Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L'ennesimo massacro di detenuti compiuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ha scatenato il consueto rituale di ipocrisie o di esibizioni forcaiole. L’effetto di distrazione di questi falsi dibattiti rischia di oscurare un dato che invece dovrebbe risultare evidente, cioè che la normativa vigente già prevede che il carcere possa diventare luogo di abusi, per cui conferisce ad una serie di soggetti istituzionali, estranei all'amministrazione carceraria, la possibilità di visitare le carceri senza alcuna autorizzazione. Ministri, parlamentari (compresi i membri italiani del parlamento europeo), consiglieri regionali, magistrati, membri del CSM, persino autorità diocesane. Si tratta quindi di centinaia di soggetti che possono svolgere una vera e propria funzione ispettiva che non ha eguali in altri settori. I parlamentari, ad esempio, non possono accedere senza autorizzazione ai luoghi di lavoro, o negli ospedali o nelle strutture di ricovero per anziani e disabili, mentre nelle carceri sì. Ciò vuol dire anche che i detenuti, i loro familiari ed i loro avvocati avrebbero a disposizione un gran numero di soggetti a cui far pervenire segnalazioni.
In base ad una tale normativa non dovrebbe esistere luogo più sicuro del carcere e la polizia penitenziaria dovrebbe sentirsi costantemente il fiato sul collo, tanto da prevenire abusi dell'entità di quello avvenuto a Santa Maria Capua Vetere. Ciò invece non avviene, coloro che avrebbero la possibilità, ed anche il dovere, di controllare, non lo fanno. Evidentemente il sistema carcerario, come altri sistemi istituzionali, non procede in base alla normativa ufficiale, bensì in base a schemi “informali”, che di fatto scoraggiano i controlli.
Proprio nel periodo in cui sono avvenute le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, si era ricominciato a parlare di un caso analogo di oltre venti anni fa, avvenuto nel carcere di Sassari. All'epoca c'era il governo D’Alema ed il ministro della Giustizia era addirittura Oliviero Diliberto, dei Comunisti Italiani. Anche quel caso di Sassari ebbe strascichi giudiziari, cosa che però non ha dissuaso affatto la polizia penitenziaria dal ripetere comportamenti analoghi.
Se il personale carcerario, nonostante i rischi giudiziari che a volte ciò comporta, continua negli abusi, le spiegazioni possibili sono due. Una spiegazione è quella tipicamente cospirativa, per cui esisterebbero centrali occulte da cui partono certi impulsi. L’altra possibile spiegazione riguarda invece la dinamica sociale sottostante alle amministrazioni dello Stato, nelle quali i legami sociali formali ed istituzionali, che dovrebbero indirizzare i comportamenti del personale, non garantiscono sufficienti protezioni e garanzie ai singoli. Se i poliziotti, nonostante i possibili rischi, si prestano egualmente a commettere abusi, vuol dire che temono maggiormente i rischi di isolamento sociale che una tale scelta legalitaria comporterebbe.
Il commettere insieme abusi e reati comporta la formazione di legami sociali stabili, di un sistema di complicità e protezioni reciproche. Si forma una sorta di ombrello omertoso sotto cui ripararsi, che attenua di molto le eventuali conseguenze di inchieste giudiziarie. Nessuno è del tutto immune da errori e nessuno può sfuggire alla calunnia, perciò è più probabile che, quando si vada a cercare un capro espiatorio da immolare ad una fittizia restaurazione della legalità, si scelgano proprio quei soggetti estranei alle conventicole ed alle cupole, per cui alla fine sono proprio i più corretti, e non i più corrotti, a precipitare sulla graticola delle persecuzioni. Nel film del 1973 “Serpico”, basato sulla storia autentica di un poliziotto di New York, il funzionario onesto sconta la sua correttezza con uno stressante isolamento sociale che lo espone ad ogni aggressione.
Il voler stare alle regole, o per moralità o per mera ricerca del quieto vivere, comporta un isolamento sociale per il quale alla fine si rischia di non salvare né la tranquillità, né la reputazione. Insomma, in termini di socializzazione il delitto paga, e ciò vale anche e soprattutto per i delitti commessi in ambito istituzionale. Il bisogno di delitto è un’espressione del bisogno di socializzazione. Lo Stato, nella sua accezione reale, quindi non coincide con la “legalità”, è “qualcos’altro”. Di recente è arrivata la scoperta dell'acqua calda: anche la magistratura si “autogestisce” come fosse un racket. La Legge non possiede una capacità di coesione sociale, se non nel momento in cui viene violata. Tutta la distinzione corrente tra statuale e “privato” risulta del tutto fittizia, per cui gli interessi privati, soprattutto i più loschi, trovano proprio negli apparati dello Stato la possibilità concreta di strutturarsi in lobby, in cosche d’affari.
Lo Stato rimane al livello di nozione giuridica, magari evoluta e sofisticata ma astratta, che di fatto copre altre aggregazioni ed altre gerarchie sociali inconfessate, più arcaiche e tribali. Non c’è solo lo “Stato profondo”, c’è soprattutto lo Stato informale, che è quello reale. Nel XVIII secolo il filosofo Jacopo Stellini (che, tra l'altro, era un prete) diceva che nella stessa società convivono livelli di civiltà completamente diversi, e si può concludere che sono i livelli di civiltà più “bassi” a dettare le vere regole. La modernità si rivela in gran parte un'illusione e persino il sacro riappare continuamente nella sua forma più idolatrica e superstiziosa, come ha dimostrato la recente ondata di vaccinolatria.
