Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Aleksandr Herzen diceva che il nichilismo non è il voler ridurre le cose a nulla, bensì riconoscere il nulla quando lo si incontra. La nulliloquenza non sarebbe difficile da individuare, dato che consiste nel muoversi costantemente su categorie astratte senza mai scendere nel dettaglio concreto. Purtroppo a volte è sufficiente drammatizzare la mistificazione nel modo giusto per far cascare l’uditorio nell’illusione. Nel gennaio scorso ci hanno raccontato la fiaba sul liberista, “libertario” e “anarco-capitalista” Xavier Milei, neo-presidente dell’Argentina, che ha osato addentrarsi nella tana dei lupi, il Forum di Davos, per cantarle chiare a quei “comunisti” che vorrebbero renderci “poveri e felici”. Milei ha inondato la sala con un mare di chiacchiere solcato dai vascelli fantasma della libera impresa e del libero mercato. Meno male che all’ultimo (ma proprio all’ultimo) ha fatto un riferimento, icastico quanto estemporaneo, ad un oggetto fin troppo materiale e “tangibile”; quindi adeguato al contesto, dato che Jill Abramson, ex direttrice del “New York Times”, aveva appunto definito il World Economic Forum di Davos un “circolo di segaioli”. La narrazione di Milei si basa su due soggetti incerti; dei quali il primo (il liberismo) non esiste per niente, è puro narcisismo dei ricchi in chiave mitologica; mentre il secondo soggetto (il socialismo) esiste sì, ma in due versioni completamente opposte e divergenti, di cui una è assidua e costante (il socialismo per ricchi), e l’altra (il socialismo per poveri) è invece episodica e precaria.
A proposito di imbonitori “ultraliberisti”, c’è il precedente della Thatcher, quindi sappiamo già dove sta il trucco e dove bisogna andare a scoprirlo. Vuoi vedere che anche Milei, come la Thatcher, mentre parla di riduzione delle tasse in realtà aumenta le accise sui carburanti? Ma guarda un po’, è proprio così. Il prezzo della nafta in Argentina, a causa delle nuove tasse di Milei, è raddoppiato. Ora i cittadini comuni per spostarsi e riscaldarsi devono spendere il doppio. Ancora una volta le false promesse liberiste si risolvono in uno spostamento del prelievo fiscale dai contribuenti ricchi a quelli poveri attraverso le imposte indirette. Del resto il governo deve riempire le bolle finanziarie con sussidi e sgravi fiscali alle imprese private; e allora dove si prendono i soldi? Dai contribuenti poveri. Il trucco retorico dei “liberisti” sta nel dire “tasse” riferendosi solo alle imposte sul reddito e non a quelle sui consumi, che sono invece le più importanti. Milei ha detto che lo Stato è un’organizzazione criminale. Appunto, e lui ne è una prova vivente. La questione però è più complicata, perché il cosiddetto Stato esiste in forma di apparati, purtroppo come soggetto giuridico-politico-istituzionale rimane a livello di astrazione. I veri attori in campo sono le lobby, la cleptocrazia delle cosche d’affari, che sono trasversali al pubblico ed al privato, ed anche al legale ed all’illegale.
L’impresa capitalista è composta da tre funzioni, quella produttiva (che spesso è la meno importante), poi c’è la finanza, con l’artificiosa lievitazione del valore di un’impresa in Borsa; ed infine c’è il lobbying, ovvero l’intreccio tra impresa e potere politico, la commistione tra privato e pubblico, cioè il caro vecchio conflitto di interessi; o, per essere ancora più precisi, la corruzione. Oltre Milei oggi i fan della fede liberista hanno anche un altro idolo, il boss di Amazon, Jeff Bezos, che, ad onta del cognome ispanicheggiante, vanta purissime origini ariane. Secondo gli ultimi spot pubblicitari Bezos è persino pronto a portarci sulla Luna e su Marte. Il segreto di Pulcinella alla base del successo di Bezos è la porta girevole tra pubblico e privato. Il quotidiano “Politico” è riuscito a contare i casi di sessantasei funzionari passati dalla carriera pubblica a posti di rilievo in Amazon. Con questi metodi Amazon può annoverare tra i suoi clienti non solo i fessi come noi, ma anche la CIA, a cui fornisce servizi informatici. Si potrebbe anche legittimamente supporre che Bezos (e i vari Jobs, Gates, Zuckerberg, Musk) siano solo dei prestanome e sponde esterne di cosche interne all’apparato governativo. Tra le funzioni del lobbying c’è il confondere le carte in tavola, perciò c’è anche un secondo segreto del successo; infatti sono necessari esperti di pubbliche relazioni addetti a screditare le denunce della corruzione e del conflitto di interessi; il trucco è semplicissimo: basta aggiungere ai fatti veri qualche dettaglio demenziale, come i “rettiliani”, e il tutto potrà essere liquidato come teoria del complotto.
