Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il governo Obama ed il quotidiano "New York Times" hanno messo in piedi quella consueta messinscena mediatica detta "democrazia americana", recitata in modo da far ripetere ai disciplinati commentatori ufficiali i soliti slogan sulla assoluta libertà della stampa americana, che non esiterebbe a mettere in piazza i segreti militari e di Stato, se è per il "pubblico interesse". Sarà la solita coincidenza, ma la notizia principale che emerge dalle "rivelazioni" del "New York Times" sulla guerra in Afghanistan è proprio quella che serviva all'Amministrazione Obama per inasprire la sua aggressione contro il Pakistan.
I "documenti" rivelerebbero infatti che i servizi segreti pakistani collaborano con i cosiddetti Talebani per organizzare aggressioni contro gli occupanti della NATO, cioè il Pakistan sarebbe un finto alleato ed in effetti un nemico, quindi il colpevole dell'impasse militare della NATO. Afghanistan e Pakistan rappresenterebbero perciò un unico fronte. Sarà un caso, ma è esattamente la stessa cosa che Obama ripete da due anni prima di diventare presidente, ed è l'unico suo esempio di coerenza che si sostenga esclusivamente per propria evidenza; mentre, per il suo salvataggio finanziario delle assicurazioni mediche private, i media hanno avuto il loro bel da fare per riuscire a spacciarlo come "riforma sanitaria".
Il sistema mediatico non è congegnato in modo tale da riuscire ad impedire a tutte le notizie scomode di filtrare, ma questo sistema è comunque in grado di far soffermare l'attenzione del pubblico soltanto sulle notizie che fanno comodo ai potentati affaristici; ciò attraverso il meccanismo dei commenti e delle opinioni. Una notizia che i media non commentano per lungo tempo, per lo più non viene notata.
Poco più di un mese fa era infatti circolata l'informazione sull'inchiesta di una commissione del Congresso USA sullo "scandalo" delle tangenti elargite ai signori della guerra afgani, ed agli stessi Talebani, per permettere ai convogli di rifornimento per le truppe statunitensi di transitare indisturbati in certi territori. Una relazione del Dipartimento della Difesa USA ha scaricato la colpa di tutto sulle agenzie private di contractor incaricate della sicurezza dei convogli, mentre ha scagionato da ogni responsabilità diretta gli eroici militari statunitensi, che sarebbero anzi le vittime di questi illeciti "subappalti" praticati dai contractor. Le notizie ufficiali sono reperibili sul sito del deputato John Tierney, presidente della commissione d'indagine.
Anche il "New York Times" aveva dedicato un po' di attenzione alla notizia, riservandole un preoccupato editorialuccio sul cattivo uso che si fa del denaro dei contribuenti. Comunque niente di paragonabile alla campagna mediatica che lo stesso "New York Times" ha allestito sui presunti documenti segreti da cui emergerebbe il presunto tradimento del Pakistan.
In realtà era già dalla fine del 2008 che filtravano varie informazioni sul pedaggio che le truppe USA pagano per evitare gli attacchi della resistenza, e varie tracce di queste notizie sono ancora reperibili su Google, come l'articolo di Tom Coghlan su Timesonline. Nel corso del 2009 è toccato alla missione militare italiana in Afghanistan interpretare per un po' di tempo sui media la parte del capro espiatorio per le accuse di versamento di tangenti ai Talebani, e nella campagna mediatica sulle mazzette versate dagli Italiani si distinse il solito "New York Times". Oggi però c'è da constatare che l'entità delle cifre pagate dagli Italiani è assolutamente incomparabile rispetto ai milioni di dollari elargiti dagli occupanti USA.
Risulta evidente che non si sborsano cifre di questa entità soltanto per permettere ad un convoglio di rifornimenti di passare indenne, perché ciò non avrebbe senso in una logica esclusivamente militare, ma il senso ce l'ha in una logica di business; altrettanto evidente è poi che i pagamenti non sono stati effettuati esclusivamente dai contractor, anche se il Dipartimento della Difesa USA ha cercato di farlo credere. All'inizio dell'anno la NATO ha affermato inoltre di aver operato in Afghanistan una grande offensiva presso la "roccaforte" talebana di Mariah, ma, anche in questo caso, varie testimonianze hanno segnalato che in effetti non vi sarebbe stata nessuna vera offensiva, solo bombardamenti sui civili, che hanno fornito ai Talebani il necessario preavviso per potersi ritirare.
