Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Da più parti arrivano inviti al padre di Ilaria Salis a “non politicizzare” il caso. In realtà il povero padre non ci può fare nulla, dato che ormai gli altarini sono scoperti e la questione non riguarda più soltanto la persona della Salis. Sino a poco più di un anno fa il fatto che ogni anno la “Legio Hungaria” organizzasse a Budapest un raduno dell’estrema destra europea e mondiale per celebrare la “giornata dell’onore”, faceva parte di quelle cosiddette “informazioni di nicchia”. In base alla famosa eterogenesi dei fini, l’accanimento giudiziario delle autorità ungheresi nei confronti di Ilaria Salis ha sortito un effetto autosputtanante, perciò quest’anno non si è potuto fare finta di nulla come al solito. Pare che il divieto ufficiale di sfilare imposto stavolta ai neonazisti, li abbia costretti a riunirsi nei boschi come passeggiatrici qualsiasi, per cui si sono trovati ad aver indossato le loro sgargianti uniformi senza potersi esibire in pubblico. La loro delusione e frustrazione sono state sfogate con un murales in cui Ilaria Salis veniva rappresentata impiccata; è la tipica reazione di chi è assuefatto ad essere assecondato, vezzeggiato, coccolato, viziato, iperprotetto e d’improvviso si vede negata la soddisfazione dell’ennesimo capriccio.
Le accuse nei confronti di Ilaria Salis sfidano il buonsenso e la verosimiglianza, per cui ci si racconta che, in occasione della “giornata dell’onore” dello scorso anno, l’energumena sarebbe andata a caccia di manifestanti per sottoporli a pestaggi. Del resto con il suo passato di maestrina, la Salis è abituata a vedersela con i direttori didattici e con le mamme degli alunni, perciò affrontare un’orda di neonazisti deve esserle sembrato una passeggiata. Con quel po’ di polpo neonazista che nascondevano nella manica, ci si sarebbe aspettato che le autorità ungheresi agissero con misura e discrezione, accompagnando silenziosamente la Salis alla frontiera dopo qualche condanna con la condizionale. Lo spirito vendicativo, l’arroganza e il senso di impunità hanno spinto invece la magistratura ungherese a strafare, ad esagerare e a darsi la zappa sui piedi con lo spot delle catene in tribunale, svelando così la storica connivenza con la rete internazionale del nostalgismo neonazista. Non si tratta quindi del diritto di chiunque, nazi compresi, di manifestare la propria opinione e della bulletta antifascista che cerca di negarglielo, bensì della protezione che molti paesi NATO elargiscono all’internazionale neonazista. Ci si racconta che la NATO sta lì per difendere la santa democrazia contro i dittatori, però per fare il lavoro sporco contro Putin servono i nazisti, e contro Assad servono i jihadisti.
Neppure si può ridurre il tutto alla criminalizzazione degli ungheresi, perché anche da noi il più pulito ci ha la rogna, e le autorità nostrane non perdono occasione per sbracare, come ha dimostrato il caso della persecuzione giudiziaria nei confronti di Alfredo Cospito. Prima dello sciopero della fame di Cospito, sul 41bis circolavano spot pubblicitari che lo presentavano come un duro regime di isolamento carcerario funzionale all’antimafia, perciò tutte le obiezioni contro il 41bis erano esclusivamente di carattere umanitario e costituzionale. Oggi sappiamo invece che il 41bis è un altro buco nero di abusi e illegalità istituzionalizzata, dato che gli onorevoli Del Mastro e Donzelli, credendo di screditare Cospito, hanno esibito registrazioni riservate da cui risulta che le autorità penitenziarie gestiscono il 41bis come una sorta di sito d’incontri tra boss.
Certi paradossi comunicativi di autosputtanamento derivano da un cambio di mitologia. Lo Stato non è mai esistito se non a livello di astrazione giuridica, per cui la statualità sino agli anni ‘70 ha svolto la funzione di mito legittimante per dei poteri trasversali al pubblico ed al privato, ed al legale e l’illegale; ovvero dei regimi. Il punto è che nell’odierno strapotere delle lobby d’affari la statualità è stata spazzata via anche come mito e sostituita dalla retorica di marketing e dalla narrativa aziendalista e manageriale. Si determina perciò una schizofrenia comunicativa da parte dei pubblici poteri, i quali dovrebbero lasciare in ombra le loro commistioni con gli interessi privati o illegali, ma non ci riescono più, dato che ormai sono drogati di esibizionismo, perdono ogni ritegno e decenza facendo autopromozione in termini di iperbole pubblicitaria. Persino la guerra è diventata uno spot, un’animazione da villaggio turistico, perciò non c’è da sorprendersi se le scuole dell’infanzia fanno sfilare i bambini in tuta mimetica per il 25 aprile.