Il problema è che i fatti sono lì in evidenza, e non c’è bisogno di ricamarci su o di dare retta agli orpelli posticci. Gran parte (o la quasi totalità?) della cosiddetta “sinistra” si è innamorata della psicopandemia, vista come grande occasione di affermare valori socialisti e di castigare gli istinti liberisti. Bisognerebbe rendersi conto che le lobby condiscono i loro spot pubblicitari con qualsiasi ingrediente possa suggestionare il pubblico, perciò tutto fa brodo, va bene pure il collettivismo. Come volevasi dimostrare, il “socialismo pandemico”, con il divieto della libertà di circolazione per i comuni cittadini, è stato il paradiso del “liberismo” di Amazon. Per capire se si tratta di socialismo per ricchi o di socialismo per poveri, occorre guardare non genericamente ai “valori”, bensì alla distribuzione del reddito ed alla concentrazione della ricchezza; ed alla fine si è visto che il socialismo pandemico era socialismo ad uso esclusivo dei ricchi.
Infrangendo il record di Fatima, esistono anche un terzo ed un quarto segreto di Pulcinella alla base del successo di Amazon. Il terzo segreto è stare in tutti i teatri di guerra, infatti è lì che girano più soldi. La porta girevole tra CIA ed Amazon serve a qualcosa, perciò l’azienda di Bezos è diventata la principale fornitrice di servizi informatici del governo ucraino. Il quarto segreto è che il filantrocapitalismo non guasta mai, perciò Amazon ricicla un po’ di profitti nel paradiso fiscale del “non profit”, cioè nella beneficenza a favore dell’Ucraina. Il sito di Amazon riporta tutti i passaggi di questa marcia trionfale, ma solo fino all’anno scorso, cioè al fallimento della controffensiva ucraina; dopodiché anche il quotidiano “Washington Post”, che è di proprietà di Bezos, ha cominciato a disinnamorarsi di Zelensky. Manco a dirlo anche Microsoft si pavoneggiava per l’aiuto fornito all’Ucraina; cento milioni di dollari in servizi tecnologici. Poca cosa se si considera che le multinazionali si sono spartite una torta di finanziamenti bellici di oltre cento miliardi stanziati da USA e NATO. Alla fine però Zelensky ha portato sfortuna. O è stato Bill Gates?
Chi prende sul serio le buffonate liberiste di Milei, dovrebbe ricordarsi che i maggiori clienti delle imprese private sono sempre i governi, quindi la spesa pubblica. E tra i governi clienti di Amazon non poteva mancare il più bellicista di tutti, Israele. Visto com’è andata il 7 ottobre scorso, bisogna dire che i servizi di controllo digitale forniti da Amazon al governo israeliano non sono molto “performanti”. Ma tra i segreti del successo capitalistico c’è anche quello di rifilare costosi bidoni.
Le parole dovrebbero essere annoverate nell’elenco delle droghe pesanti, e purtroppo a chiunque può capitare di farsi ogni tanto una “pera” eccessiva. Il quotidiano neocon “il Foglio” si è approfittato del “trip” di uno dei padri costituenti, Umberto Terracini, per fargli fare una figuraccia postuma mettendo in evidenza alcune sue frasi poco felici in sostegno di Israele. Dopo averci ammonito sul fatto che anche Terracini considerava l’antisionismo una forma di antisemitismo, ci viene proposta una citazione nella quale il vecchio comunista contestava ai governi dei paesi arabi “il rifiuto testardo al riconoscimento di Israele, vero oppio per quelle masse immiserite e incolte”. Ma, con tutta la buona volontà, riconoscere cosa? Le masse arabe saranno anche “immiserite e incolte”, però si sono accorte del fatto che Israele non ha mai chiarito quali siano i suoi confini territoriali, cioè dove intende fermarsi e neppure se intende fermarsi.
Le diatribe pretestuose su antisionismo ed antisemitismo sono a loro volta nuvole di una fumeria d’oppio, mentre la domanda concreta su quelli che Israele considera i propri confini definitivi non se la fanno soltanto i palestinesi, ma soprattutto i libanesi e i siriani, visto che sono in gioco le loro fonti idriche. Il contenzioso riguarda infatti il controllo dei fiumi, quindi non soltanto la terra ma anche l’acqua. La questione palestinese è l‘aspetto più grave, plateale e sanguinoso del conflitto arabo-israeliano, ma non è l’unico.
L’oppio delle masse arabe sarebbe il testardo rifiuto di riconoscere Israele, mentre invece la cocaina nostrana è la “democrazia liberale”. Secondo la vulgata occorre difendere Israele perché è un’isola di democrazia liberale in quel mare di paesi retrogradi e autoritari che è il mondo arabo-islamico. La “democrazia” è quindi uno status antropologico (ovvero una condizione di superiorità razziale), un rango internazionale così elevato da consentire di trattare gli altri paesi da inferiori. Si tratta ovviamente di propaganda, ma le gerarchie antropologiche hanno comunque un effetto pratico molto preciso, cioè che una parte si riserva il diritto di mantenere illimitate le proprie pretese e di non attenersi alle regole che valgono per gli altri. Potrebbe darsi però che il termine “democrazia” sia solo uno pseudonimo di qualcos’altro.