La coincidenza che ha fatto scalpore, riguarda il fatto che la NATO sia arrivata sul posto giusto in tempo per il raccolto dei papaveri da oppio, che nella zona di Mariah è il più cospicuo dell'intero Afghanistan. La distruzione del raccolto era stata presentata come uno degli obiettivi dell'offensiva. Ma poi l'oppio non è stato affatto distrutto dalle truppe NATO, e ciò - si è detto a propria giustificazione - per non inasprire i rapporti della NATO con la popolazione civile (evidentemente i bombardamenti invece non inaspriscono questi rapporti).
L'eccesso di bontà degli Americani è talmente proverbiale che ormai non ci crede più nessuno, infatti la rapidità con cui l'oppio raccolto è sparito, ha fatto ritenere che sia stato caricato sui convogli NATO e portato in alcuni aeroporti strategici, ovviamente con destinazione Bondsteel, la base militare USA in Kosovo. La secessione kosovara è stata recentemente avallata dalla Corte Internazionale di "Giustizia" dell'Aja, il supremo tribunale dell'ONU; in tale decisione ha ovviamente influito la presenza della base USA di Bondsteel, che è stata installata in Kosovo prima dell'indipendenza, quindi senza alcun trattato internazionale, del tutto abusivamente. In pratica la Corte dell'Aja non se l'è sentita di far scoppiare il bubbone. La "giustizia" vale solo contro i deboli.
La NATO però non è abbastanza forte da sconfiggere la resistenza afgana, ma lo è quanto basta per continuare a controllare il traffico di oppio, anche se con la necessità di pagare un pedaggio. Cinque anni fa il coinvolgimento diretto della NATO nel traffico d'oppio era ancora una notizia da internet, roba da cospirazionisti; ma nell'ultimo anno il dato ha acquisito una crescente credibilità; mai tale però da coinvolgere la vera area dell'informazione di massa, quella dei telegiornali e dei dibattiti d'opinione, poiché in quelle sedi, quando si tratta degli Stati Uniti, nessuna prova è mai sufficiente, neppure per avanzare un timido sospetto.
Quindi c'è ancora parecchio margine per campagne d'intossicazione come quella attualmente condotta in collaborazione, e finto contrasto, tra l'Amministrazione Obama ed il "New York Times". Il Pakistan è un'area strategica per gli oleodotti, e sarebbe immorale se riuscisse a costruirceli la multinazionale cinese PetroChina, e non le multinazionali anglo-americane; ed ecco allora un buon motivo per criminalizzare ed occupare anche il Pakistan.
La "globalizzazione" costituisce lo slogan mitologico e lo specchietto per le allodole che serve a coprire una realtà molto più squallida, quella dell'affarismo criminale all'ombra dell'aggressione militare - questa sì globale - degli USA.
L'amministratore delegato della FIAT, Marchionne, ha continuato la sua offensiva di provocazione contro la FIOM, operando una serie di pretestuosi licenziamenti. Nel frattempo anche i pochi organi di stampa che, sino al referendum di Pomigliano, avevano tenuto un finto atteggiamento di imparzialità, ora si vanno schierando esplicitamente con l'azienda. Ci si riferisce soprattutto al quotidiano "La Repubblica", il quale è andato in soccorso della propaganda di Marchionne circa i "fannulloni" di Pomigliano.
"Repubblica Radio-TV" ha infatti mandato in onda nei giorni scorsi un servizio che avrebbe potuto fare invidia al TG1: una serie di interviste "sul campo" - false o manipolate attraverso opportuni tagli -, dalle quali far emergere l'immagine di lavoratori irresponsabili in uno stabilimento allo sbando, nel quale mettere ordine risultasse doveroso. Non sono mancate le solite voci sulle infiltrazioni camorristiche nello stabilimento di Pomigliano. Dato che Marchionne proviene dalla multinazionale Philip Morris, la quale intrattiene storici e sfacciati rapporti con la criminalità organizzata di vari Paesi, probabilmente la voce deve essere nata a causa di qualche visita a Pomigliano dello stesso Marchionne.
Lo stabilimento di Pomigliano d'Arco ha quaranta anni, e la propaganda mediatica sulla cattiva qualità del suo lavoro risale ai primi mesi dell'esperienza Alfa Sud, quindi da molti anni prima della privatizzazione; cioè prima che l'Alfa Romeo venisse regalata alla FIAT da Romano Prodi, allora presidente dell'IRI. Occorrerebbe quindi chiedersi come mai lo stabilimento sia sopravvissuto a tanta ignominia.