Come sempre fascisti e politicamente corretti fingono di litigare ma in effetti si fanno da sponda a vicenda. Il tentativo dei nostri politicorretti è di scaricare la responsabilità del caso Salis sul cattivissimo primo ministro Orban, confezionato e venduto dai media come una specie di icona ad uso dei sovranisti o babau ad uso degli europeisti. In realtà Orban è un politicante abituato a tenere il piede in diecimila scarpe, tanto che ha persino cominciato la sua carriera lavorando per Soros. Orban dimostra abilità a fare il vaso di terracotta che si barcamena tra i vasi di ferro, ma i suoi oppositori in Ungheria sono i primi ad avvertirci di non sopravvalutarlo ed a non prendere sul serio la pubblicità ingannevole che lo spaccia come avversario dell’Unione Europea.
Grazie alla distrazione mediatica quasi nessuno si è accorto che Orban ha trasformato contemporaneamente l’Ungheria in presunto “baluardo della civiltà cristiana” ed anche in sede di una delle maggiori industrie pornografiche del mondo. Ma in base alle cronache l’internazionale neonazista (con tanto di banderisti ucraini e CasaPound nostrani) faceva il bello e il cattivo tempo in Ungheria da molto prima che Orban arrivasse al governo, ed anche la rete di complicità politiche e giudiziarie attorno al neonazismo non l'ha inventata lui.
Abbiamo verificato nella vicenda dell’Ucraina come i nostri media ed i nostri politici demonizzano il nazismo o fanno finta che non esista a seconda delle esigenze pubblicitarie del momento. Se si tratta di rievocare il genocidio ebraico o di denunciare gli attuali attentati antisemiti, allora i neonazisti esistono. Durante la seconda guerra mondiale vi fu infatti un’originale versione ungherese del nazismo, il partito delle Croci Frecciate, che collaborò alla deportazione e uccisione di circa mezzo milione di ebrei ungheresi. Ma se si tratta di far guerra ai sovietici o ai russi, invece i nazisti scompaiono dai media, per i quali ci sono solo “patrioti”. Purtroppo nel 2019 a Budapest si è verificato un episodio increscioso nel quale la scissione mediatica tra nazisti e “patrioti” non è stata possibile. La Legio Hungaria aveva organizzato una manifestazione per celebrare la rivoluzione ungherese del 1956, nella quale le ex Croci Frecciate furono molto attive militarmente, sia ammazzando dirigenti e militanti del partito comunista, sia nell’affrontare poi gli invasori russi. Durante la manifestazione i “patrioti” antisovietici però si sono improvvisamente ricordati di essere anche nazisti e sono andati a dar fuoco ad un centro culturale ebraico. Guarda gli scherzi della memoria. Meno male che ci pensano i media a ripristinare l’oblio.
I refusi hanno spesso un’intelligenza rivelatoria. Il 3 marzo dell’anno scorso sul sito web “Forze Italiane” un articolo illustrava i termini dell’esercitazione militare denominata Orion2023, affermando testualmente: “Domenica scorsa 700 soldati e 150 mezzi sono sbracati (sic!) sulle coste dell’Hérault, in Occitania: è questo lo scenario che fa da sfondo ad Orion2023, la più grande esercitazione di guerra simulata degli ultimi decenni in Europa occidentale”.
L’articolo su “Forze Italiane” conteneva una domanda inquietante, cioè se queste esercitazioni di guerra simulata preparino alla guerra vera. Il problema è che il confine tra simulazione e verità, tra farsa e tragedia, non è affatto chiaro, tanto che viene da chiedersi se esista un militarismo che riesca a non sbracare. Affidiamoci alla parola di uno che ne capisce, il generale Paolo Capitini, che ha rilasciato un’ampia intervista a “Fanpage”, la testata giornalistica online che può essere considerata la Radio Maria della religione del politicamente corretto. Alla richiesta di un parere sulle dichiarazioni del presidente Macron sulla eventuale spedizione di truppe francesi in Ucraina, il generale Capitini non esita a definirle un “bluff”, poiché l’esercito francese nel suo complesso sarebbe di centocinquantamila uomini, per di più con mera esperienza di guerra coloniale, mentre nel solo Donbass sono schierati trecentomila militari russi, ormai resi esperti alla guerra simmetrica. Al Cremlino potrebbero essere quindi tentati di vedere il bluff di Macron; ammesso che il termine “bluff” non sia un eufemismo benevolo, poiché, data l’evidente impreparazione militare francese, si potrebbe definire come la solita cialtronata di Macron. Ma il generale non poteva certo permettersi di essere così diretto. Capitini afferma inoltre che l’esercito professionale non è sufficiente per una guerra in cui ci si confronti con forze alla pari, anche se sembra che non si tratti di tornare alla pagliacciata della leva obbligatoria, quando torme di rachitici, cifotici, scoliotici e ipovedenti venivano arruolati a forza, offrendo facili prede al nonnismo nelle caserme e intasando gli ospedali militari; il tutto solo per giustificare la carriera di una pletora di ufficiali. Capitini pensa semmai ad una riserva e ad una guardia nazionale.
