Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
“Nella strage di Ankara sono morti anche due anarchici, Kemal Tayfun Benol e Ali Kitapçı.
Quest'ultimo, in particolare, è stato l'anima del movimento anarco-sindacalista turco e per questo i compagni gli hanno dedicato alcuni comunicati che credo meritino di essere conosciuti.” (Maria Chiara)
APPELLO ALLO SCIOPERO GENERALE DALL'INIZIATIVA ANARCHICA DI ISTANBUL (11/10) http://sosyalsavas.org/
Ieri non stavamo meglio di oggi. Domani, non staremo bene a causa di oggi.
Non staremo bene: l'assassino è tra di noi. Non staremo bene: il suo ingranaggio continua a girare. Non staremo bene, perché da ieri a oggi sono stati massacrati centinaia dei nostri amici, dei nostri fratelli, dei nostri compagni. Le loro vite sono state rubate una a una..
Sappiamo chi è l'assassino, e il suo ingranaggio cresce per distruggerci, gira per noi come un veleno.
Per non restare inermi di fronte al veleno che scorre da ieri a oggi, domani fermeremo ogni attività in ogni luogo per far crescere la nostra rabbia con la solidarietà.
INIZIATIVA ANARCHICA DI ISTANBUL
DOMANI DAREMO L'ADDIO AL COMPAGNO ANARCO-SINDACALISTA ALİ KİTAPÇI (11/10)
Domani, dopo mezzogiorno, verrà seppellito nel cimitero di Abkara Karşıyaka il nostro amico e compagno anarchico Ali Kitapçı, ucciso dalle bombe sabato 10 ottobre.
Per conoscenza di tutti i nostri compagni e tutti gli amici di Ali: alle 10 partirà un autobus di fronte al municipio di Çankaya (Ankara).
'Ali, Ali. Ali il sindacalista, Ali Kitapçı, fratello Ali, l'anarchico Ali, Ali nero come tutti gli anarchici. Non sappiamo in quella degli altri, ma nella nostra vita avevi un posto molto prezioso e importante. Se dicessimo che eri il primo sindacalista del movimento anarchico in Turchia probabilmente non sbaglieremmo. Uomo d'azione che durante gli scioperi rovesciava le locomotive, metteva le catene alle porte, bloccava le rotaie. Eri la nostra fonte di allegria. Adesso chi ci racconterà le storie della lotta anarco-sindacalista nelle miniere di carbone in Inghilterra..'
INIZIATIVA ANARCHICA
L’INIZIATIVA ANARCHICA: ‘IL TUO FUOCO BRUCERÀ CON NOI, ALI’ (12/10)
Salutiamo il nostro compagno Ali Kitapçı al Cimitero di Karşıyaka, raccogliendo le fiaccole della sua strenua lotta anarco-sindacalista.
Il nuovo mondo che hai fatto vivere nel tuo cuore continuerà a vivere nelle cose che ci hai raccontato, in quel tuo essere sempre spalla a spalla con noi, nella tua presenza costante al nostro fianco.
Il tuo fuoco brucerà con noi, Kitapçı!
INIZIATIVA ANARCHICA
Turchia, Ankara: Funerali dell’anarco-sindacalista Ali Kitapçı (13/10)
http://istanbul.indymedia.org/tr/node/183528
Il Meeting per la Pace, organizzato dai sindacati nazionali (DİSK: Confederazione dei Sindacati rivoluzionari della Turchia, KESK: Confederazione dei Sindacati degli impiegati pubblici, TMMOB: Unione delle Camere degli ingegneri e architetti turchi, TTB: Unione dei medici turchi), è stato cancellato a causa di un attacco con due bombe. Il meeting avrebbe dovuto svolgersi ad Ankara il 10 ottobre 2015 con una partecipazione nazionale. Le due esplosioni in successione hanno ucciso 128 persone e ferito più di 500. Questo terribile evento, che ha provocato la perdita di vita umana più grave avvenuta in un singolo evento in tutta la storia della Turchia, si è verificato esattamente un giorno prima dell’attesa dichiarazione di cessate il fuoco da parte del PKK/KCK.