Le statistiche ufficiali sulla mortalità per incidenti sul lavoro in Italia indicano che il loro numero non scende mai al di sotto dei mille l'anno (mille e cinquanta morti nel 2009), e che la loro relativa diminuzione rispetto ai record degli scorsi anni è dovuta esclusivamente al calo delle attività produttive. Ma, dato che le statistiche non tengono conto dei lavoratori morti successivamente, in seguito alle ferite riportate, la cifra effettiva della mortalità sul lavoro è molto più alta di quella ufficiale. La Confindustria ha invariabilmente avversato qualsiasi misura concreta per arginare la mortalità sul lavoro, ed i governi si sono sempre lasciati convincere senza difficoltà.
Questa accondiscendenza dei governi non è dovuta solo a sudditanza psicologica, ma al fatto che la Confindustria è in grado di controllare parecchi milioni di voti tramite il ricatto sui dipendenti delle aziende. In questi anni i media hanno cercato di convincerci che Berlusconi era ciò che gli Italiani volevano, poiché avrebbe corrisposto alle loro profonde aspirazioni. In realtà il voto d'opinione è stabile, e la quota di cui si avvale Berlusconi è la stessa che andrebbe a qualsiasi governo di destra, con o senza di lui alla presidenza. Ciò che decide in definitiva il risultato elettorale è sempre il voto controllato, cioè la Confindustria.
La politica imposta dalla Confindustria sulla sicurezza del lavoro indica quindi il grado effettivo di sensibilità padronale e governativa con cui ci si deve confrontare; ciò rende ridicola ogni pretesa di accreditare la fiaba mediatica secondo cui lo stabilimento di Pomigliano sarebbe stato salvato per lo scrupolo di non mettere sul lastrico migliaia di famiglie meridionali. L'unica compassione che abbia concreta e certa efficacia è quella nei confronti delle sofferenze del povero padronato, sempre pronto ad appropriarsi della parte della vittima sul palcoscenico dei media.
Già dai tempi dell'Alfa Romeo, Pomigliano ha svolto il ruolo di ultima spiaggia per dislocare gli impianti obsoleti di altri stabilimenti del gruppo, e ciò ha fatto sì che tecnici e lavoratori sviluppassero negli anni la competenza di cavar sangue dalle rape, mantenendo in vita il più possibile macchinari che avrebbero dovuto essere dismessi; ciò a prezzo di condizioni di lavoro costantemente proibitive ed insicure. Occorrerà accertare se la ristrutturazione in corso a Pomigliano comporterà davvero l'adozione di nuovi macchinari, o si tratterà ancora una volta di riciclare i soliti ferrivecchi.
L'improduttività di Pomigliano è quindi una leggenda costruita ad arte per nascondere l'inconfessabile, cioè finanziamenti pubblici agli investimenti ed all'innovazione che venivano dirottati dalle imprese - prima l'Alfa, poi la FIAT- verso speculazioni finanziarie o immobiliari.
In questi mesi Marchionne ha raccontato molte balle su mirabolanti piani d'impresa e su promesse di investimenti, ma la sua è stata soprattutto un'operazione mediatica che ha usato Pomigliano come un pretesto; e certo non per rilanciare la produttività, a cui Marchionne appare poco interessato, visto come ha respinto il progetto di iper-sfruttamento dei lavoratori proposto dalla FIOM. La vera preoccupazione di Marchionne è stata quella di agitare lo slogan della "flessibilità", ovvero della crescente incertezza del posto di lavoro.
Un padronato che considerasse la produttività come obiettivo principale, avrebbe tutto l'interesse ad interloquire con una controparte sindacale, sottomessa sì, ma comunque realmente rappresentativa, e non a tenere di fronte delle sigle di pura facciata come la CISL o la UIL. In questa operazione di demolizione della rappresentanza sindacale in nome della "flessibilità", Marchionne ha avuto come costante riferimento il ministro del Welfare, Sacconi. I due si sono rilanciati a vicenda la palla per tenere ossessivamente al centro della propaganda mediatica lo slogan che gli interessava: la flessibilità, e ancora la flessibilità.
Per fingere di essere un giornale di sinistra, "La Repubblica" dà spazio ogni tanto anche a tesi "anomale", come quelle del sociologo Luciano Gallino, il quale ha documentato in un'intervista al quotidiano gli effetti disastrosi, in Italia come in Germania, della "flessibilità" sul numero di ore effettivamente lavorate. Rifattasi così una verginità ed un'aura di "sinistra", "La Repubblica" può tornare ringalluzzita a fare ciò che le riesce più naturale, cioè l'organo confindustriale. Ma i dati oggettivi sui disastri causati dalla "flessibilità" sono lì, ed indicano che lo slogan della flessibilità non esprime preoccupazioni di produttività, ma copre qualcos'altro.