La vera perla è però nel finale dell’intervista, ed anche in questo caso la citazione merita di essere testuale: “Fino ad oggi il concetto di difesa in Europa è stato interpretato in modo esclusivamente economico: paghiamo ed otteniamo in cambio sicurezza. Si tratta di un paradigma falsato e pericoloso: i soldi sono necessari, certo, ma non sono sufficienti. Occorre che la collettività rifletta davvero sui valori che la tengono insieme, valori come democrazia, solidarietà, libertà e pluralismo e che quindi si chieda quanto è disposta a pagare per preservarli e non parlo solo di denaro, ma di difenderli anche, se necessario, combattendo. D’altra parte è questo che indica la costituzione quando definisce "sacro" il dovere di ogni cittadino di difendere la Patria”.
Insomma, si tratta del classico “credere, obbedire, combattere”, come già diceva il caro vecchio Duce. Certo, vuoi mettere una democrazia con una dittatura o una “democratura”. Gli studenti statunitensi che da giorni manifestano a favore dei palestinesi e contro il massacro che Israele fa a Gaza, dovrebbero trarre insegnamento da questa esperienza. Che essi vengano manganellati e brutalizzati dalla polizia, inseguiti dagli sbirri fin dentro le aule universitarie, sgomberati e ammanettati, schedati insieme con i loro professori e arrestati a migliaia, fatti oggetto di scariche di proiettili di gomma, accusati di essere antisemiti e infiltrati, tutto questo dovrebbe esser loro di monito per riconoscere con gratitudine la fortuna di vivere in una grande democrazia. Ma il vero messaggio del generale Capitini è che il giro dei soldi legato alle spese militari va benissimo; solo che per tenere in piedi la baracca dell’affarismo militare occorre pure il proverbiale “fesso che se la beve”, cioè colui il quale è disposto a credere ai “valori” ed a combattere per essi. Insomma, senza l’adesione sociale ad un politicamente corretto che imponga il sacro e il sacrificio, la cleptocrazia militare rischia di non andare da nessuna parte.
Oggi c’è una diffusa e crescente insofferenza verso le pretese del politicamente corretto, ciò che Michel Foucault chiamava “ortopedia morale”, e che in effetti funziona come il classico letto di Procuste al quale i singoli devono chirurgicamente adattarsi. Quando però un meccanismo di mistificazione sociale entra in crisi, tendono ad intervenire immediatamente fenomeni di protezione, ciò che viene spesso definito “gatekeeping”. Il concetto di “gatekeeping” viene di solito frainteso in termini cospirativi. In realtà la mistificazione è una dinamica sociale, e spesso un riflesso condizionato; perciò quando si crea un’opinione pubblica stufa delle coercizioni morali del politicamente corretto, ci sarà automaticamente qualcuno che si presenterà a riscuotere popolarità e protagonismo attaccando il politicorretto nell’ultima versione, riproponendolo però nella versione originale, che è appunto quella della pedagogia nazionale e dell’educazione ai “valori”.
Non è affatto un caso che a svolgere il ruolo di finto critico del politicorretto e di riciclatore della pedagogia nazionale sia un generale della Divisione “Folgore”, che è ricordata per la battaglia di El Alamein, la battaglia che, come dice Giordano Bruno Guerri, “gli italiani sono fieri di aver perso”. Se esistesse un militarismo serio, la questione El Alamein sarebbe stata quella di individuare e mandare alla corte marziale i responsabili della mancata ritirata dell’esercito italiano per evitare l’annientamento. Al contrario, El Alamein è diventata un’oleografia della pedagogia nazionale, e ci si è persino vantati del fatto che i vincitori angloamericani abbiano concesso l’onore delle armi alla “Folgore”. Questi poi sarebbero i patrioti italiani: si compiacciono di aver riscosso la stima degli angloamericani; un dettaglio che smaschera l’affinità sostanziale con il politicorretto attuale. Coerentemente una discepola di quella pedagogia patriottica oggi si compiace di aver ricevuto il bacio in testa da Biden.
Il militarismo non può permettersi di essere serio; il paradosso è già stato delineato da Julian Assange: la priorità in guerra non è vincere ma fare affari con le armi per più tempo possibile. Un militarismo serio sarebbe quindi un ossimoro, perché la decisione più seria riguardo ad una guerra sarebbe di non farla.
Ringraziamo Mario C. “Passatempo”
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