Ali Kitapçı (1958-2015) era uno dei 14 membri del BTS-KESK (Sindacato indipendente dei trasporti) che sono rimasti uccisi nell’esplosione. Ali aveva conosciuto per la prima volta il movimento anarchico in Inghilterra e ha continuato ad essere attivo negli ultimi 30 anni. Al di là della sua lotta sindacale, è stato membro attivo di molte organizzazioni anarchiche ad Ankara sin dalla seconda metà degli anni 80, e ha cercato di unire gli anarchici in una lotta comune. È stato il primo a organizzare la causa anarco-sindacalista nella Turchia moderna. Era un’ispirazione per molti dei suoi compagni di idee e generazioni differenti.
Alla commemorazione organizzata il 12 ottobre dal suo sindacato nella Stazione ferroviaria di Ankara per tutti i membri del sindacato che hanno perso la vita, hanno partecipato migliaia di persone. Dopo questa commemorazione, il suo corpo è stato seppellito al Cimitero di Karşıyaka con la partecipazione della sua compagna di vita e di politica Emel, di suo figlio Artun Siyah e dei suoi compagni anarchici, arrivati da diverse parti della Turchia. I centinaia di anarchici che hanno partecipato ai suoi funerali hanno promesso di continuare la sua lotta.
Le parole della sua compagna Emel al funerale hanno espresso anche i sentimenti di tutti gli altri compagni: https://www.youtube.com/watch?v=iQib9-ulZcg
‘Il nostro cuore è con lui. La nostra rabbia viene alimentata dalla sua forza. Siamo tutti qui. Ma è solo il suo corpo quello che resterà qui. Lui sarà con noi per sempre. Sarà la nostra ispirazione e la nostra luce per sempre’.
Il testo seguente è stato scritto dagli anarchici, compagni di Ali:
Per Ali Kitapçı
Piove. Su tutti i ricordi che abbiamo con Ali..
Piove. Anche se da molto tempo ormai gli assassini hanno lavato via il sangue sulla strada.
Piove.
Tutte le volte che abbiamo bevuto insieme, tutte le manifestazioni a cui siamo andati, tutti gli slogan che abbiamo gridato, tutti i lacrimogeni che abbiamo respirato. Le crisi di asma di Ali..
Piove.
Lo Stato attacca.
Piove senza sosta.
Tutti i compagni, siamo insieme proprio come 20 anni fa.
Siamo insieme, proprio come succedeva nel 1936!
Ali aveva dato la sua vita alla lotta di classe, al movimento sindacale.
Era uno di quegli ‘eroi’ senza nome che lottava per trasformare il movimento anarchico da un debole respiro a una vivida alternativa di libertà.
Che il suo ricordo sia nostro compagno..
Non dimenticheremo, non perdoneremo!
Gli anarchici
http://www.bbc.com/news/world-europe-34511869?SThisFB
L’ultima parte di questo servizio della BBC (dal minuto 2:10), in inglese, è interamente dedicata ai funerali di Ali.
La catena dei forzati e lo sguardo pubblico
Fino al 1836 in Francia sopravviveva la tradizione di far marciare in catene i condannati alla prigione. I futuri galeotti venivano incatenati tra loro con collari di ferro e costretti a marciare sulla pubblica via trascinando i segni della propria condanna e mostrando al popolo, che accorreva numeroso, le conseguenze pronte ad abbattersi su chi violava la legge.
Il cammino verso la reclusione, l’ultimo viaggio prima di sparire dietro l’opacità segreta delle prigioni, avveniva dunque sotto gli occhi di tutti, in un cerimoniale pubblico di forte impatto visivo in grado di sprigionare sentimenti contrastanti. La partenza di queste catene umane richiamava il popolo in massa, esibiva il condannato alla folla, alle ingiurie, agli sputi, ma anche alla commozione, alla simpatia, alla complicità; lo esponeva allo sguardo pubblico e mostrava il suo sguardo al pubblico, in un rituale complesso il cui esito non era scontato.
