Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Riscrivere il passato è sempre in funzione del presente. Da quindici anni il giornalista Giampaolo Pansa riscrive la storia della Resistenza in un’ottica anticomunista. Ormai i suoi libri non li compra e non li legge più nessuno, ma essi sono ugualmente l’occasione per articoli e per talk-show, cioè per propaganda; una propaganda contro un comunismo che pure, ufficialmente, non esisterebbe più. L’ultima fatica di Pansa è sulla vicenda di un partigiano di fede cattolica ucciso forse (forse!) da altri partigiani di fede comunista.
Il senso di questa ulteriore operazione editoriale-mediatica è quello di accreditare l’immagine di un comunismo aggressivo e rampante, tutto proiettato durante la guerra civile a porre le basi per una presa del potere ad ogni costo. Una guerra civile è un fenomeno particolarmente caotico in cui possono confluire tante componenti: velleità minoritarie, rivalità e vendette personali, ecc. Quando però si analizza la politica di un partito non si può prescindere dalle sue scelte di fondo. È su quel criterio che si valuta se vi sia stato o meno un progetto di presa del potere.
Con la famosa “Svolta di Salerno” dell’aprile del 1944, Palmiro Togliatti (o, per meglio dire, Stalin) gettò sul tavolo un elemento che cambiava lo scenario politico avviando una politica di unità nazionale, dai monarchici ai comunisti, nell’ambito della Resistenza. Ma c’è un fatto meno evidenziato, eppure decisamente più importante, che era accaduto nel febbraio del ‘44. Era stata infatti l’Unione Sovietica la prima a concedere un formale riconoscimento diplomatico al governo di Badoglio insediato a Salerno; la politica di unità nazionale di Togliatti ne era stata la ovvia conseguenza pratica. Sino a quel riconoscimento sovietico, il governo di Salerno non era considerato un interlocutore da nessuno, quindi stava messo persino peggio del governo di Salò quanto a legittimità internazionale. In quel periodo perciò l’Italia era stata seriamente a rischio di uno smembramento analogo a quello che si sarebbe poi operato sulla Germania.
Se Stalin avesse davvero pensato ad una presa del potere in Italia, avrebbe assecondato quelle ipotesi di divisione dell’Italia tra uno Stato del Nord ed uno del Sud. Ogni ipotesi di confronto militare con gli Anglo- Americani avrebbe avuto infatti un minimo di consistenza esclusivamente al Nord, dove erano concentrate le forze partigiane comuniste e dove queste avrebbero avuto la possibilità di un collegamento via terra non solo con la resistenza jugoslava ma anche con i rifornimenti sovietici. Al Sud invece ci sarebbe stato l’impari confronto con la Marina statunitense. Stalin quindi, sin da allora, aveva puntato invece su un’Italia unita, tradizionale partner commerciale della Russia.
Nella storia di quel periodo c’è quindi un grande assente: il comunismo. La politica sovietica di Stalin era un tradizionale imperialismo russo attuato alla russa, cioè facendo sempre il passo più corto della gamba (e la gamba era di per sé già cortissima se si considerano le terribili devastazioni belliche subite dall’Unione Sovietica).
Sino al 1956 il mito sovietico fu certamente un fenomeno attrattivo per le masse dei lavoratori europei, ma era pura mistificazione già a quell’epoca attribuirgli un carattere espansivo o espansionistico. Nel dopoguerra questo pretestuoso “minacciacomunismo” aveva lo scopo di allineare gli alleati occidentali in funzione della guerra fredda. Ma che senso ha continuare a insisterci ancora oggi?
Il senso c’è ed è neanche tanto sottinteso: l’Italia sarebbe stata salvata dal comunismo grazie agli USA. Non solo dobbiamo ricordarci di dovere le nostre fortune al fatto di essere una colonia USA, ma dobbiamo anche continuare ad esserne grati. Si parla tanto di “nuovo”, di “cambiamento”, ecc. Per adesso c’è ancora da fare i conti con un dopoguerra che non è ancora finito.
Nel dopoguerra l’opposizione comunista si sviluppò non per forza propria, ma grazie all’ombrello dell’imperialismo debole dell’Unione Sovietica. Ipocritamente le socialdemocrazie europee (con l’eccezione di Willy Brandt) non hanno riconosciuto che il loro ruolo sociale e politico era dovuto anch’esso alla copertura indiretta che l’Unione Sovietica offriva. Non a caso, col crollo dell’Unione Sovietica, non solo il comunismo ma anche la socialdemocrazia è stata messa fuori gioco.
Sotto l’ombrello di un imperialismo debole le opposizioni che possono svilupparsi rimangono deboli. Quanto fosse debole (e manipolabile) l’opposizione comunista, ha potuto verificarlo lo stesso Giampaolo Pansa. Molto prima di diventare un anticomunista professionista, Pansa recitava la parte del filocomunista nella redazione del quotidiano “la Repubblica” e, da quella posizione, riuscì negli anni ’70 e ’80 a spingere il PCI su posizioni forcaiole e di feticismo giudiziario.
Oggi l’imperialismo debole che contrasta parzialmente il dominio USA, è quello della Russia del mito di Putin. Sotto quest’ombrello e sotto questo mito, si sviluppa l’opposizione attuale: il cosiddetto sovranismo. La copertura offerta da un imperialismo debole come quello di Putin, condanna però anche il "sovranismo" a rimanere un’opposizione debole.
