dei vincoli alla spesa pubblica. Il potere reale si misura in base alla capacità di spesa e lo Stato povero, avaro e “leggero” (lo Stato che non interviene in economia e che si limita a far rispettare le “regole”) predicato dai liberisti e neoliberisti, si riduce all’impotenza politica e a fare da riserva di lobbisti per le multinazionali.
Aveva quindi ragione Keynes quando diceva che il rilancio dell’economia richiederebbe un intervento diretto della mano pubblica, cioè della spesa pubblica. Il realismo economico di Keynes trionfa sul piano teorico nei confronti delle fiabe dei liberisti, ma si scontra poi con un difetto pratico, cioè che l’invocata mano pubblica non c’è, in quanto è occupata da lobby private.
Il lobbismo più o meno palese non è soltanto una caratteristica dei ceti politici ma soprattutto della burocrazia statale. Con il pretesto della informatizzazione della Pubblica Amministrazione, i dirigenti statali sono stati “formati” in corsi della multinazionale IBM, acquisendo una concezione privatistica della propria funzione che si riflette in un atteggiamento ostile e sprezzante nei confronti del proprio stesso personale. L’IBM, oltre che la macchina dello Stato, ha invaso anche le amministrazioni locali, a partire dalla Sanità regionale; tutto ciò con la benedizione della Lega Nord.
Non tutti i dirigenti della Pubblica Amministrazione sono dei lobbisti consapevoli, ma quelli inconsapevoli possono essere persino più pericolosi, poiché possono riversare nel loro astio nei confronti della pubblica funzione una sorta di furore messianico. Del resto gli Stati non hanno certo atteso l’euro per privarsi della “sovranità monetaria” e quindi della capacità di spesa. È da due secoli infatti che la gestione della moneta è affidata a banche centrali controllate da banche private, determinando il paradosso del controllato che fa anche da controllore. Il realismo economico del keynesismo dovrebbe quindi allargarsi sul piano politico, per cominciare magari a domandarsi se lo Stato sia mai davvero esistito o non sia soltanto un’astrazione giuridica ed una superstizione.
Non è un caso che di una questione di competenza delle istituzioni sanitarie come le vaccinazioni sia stata investita invece la Scuola, che non c’entrava nulla. Non è un caso neppure il fatto che il governo abbia adottato la linea della drammatizzazione artificiosa e della conseguente emergenza, determinando pasticci giuridici come quello di un “obbligo” scolastico condizionato alla presentazione di autocertificazioni o di certificazioni di vaccinazioni da parte dei genitori. E, ancora, non è un caso che la risoluzione dei conflitti derivanti da una normativa contraddittoria e caotica sia stata demandata a figure come i Dirigenti Scolastici, fabbricate appositamente in base ad una antropologia “manageriale” del diniego insolente e pregiudiziale, dell’ottusità e della rissosità.
La Scuola infatti non è più concepita come un’istituzione che debba svolgere una propria e specifica funzione, bensì come un laboratorio sociale del lobbying multinazionale. La scelta di usare la Scuola come veicolo di un terrorismo contro le famiglie non abbastanza sollecite a vaccinare i bambini, rientra appunto in un’operazione di lobbying a favore delle multinazionali farmaceutiche.
Nel laboratorio sociale i governi hanno finito per testare soprattutto la propria malafede: se Gentiloni e soci avessero davvero creduto nella necessità dei vaccini per tutelare la sanità pubblica, avrebbero pianificato e disciplinato l’obbligo della vaccinazione ed i relativi controlli nell’ambito delle ASL e della medicina di base. La scelta di usare la Scuola per innescare una concitata corsa alle vaccinazioni indica perciò che occorreva bruciare i tempi, prima che l’insorgenza di qualche grosso scandalo sulla qualità dei vaccini determinasse il rischio di far sgonfiare il business.
Se l’antropologia dei dirigenti scolastici è di marca bullistica, quella degli insegnanti è all’insegna dell’inconsapevolezza compiaciuta e opportunistica. Pur ricoperta di critiche da parte del corpo docente, l’alternanza Scuola-lavoro vede oggi un impegno meticoloso e volontaristico da parte degli insegnanti, i quali nella loro maggioranza non hanno neppure ritenuto di adottare una forma di resistenza simbolica, come l’aspettare almeno un ordine di servizio prima di collaborare.
Gli insegnanti non si sono resi conto (o non hanno voluto rendersi conto) di operare così per la propria delegittimazione. L’alternanza Scuola-lavoro infatti toglie autonoma dignità all'istruzione pubblica e la subordina al mercato del lavoro; ma ciò che risulta più grave è rappresentato dalla concezione del lavoro che viene così imposta alle giovani generazioni: non uno scambio ma una servitù. Il lavoro, qualsiasi lavoro, andrebbe pagato, ma il pretesto della “formazione” esime le aziende da questo obbligo che persino i preti una volta invocavano (“dare la giusta mercede all’operaio”).
Per criticare il capitalismo si dice spesso che il lavoro è una merce; poi si scopre che la situazione in realtà è molto, ma molto, peggiore. Se le merci si devono pagare, il lavoro invece può essere estorto attraverso la “formazione” ed il “volontariato”. Il governo aggiunge al danno la beffa annunciando una “Carta” contro gli “abusi” degli imprenditori ai danni degli studenti, come se l’abuso non fosse già intrinseco alla sottomissione istituzionalizzata dell’istruzione all’impresa.
La vicenda dell’ alternanza Scuola-Lavoro sfata anche un altro luogo comune sul potere, quello sul “consenso”. Storicamente le opposizioni rivoluzionarie sono state afflitte dagli scopritori dell’acqua calda, cioè da quelli che si accorgono improvvisamente che il potere ha il “consenso”; senza però mai precisare di che consenso si tratti. L’alternanza Scuola-lavoro ha dimostrato ancora una volta che ogni potere si avvale di una rendita di posizione che travalica consensi e dissensi e si avvale di un’obbedienza rassegnata e opportunistica.
Il governo Gentiloni ha rilanciato anche la riduzione del ciclo di istruzione superiore a quattro anni, cioè una Scuola-parcheggio conclamata; un’ipotesi che peraltro già si sperimentava da tempo ed era subordinata alla costruzione delle necessarie infrastrutture intermedie. Il ciclo di quattro anni corrisponde infatti al modello anglosassone, che demanda la vera istruzione ai corsi universitari e pre-universitari (il “College”, appunto, che non è altro che il vecchio Liceo che non si potrà più fare al Liceo). Tutti i corsi saranno ovviamente a pagamento o, meglio ancora, a credito. Si tratta del modello anglosassone di finanziarizzazione dell’istruzione che fa di ogni studente un potenziale indebitato cronico.
Non per nulla tra le materie di insegnamento scolastico da anni si sta introducendo la cosiddetta “educazione finanziaria”, cioè un merchandising di prodotti finanziari per studenti e famiglie. A proposto di agenzie di lobbying occulte: è la Banca d’Italia ad occuparsi istituzionalmente di promuovere l’educazione finanziaria nella Scuola.
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