Le coppie semantiche sono infatti molto “freudiane” e rivelatorie del pensiero profondo, per cui accostare la parola “immiserito” alla parola “incolto” è un modo di evocare inconsciamente il primato antropologico della ricchezza nei confronti della massa degradata dei poveri. Sebbene si faccia chiamare in altro modo ed interpreti vari personaggi, spesso il vero attore protagonista è il denaro, per cui anche alla cerimonia degli Oscar non si sa mai se si sta premiando il film considerato migliore, oppure quello che ha avuto il budget più alto. Secondo un articolo del 2013 del quotidiano israeliano “Haaretz”, in sessanta anni gli Stati Uniti avevano già versato ad Israele aiuti finanziari per 234 (duecentotrentaquattro) miliardi di dollari al netto dell’inflazione. Sempre secondo “Haaretz” tali finanziamenti non erano dovuti a pressioni lobbistiche, bensì ad una profonda affinità strategica e politica; cioè una corrispondenza d’amorosi sensi tra due “democrazie”, come a dire nozze tra aristocratici. Ma al di là delle nobili motivazioni e dei gossip, le centinaia di miliardi di dollari possono vantare una “vita propria”, creano una bolla finanziaria e una “massa d’urto” in grado di orientare e condizionare gli eventi. Se parole come “sionismo”, “antisemitismo”, “democrazia” eccetera, possono drogare la comunicazione, tanto più gli avvenimenti possono essere drogati e gonfiati da iniezioni finanziarie di quella portata. Il denaro ha carisma, crea euforia, suggestioni, narrazioni, aspettative e, soprattutto, dipendenza, quindi ci sarà bisogno di dosi crescenti, tanto da mettere in conto genocidi e guerre mondiali pur di scongiurare le crisi d’astinenza.
Prima di diventare il figlio viziato, tossicodipendente e scapestrato degli USA (una specie di Hunter Biden collettivo), l’Israele del 1948 aveva trovato il suo mallevadore e fornitore di armi nell’Unione Sovietica di Stalin. Ma trent’anni prima, nel novembre del 1917, il riconoscimento del movimento sionista e la legittimazione di una patria ebraica in Palestina avvennero tramite una letterina privata del conte di Balfour, all’epoca ministro degli Esteri inglese, al barone Rothschild, il noto super-banchiere; quindi il massimo della “democrazia”. A dare retta a quello che riporta l’archivio web della famiglia Rothschild, la vicenda della Dichiarazione Balfour ha dei risvolti persino più inquietanti. Pare infatti che il “do ut des” sottostante alla Dichiarazione Balfour fosse stato l’impegno che Rothschild e soci avevano profuso (distribuendo mazzette?) per far entrare gli Stati Uniti in guerra contro la Germania, cosa che era avvenuta nell’aprile precedente. Nella ricostruzione degli eventi legati alla Dichiarazione Balfour viene sottolineato il ruolo svolto dal sionismo cristiano, che era molto diffuso nell’aristocrazia inglese; circostanza che conferma che nel sionismo reale il fattore etnico ebraico appare piuttosto labile. Si può speculare sull’ipotesi se vi sia stato dolo, ma secondo la loro stessa autobiografia familiare i Rothschild hanno oggettivamente presentato gli ebrei come una minaccia esistenziale per il popolo tedesco, mettendo quindi a rischio l’incolumità delle comunità ebraiche in Germania e nell’Europa dell’est. Intenzionalmente o meno, ciò ha di fatto favorito il sionismo.
Non si può attribuire il successo del sionismo al suo presunto potenziale identitario, in quanto durante la prima guerra mondiale l’identificazione degli ebrei askenaziti con la nazione tedesca fu assoluta; infatti “askenazita” significa “tedesco” e la lingua Yiddish è un dialetto germanico. L’esercito tedesco della guerra del 1914-1918 era notoriamente pieno di ufficiali ebrei; meno noto è che la presenza ebraica fu rilevante anche nella Wehrmacht e nelle Waffen SS della seconda guerra mondiale, il che indica la persistenza di un sentimento nazionale tedesco negli ebrei, oltre che un notevole opportunismo dei nazisti allorché si trattava di preservare le capacità belliche.
Nel corso della prima guerra mondiale era stato enorme l’impegno bellico degli scienziati ebrei, come dimostra il caso di Fritz Haber, insignito del premio Nobel per la chimica e, grazie al quale, l’esercito del kaiser fu il primo a dotarsi di armi chimiche. Il denaro aveva però drogato gli eventi e li aveva ri-narrati; perciò, nonostante il suo nazionalismo tedesco e i suoi “meriti” patriottici, Haber non sfuggì alla persecuzione nazista, ma per sua fortuna era abbastanza ricco e ammanigliato da riuscire a riparare in Svizzera.
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