Tra i progetti di legge del ministro Sacconi c'è forse la risposta; infatti il ministro propone di privatizzare gli ammortizzatori sociali, da finanziare attraverso ulteriori contributi dei lavoratori ed incentivi fiscali. Non si tratterebbe soltanto di una gestione privata dei sussidi di disoccupazione, ma anche di un sistema di "finanziamento ai consumi", espressione che nel gergo finanziario indica i prestiti a strozzo agli indigenti. Anche gli ammortizzatori sociali dovrebbero perciò diventare un business finanziario gestito dal padronato; quindi la disoccupazione può rendere, e parecchio (ovviamente non ai disoccupati).
L'opinione pubblica viene resa volutamente non consapevole della quantità di denaro che smuovono i contributi dei lavoratori per le pensioni e gli ammortizzatori sociali. L'INPS esibisce enormi attivi di bilancio da anni, ed anche l'ente previdenziale per gli statali, il bistrattato INPDAP (che dovrebbe confluire nell'INPS), ad onta degli allarmi mediatici, presenta ad ogni rendiconto annuale insospettate risorse finanziarie accumulate nel tempo. Si comprende quindi perché questo settore venga presentato dai media in perenne emergenza, e perché gli affaristi privati vogliano metterci le mani.
Disoccupazione e precarizzazione si inseriscono perciò in un disegno internazionale di complessiva finanziarizzazione del rapporto di lavoro, in cui il salario sia sempre più integrato e soppiantato dal prestito ad interesse. I progetti di legge di Sacconi sono infatti ricalcati sui prontuari dei "tecnici" del Fondo Monetario Internazionale, il quale da decenni allestisce i suoi consueti business basati sulla coltivazione e sullo sfruttamento della miseria. Il FMI può essere considerato infatti lo Stato Maggiore della guerra mondiale di classe dei ricchi contro i poveri.
Consultando il sito del Ministero degli Esteri, si apprende che il FMI è stato fondato nel 1944, ma è realmente operativo dal 1946; il FMI ha inoltre un inquadramento giuridico in ambito ONU, e riveste funzioni istituzionali di "sorveglianza" (il sito del Ministero dice proprio "sorveglianza") sulle politiche economiche di tutti i Paesi membri. Quindi il governo mondiale già esiste, e non è affatto un'organizzazione segreta.
Molte critiche sono state rivolte al FMI per l'apparente schizofrenia della sua precettistica economica. Secondo il FMI un alto tasso di disoccupazione costituirebbe una precondizione indispensabile per la crescita economica, perché la disoccupazione determina flessibilità e abbassamento del costo del lavoro; ma la crescita rischia di far aumentare l'occupazione e i salari, quindi, per favorire la crescita, occorre impedire... la crescita, con politiche economiche restrittive. Di fatto nessun Paese povero che sia incorso nelle cure del FMI è mai riuscito ad avere una crescita economica.
Ma l'apparente assurdità dei precetti del FMI è solo l'effetto del doppio significato di parole come crescita o sviluppo. Da quaranta anni i Paesi "occidentali" sono in una costante decrescita economica, eppure i profitti e le ricchezze private sono cresciuti a dismisura, molto di più che nel trentennio tra il 1950 ed il 1970; tanto che la maggior parte della ricchezza si trova ormai nelle mani di una piccola minoranza. La crescita economica complessiva di una società non solo non coincide con la crescita delle ricchezze private, ma addirittura la ostacola, dato che aumenta il potere contrattuale del lavoro e quindi i salari, togliendo spazio ai business della finanziarizzazione dei consumi. Coloro che credono di fare opposizione parlando di "decrescita", dovrebbero tener conto del fatto che la decrescita già c'è, ed è funzionale ai business di finanziarizzazione.
Oltre all'inganno del doppio significato delle parole "crescita" e "sviluppo", ce n'è anche un altro, molto caro alla destra, che tende a far credere che il cosiddetto "imprenditore" ed il "finanziere" (o "usuraio") siano due figure distinte e separate, e addirittura avversarie. Dal 1919 l'industriale Henry Ford fu il maggiore sostenitore di questa mistificazione propagandistica, ed ebbe fra i suoi discepoli anche Mussolini, Hitler ed il poeta Ezra Pound. Quando Marchionne è diventato l'Amministratore Delegato della FIAT, anche a sinistra in molti avevano esultato per l'arrivo di un "vero imprenditore" che prendesse finalmente il posto dei finanzieri alla Cesare Romiti. Ma il "vero imprenditore" non disprezza affatto i business finanziari; anzi, è proprio la sua posizione di imprenditore a consentirgli di intercettare molte opportunità per business finanziari.
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