“In tutte le città dove passava, la catena portava con sé la sua festa”. Non solo collari di ferro e catene, segni obbligati della punizione, adornavano i forzati in marcia, ma anche nastri di paglia e di fiori intrecciati, stracci di tessuti colorati, rammendati dagli stessi forzati su strambi copricapo e berretti sfoggiati per l’occasione. Un tocco colorato e irriverente di follia gioiosa, di scherno arlecchino e cenciaiolo, poteva trasformare questa marcia lugubre in una “fiera ambulante del crimine”, una sorta di tribù nomade e galeotta che irrideva i ferri a cui era stata ridotta, malediceva i giudici e ne ingiuriava i tormenti.
E poi quei canti, i canti dei forzati. Canti di marcia intonati collettivamente che tanto impressionavano la plebe e presto diventavano celebri passando di bocca in bocca. Canti che spesso “eccitavano più la fierezza di fronte al castigo” di quanto “non lamentassero il rimorso di fronte al crimine commesso”.
Tutto questo concorreva a incrinare un cerimoniale di giustizia inscenato dal potere come rituale della colpa e del pentimento, lo rendeva socialmente pericoloso perché capace di rovesciare i segni del potere, di mutarne l’ordine del discorso, di soverchiarne il codice morale.
Così scrive la «Gazette des tribunaux» il 19 luglio 1836: “non fa parte del nostro costume il condurre così degli uomini; bisogna evitare di dare, nelle città che il convoglio attraversa, uno spettacolo così orrendo, che d’altronde non è di alcun insegnamento per le popolazioni”. Di lì a poco il trasporto dei condannati verso le prigioni non sarebbe più avvenuto attraverso riti pubblici. Una mutazione tecnica interverrà a ripulire le pubbliche vie di un tale contraddittorio spettacolo: la vettura cellulare.
La vettura cellulare e lo sguardo panoptico.
Michel Foucault, attento studioso della nascita della prigione e dei suoi dispositivi accessori, scrive che “l’imprigionare, che assicura la privazione, ha sempre comportato un progetto tecnico” e che “la sostituzione nel 1837 della catena dei forzati con la vettura cellulare” è “sintomo e riassunto” di una mutazione tecnica, di un “passaggio da un’arte di punire a un’altra”.
La vettura cellulare non è da intendersi nei fatti semplicemente come un carro coperto adibito al trasporto dei condannati che prima venivano sottoposti al castigo supplementare della ferratura pubblica; è piuttosto da considerarsi come un’innovazione tecnica che segna un cambio di paradigma. Questa vettura era concepita come una prigione su ruote foderata di latta.
Impenetrabile allo sguardo esterno, sfila triste per le vie senza rivelare nulla di quanto contiene. Gli sventurati che vi montano, siano essi già condannati o in attesa di giudizio, viaggiano sempre in catene, ma ora in piccole celle singole che impediscono non solo di guardare verso l’esterno, ma anche di incontrare lo sguardo degli altri “passeggeri”. Un corridoio centrale permette invece alle guardie di controllare a vista tutti i trasportati attraverso uno sportello.
Così la «Gazette des tribunaux» descrive questo meccanismo di controllo interno: “l’apertura e la direzione obliqua degli sportelli sono combinate in modo che i guardiani tengano incessantemente gli occhi sui prigionieri, ascoltano le minime parole, senza che quelli possano riuscire a vedersi o a sentirsi tra loro”.
Non un semplice carro coperto, dunque, ma un dispositivo tecnico elaborato con obiettivi precisi: nascondere il condannato allo sguardo pubblico, impedire al condannato lo sguardo verso il mondo di fuori, negare lo sguardo complice tra forzati, perfezionare lo sguardo sorvegliante. Non una semplice scatola mobile di latta, ma una “vettura panoptica”, una prigione degli sguardi che annulla i fasti sbeffeggianti delle catene dei forzati e li rende ciechi, silenziosi, invisibili e controllabili.
