La manifestazione torinese del 10 novembre dei presunti quarantamila Sì TAV è stata presentata dai media come un’ennesima
rivolta della borghesia. Ci sono vari aspetti che fanno dubitare di tale interpretazione. Anzitutto c’è la genericità degli obiettivi. Perché mai degli imprenditori o dei professionisti dovrebbero mobilitarsi per una del tutto ipotetica prospettiva di “sviluppo”? Quali sarebbero i loro interessi direttamente coinvolti?
Non c’è infatti nessuna prova che la linea ad alta velocità attualmente in costruzione in Val di Susa abbia delle ricadute in termini di sviluppo. Semmai vi sono delle evidenze contrarie: le linee ferroviarie non riescono a ripagare i loro costi e, se già l’alta velocità si presenta come poco remunerativa per il traffico passeggeri, ancora più problematico è il business per il traffico merci. L’alta velocità è stata promossa soprattutto da banche francesi come BNP Paribas, ma attualmente la
debacle del business dell’alta velocità è particolarmente evidente proprio nel Paese che più ci ha puntato, la Francia, dove il settore ferroviario è finanziariamente disastrato a causa di quegli investimenti sbagliati.
Certo, c’è il business degli appalti, ma riguarda solo alcuni “fortunati” e non certo il “popolo” imprenditoriale. C’è il business dei fondi europei, ma i costi “vivi” ricadono comunque sul sorvegliatissimo bilancio italiano, perciò quelle poche risorse a disposizione, gli imprenditori preferirebbero certamente vedersele elargire attraverso ulteriori sgravi fiscali.
Al contrario, dietro i No TAV non vi sono semplici istanze ambientaliste ma solidi “valori” borghesi, come, ad esempio, scongiurare la prospettiva di un crollo dei valori immobiliari in tutta la Val di Susa a causa del massacro ambientale. Non a caso il movimento No TAV è a base interclassista ed ha visto spesso in prima fila i sindaci.
L’impressione è quindi che il “Sì TAV” non sia un movimento ma un’artificiosa mobilitazione fabbricata ad hoc da Forza Italia, diventato il nuovo braccio armato della UE dopo la conversione al fondamentalismo europeistico da parte del Buffone di Arcore. Il tutto per poter giustificare decisioni già prese altrove e che prescindono dalla volontà dell’attuale governo (ammesso che l’attuale governo, come i precedenti, abbia una volontà).
Visti i passaggi di treni contenenti scorie nucleari attraverso il Piemonte, si è affacciato il sospetto che il buco nella montagna abbia come vero scopo il seppellirvi
scorie radioattive derivanti sia dal nucleare civile che da quello militare. Per ora si tratta solo di un’ipotesi etichettata come ”complottista”, ma la sproporzione plateale tra i costi mostruosi del tunnel ed i suoi scarsi vantaggi effettivi, non può che legittimare il sospetto.
La Questura di Torino, che certamente non è in mano ai No TAV, ha stimato i manifestanti Sì TAV a venticinquemila, perciò la cifra di quarantamila è stata evocata dagli organizzatori e dai media per ricollegarsi alla Marcia dei Quarantamila del 1980, quella che, secondo la vulgata tramandata, avrebbe posto fine alla mobilitazione operaia alla FIAT contro la cassa integrazione. In realtà quella manifestazione è stata negli anni fortemente ridimensionata: i manifestanti erano tutti impiegati FIAT in servizio ed erano lì per ordine dell’azienda; inoltre molti di loro sarebbero persino finiti in cassa integrazione nei mesi successivi (altro che ceti emergenti!). Nel 2010 un articolo del quotidiano “la Repubblica” celebrava
il trentennale dell’evento, spacciando la marcia come un passaggio epocale della Storia d’Italia. L’articolo contrastava le numerose evidenze contrarie con una serie di arrampicate sugli specchi.
Già all’epoca fu chiaro che la cosiddetta “Marcia” era stato un evento fabbricato per fornire ai vertici sindacali un alibi per tirarsi indietro. La lotta infatti risultava impari: i sessantamila miliardi di lire elargiti alla FIAT dal governo di unità nazionale avevano consentito all’azienda di finanziarizzarsi diventando una mega-detentrice di debito pubblico italiano (lo Stato regalava soldi ai privati per poi indebitarsi con quegli stessi privati!).
Grazie a questo doppio assistenzialismo per ricchi, Agnelli e Romiti avevano allentato la loro dipendenza dai profitti industriali e quindi lo sciopero risultava un’arma spuntata. Ai vertici sindacali era stato poi fatto capire che il proseguire la vertenza avrebbe comportato per loro anche gravi rischi giudiziari con accuse di complicità col terrorismo. Più di venti anni dopo il segretario della CGIL di allora, Sergio Cofferati, quando cercò di contrastare il processo di precarizzazione del lavoro, dovette sperimentare le stesse minacce giudiziarie, pensando bene di andarsene a fare il sindaco sceriffo. Per lo stesso motivo, nel 1980 anche Trentin, Carniti e Benvenuto erano stati tutti entusiasti di chiudere la vertenza con la FIAT fingendo di bersi la fiaba di Alì Babà e dei Quarantamila Crumiri.