All’epoca di Kennedy le sinistre europee si illusero di aver trovato una sponda anche negli USA. In realtà, al di là della sua retorica, Kennedy si rivelò uno dei presidenti USA più aggressivi, spingendo l’imperialismo USA oltre i livelli dei suoi predecessori. Con l’arrivo del cialtrone Trump anche i “sovranisti” hanno trovato il loro Kennedy ed il rischio è che, come le sinistre, non si risveglino più da quest’illusione.
La manifestazione torinese del 10 novembre dei presunti quarantamila Sì TAV è stata presentata dai media come un’ennesima rivolta della borghesia. Ci sono vari aspetti che fanno dubitare di tale interpretazione. Anzitutto c’è la genericità degli obiettivi. Perché mai degli imprenditori o dei professionisti dovrebbero mobilitarsi per una del tutto ipotetica prospettiva di “sviluppo”? Quali sarebbero i loro interessi direttamente coinvolti?
Non c’è infatti nessuna prova che la linea ad alta velocità attualmente in costruzione in Val di Susa abbia delle ricadute in termini di sviluppo. Semmai vi sono delle evidenze contrarie: le linee ferroviarie non riescono a ripagare i loro costi e, se già l’alta velocità si presenta come poco remunerativa per il traffico passeggeri, ancora più problematico è il business per il traffico merci. L’alta velocità è stata promossa soprattutto da banche francesi come BNP Paribas, ma attualmente la debacle del business dell’alta velocità è particolarmente evidente proprio nel Paese che più ci ha puntato, la Francia, dove il settore ferroviario è finanziariamente disastrato a causa di quegli investimenti sbagliati.
Certo, c’è il business degli appalti, ma riguarda solo alcuni “fortunati” e non certo il “popolo” imprenditoriale. C’è il business dei fondi europei, ma i costi “vivi” ricadono comunque sul sorvegliatissimo bilancio italiano, perciò quelle poche risorse a disposizione, gli imprenditori preferirebbero certamente vedersele elargire attraverso ulteriori sgravi fiscali.
Al contrario, dietro i No TAV non vi sono semplici istanze ambientaliste ma solidi “valori” borghesi, come, ad esempio, scongiurare la prospettiva di un crollo dei valori immobiliari in tutta la Val di Susa a causa del massacro ambientale. Non a caso il movimento No TAV è a base interclassista ed ha visto spesso in prima fila i sindaci.
L’impressione è quindi che il “Sì TAV” non sia un movimento ma un’artificiosa mobilitazione fabbricata ad hoc da Forza Italia, diventato il nuovo braccio armato della UE dopo la conversione al fondamentalismo europeistico da parte del Buffone di Arcore. Il tutto per poter giustificare decisioni già prese altrove e che prescindono dalla volontà dell’attuale governo (ammesso che l’attuale governo, come i precedenti, abbia una volontà).
Visti i passaggi di treni contenenti scorie nucleari attraverso il Piemonte, si è affacciato il sospetto che il buco nella montagna abbia come vero scopo il seppellirvi scorie radioattive derivanti sia dal nucleare civile che da quello militare. Per ora si tratta solo di un’ipotesi etichettata come ”complottista”, ma la sproporzione plateale tra i costi mostruosi del tunnel ed i suoi scarsi vantaggi effettivi, non può che legittimare il sospetto.
La Questura di Torino, che certamente non è in mano ai No TAV, ha stimato i manifestanti Sì TAV a venticinquemila, perciò la cifra di quarantamila è stata evocata dagli organizzatori e dai media per ricollegarsi alla Marcia dei Quarantamila del 1980, quella che, secondo la vulgata tramandata, avrebbe posto fine alla mobilitazione operaia alla FIAT contro la cassa integrazione. In realtà quella manifestazione è stata negli anni fortemente ridimensionata: i manifestanti erano tutti impiegati FIAT in servizio ed erano lì per ordine dell’azienda; inoltre molti di loro sarebbero persino finiti in cassa integrazione nei mesi successivi (altro che ceti emergenti!). Nel 2010 un articolo del quotidiano “la Repubblica” celebrava il trentennale dell’evento, spacciando la marcia come un passaggio epocale della Storia d’Italia. L’articolo contrastava le numerose evidenze contrarie con una serie di arrampicate sugli specchi.
Già all’epoca fu chiaro che la cosiddetta “Marcia” era stato un evento fabbricato per fornire ai vertici sindacali un alibi per tirarsi indietro. La lotta infatti risultava impari: i sessantamila miliardi di lire elargiti alla FIAT dal governo di unità nazionale avevano consentito all’azienda di finanziarizzarsi diventando una mega-detentrice di debito pubblico italiano (lo Stato regalava soldi ai privati per poi indebitarsi con quegli stessi privati!).
Grazie a questo doppio assistenzialismo per ricchi, Agnelli e Romiti avevano allentato la loro dipendenza dai profitti industriali e quindi lo sciopero risultava un’arma spuntata. Ai vertici sindacali era stato poi fatto capire che il proseguire la vertenza avrebbe comportato per loro anche gravi rischi giudiziari con accuse di complicità col terrorismo. Più di venti anni dopo il segretario della CGIL di allora, Sergio Cofferati, quando cercò di contrastare il processo di precarizzazione del lavoro, dovette sperimentare le stesse minacce giudiziarie, pensando bene di andarsene a fare il sindaco sceriffo. Per lo stesso motivo, nel 1980 anche Trentin, Carniti e Benvenuto erano stati tutti entusiasti di chiudere la vertenza con la FIAT fingendo di bersi la fiaba di Alì Babà e dei Quarantamila Crumiri.
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