L’opacità segreta delle prigioni si estende e anticipa il suo arrivo; la sua ombra ingloba il condannato e lo sottrae alla vista prima ancora che lui metta piede nella prigione stessa. Il pudore borghese delle riforme trasporta senza più mostrare come castiga, senza più dare spettacolo. Niente più gioco di sguardi tra popolo e criminale, l’unico sguardo tollerato è quello del guardiano sul penitente recluso.
La videoconferenza e lo sguardo disincarnato
Veniamo all’oggi e all’Italia. L’ultima frontiera nel campo dei “trasporti per motivi di giustizia” è il processo per videoconferenza, dove il trasporto semplicemente non avviene, se non in forma immateriale.
L’imputato di un processo che si trovi già in carcere per precedenti condanne, o che sia sottoposto a carcerazione preventiva, può essere processato a distanza, senza che debba abbandonare il carcere in cui è ristretto. Accompagnato in una sala attrezzata all’interno del carcere, segue il dibattimento su un apposito schermo, sotto l’occhio vigile delle guardie penitenziarie e quello tecnologico di una telecamera disposta a catturare la sua immagine e a ritrasmetterla nell’aula dove si celebra il processo che lo vede imputato.
Come il passaggio dalle “catene” alla “vettura cellulare”, l’introduzione della videoconferenza segna un passaggio che riassume in sé un cambio di paradigma. La videoconferenza è infatti un dispositivo tecnologico e come tale non è neutrale, ma al contrario la sua mediazione comporta mutazioni profonde che affondano nella viva carne di chi ha sfidato la legge.
Ne I miserabili, Victor Hugo descrive così il dispositivo punitivo per eccellenza, il patibolo: “il patibolo è visione. Il patibolo non è una struttura, il congegno inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra una specie di essere dotato di non so quale tetra iniziativa; sembra che quella struttura veda, che quella macchina oda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria che la sua presenza suscita nell’anima, il patibolo appare terribile a partecipe di ciò che fa. Il patibolo è complice del carnefice; divora, mangia la carne, beve il sangue. Il patibolo è una specie di mostro fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere una sorta di spaventevole vita fatta di tutta la morte che ha dato”.
La videoconferenza, a differenza del patibolo, non è un dispositivo che esegue una pena già comminata, tanto meno quella di morte che non è più prevista nel codice penale, ma ancor più del patibolo, articolata com’è di microfoni e telecamere, è una “struttura” che “vede”, una “macchina” che “ode”. Certo, non “mangia” la “carne”, ma a suo modo “disincarna” l’imputato, smaterializza il suo corpo, lo riduce a un insieme di bit producendo un impatto visivo e di senso all’interno di un processo che non è da sottovalutare: per suo tramite la presenza dell’imputato, ancorché lontana, diviene spettrale, il suo corpo viene trattato come una interferenza video cui la parola può essere concessa o sottratta con semplice “clic”. Trionfo del pudore riformatore che già ripulì le strade dalle catene umane dei forzati e che ora, attraverso le nuove tecnologie, “libera” le aule di giustizia da quella presenza incomoda e stridente perché vi appaia indisturbata l’astrazione del diritto. Negato è anche l’abbraccio tra coimputati che neppure in quella circostanza possono rivedersi. Nessuno scambio affettivo neppure con il pubblico, che neanche appare sullo schermo. Nessuno sguardo complice, nessun saluto ai propri familiari e amici. Una volta entrati in carcere, seppure in via preventiva, non se ne esce più, neppure per il processo. Intombati, cementati. La giuria stessa è portata a considerarti così pericoloso da non poter essere tradotto al suo cospetto. In qualche modo la tua colpevolezza è già implicitamente designata nei modi di quella tua “presenza”.
In tutto questo, l’imputato ridotto a spettatore passivo. Osserva il suo processo su uno schermo come fosse una puntata di “Forum” o di “Quarto grado”. Unico suo diritto, come da tradizione televisiva, telefonare al suo avvocato durante l’udienza. Eppure è della sua vita che si sta parlando. Suo il corpo eventualmente destinato alla reclusione. Sua la vista amputata dell’orizzonte. Suo il tatto privato della stretta dei suoi cari. Suo l’olfatto orfano della primavera. Suo, infine, lo sguardo, abbattuto o fiero, che affronta il “castigo”, preventivo o definitivo, giorno dopo giorno. La videoconferenza è l’alleata tecnologica che perfeziona la prigione degli sguardi. Codarda, moltiplica gli occhi che scrutano chi ha offeso il confine della legge, ma non trova più il coraggio di guardarlo dritto negli occhi. Metafora cibernetica di una giustizia bendata che si dota di protesi oculari meccaniche, ma rimane sempre cieca.
Conclusioni decantanti
Introdotta in Italia per i detenuti sottoposti a regime di 41bis, la videoconferenza applicata ai processi sta ora rapidamente prendendo piede per tutti i detenuti meritevoli, dal punto di vista della giustizia, di un “occhio” di riguardo. È il caso di Maurizio Alfieri, rapinatore riottoso non incline alla domesticazione carceraria; è il caso di Gianluca e Adriano, anarchici accusati di diverse azioni dirette contro l’Eni, magnati dei rifiuti e altri consorzi veleniferi; potrebbe essere, quantomeno già lo è nella volontà della procura di Torino, il caso di Claudio, Chiara, Niccolò e dello scrivente, accusati di un atto di sabotaggio contro il cantiere dell’Alta velocità di Chiomonte. Una deroga speciale al “diritto di difesa”, che prevede la presenza fisica dell’imputato accanto al difensore durante il processo, giustificata con il solito pretesto della “sicurezza” e dell’“ordine pubblico”. Una novità pericolosa, quella della videoconferenza destinata ad attecchire e a estendersi rapidamente se non subitamente estirpata, dacché, si sa, è l’eccezione di oggi a forgiare la norma di domani. Il paradigma che sottende a questa nuova “mutazione tecnica” è complesso, ed è difficile qui e ora computarne e sviscerarne tutte le declinazioni. Sicuramente il tipo di dibattimento processuale che va delineandosi vede una progressiva scomparsa dell’imputato, un crescente condizionamento a priori della giuria e lo strapotere inquisitorio dei pubblici ministeri. Quella che ho cercato di fare qui è di evidenziare alcune ricadute di questa mutazione tecnica concentrandomi sulla questione dello “sguardo”, cioè sullo scambio visivo tra occhio galeotto, occhio giudicante e occhio pubblico. Molte altre considerazioni altrettanto e anche più pregnanti potrebbero essere fatte. Ad esempio su come la videoconferenza impedisca al difensore di confrontarsi con il proprio assistito durante l’udienza; o ancora come nella spettacolarizzazione dei processi gli effetti speciali e le illusioni ottiche siano spesso più determinanti dei fatti concreti di cui si discute. Ma la mia fede nel diritto è talmente scarsa che non sto a entrare nel merito di certi particolari. Preferisco concludere queste note approssimative attorno al processo in videoconferenza citando alcune vecchie canzoni galeotte, di quelle cantate nelle strade dalle catene dei forzati. Parole schiette che da sole dicono quasi tutto.
“Avidi di infelicità, i vostri sguardi cercano di incontrare tra noi una razza infame che piange e si umilia. Ma i nostri sguardi sono fieri.” “Addio, perché noi sfidiamo e i vostri ferri e le vostre leggi”.
Mattia Zanotti
dalla sezione di Alta Sorveglianza del carcere di Alessandria,
fine aprile 2014
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