Oggi la legislazione sembra adattarsi a questa sua sostanziale impotenza, inseguendo più finalità “pedagogiche” che effettivamente normative. Attualmente è in discussione una modifica delle Legge Mancino, il DDL Zan, che intenderebbe estendere la categoria dei “reati di odio”, dichiarando ovviamente di voler preservare la libertà di opinione. Si tratta di leggi di contenuto sfuggente, che esplicitamente non nascono per essere applicate ma che si ispirano ad una concezione predicatoria e “siatebuonista”. La convivenza civile non viene perseguita attraverso una legislazione equilibrata e coerente, bensì con rituali collettivi di purificazione delle anime.
A Clark Kent basta mettersi gli occhiali perché nessuno si accorga che è lui Superman, così come a don Diego de La Vega è sufficiente una mascherina sugli occhi per non essere riconosciuto come Zorro. Ci si spiega queste incongruenze dicendosi che in fondo si tratta di fiction; salvo poi rendersi conto che, quanto a doppie identità, nella realtà avvengono cose molto più strane.
Il presidente della Regione Veneto, il leghista Luca Zaia, va a Roma a parlare con Mattarella di “autonomia differenziata” e si compiace del fatto che il tema che gli interessa sia al centro dell'attenzione istituzionale. L’autonomia differenziata è un separatismo virtuale (e neanche tanto virtuale), e si avvale dell’ombrello, garantito dall'Unione Europea delle macroregioni transnazionali, come l’Eusalp, la macroregione alpina a guida bavarese.
Nel frattempo il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha firmato un patto, definito dai media come “sovranista”, con altri partiti europei per un’Europa non federale ma confederale, che salvi le specificità nazionali dei vari Paesi. Alla firma del patto ci sono anche i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, la quale non si accorge della doppia identità della Lega, separatista e ultra-europeista oppure nazionalista a seconda delle occasioni.
I media coltivano la nuova immagine “sovranista” della Lega e dedicano molta meno enfasi quando si tratta di riferire sulla “identità segreta” e storica della stessa Lega, quella del separatismo a sponda europeista. I media non sottolineano neppure il fatto che PD e Lega, sebbene insieme al governo all'ombra di Draghi, recitino la parte dei partiti su posizioni opposte, salvo poi collaborare quando si tratta di autonomia differenziata. La tecnica dei media di aumentare o diminuire il volume della comunicazione a seconda dei casi, spiega in parte il fatto che l'opinione pubblica digerisca certi paradossi senza protestare. Ma anche se i media svolgono un ruolo decisivo nella mistificazione, bisogna pure notare che c’è una parte consistente della pubblica opinione che sembra prestarsi con molta disponibilità a questi spericolati sperimentalismi politico-sociali.
Trent'anni fa, nel periodo del crollo dell'URSS, anche da sinistra si contestava al comunismo sovietico di aver fallito per aver concepito la società come un laboratorio e gli esseri umani come cavie per sperimentazioni di utopie. Magari la contestazione era pure fondata, però pochi notavano che in quello stesso periodo il senso comune del Sacro Occidente assumeva su di sé senza alcuna obiezione l’etica della cavia, e questo vari decenni prima che la campagna vaccinale imponesse a tutti il dovere di rischiare in nome di un ipotetico interesse generale. Tutto ciò che si presentava come “nuovo” non poteva essere rifiutato. Il “risveglio etnico” in Jugoslavia fu accolto dall'opinione pubblica italiana con atteggiamento corrivo, persino con giubilo, come se una dichiarazione di indipendenza unilaterale, senza aver negoziato prima i confini, non corrispondesse di fatto ad una dichiarazione di guerra. A metà degli anni ’90, sebbene il massacro in Jugoslavia fosse già iniziato, tutta l'opinione pubblica italiana, compresa quella di “sinistra” era in piena febbre autonomista.
Gli OGM della politica si inseriscono in una società, quella italiana, che si percepisce storicamente come un laboratorio. L'Italia ha inventato il fascismo e, sempre in Italia, con il governo Conte bis, è sorto questo nuovo esperimento politico-sociale del golpismo sanitario permanente. Che l’Italia sia stata il primo Paese occidentale a lanciare l’emergenzialismo Covid, lo si è dimenticato troppo presto. L'Italietta è sempre molto brava a bistrattarsi, a presentarsi come frivola, corrotta, indisciplinata e spendacciona, nascondendosi all'ombra di Paesi più “virtuosi” e vistosi come la Germania; ma, quando si tratta di avventurarsi in territori inesplorati, l’Italietta risponde all’appello senza alcuna esitazione.
Il colpo di Stato del 1992 presenta molti aspetti paradigmatici a riguardo, poiché lo strumento golpistico inedito delle inchieste giudiziarie, passate alla Storia come Tangentopoli o “Mani pulite”, si combinò con la tecnica classica, “rinascimentale”, del putsch, cioè l’assassinio politico, fatto passare alternativamente come suicidio o attentato di mafia.
Nel 1992 un ceto medio ancora benestante e fortemente integrato ed intrecciato con il ceto politico di allora, aderì al linciaggio ed alla liquidazione del sistema dei partiti con un entusiasmo frenetico, che non corrispondeva affatto alla difesa degli interessi materiali dello stesso ceto medio. Negli anni ’80 la classe lavoratrice aveva avuto di che recriminare sulle scelte del sistema dei partiti, mentre il ceto medio, al contrario, aveva visto allargarsi il proprio benessere ed i propri privilegi, anche attraverso lo strumento dell’acquisto dei titoli del debito pubblico, che a quel tempo davano rendimenti elevati. All’epoca l’unico politico a rilevare questo paradosso fu Ugo Intini, vicesegretario del PSI. Il “premio” che il ceto medio riscosse per la sua adesione al colpo di Stato, fu l’istituzione da parte del governo Amato della tassa sugli immobili, l’ICI, poi denominata IMU.
Anche l’esperimento politico successivo, quello del berlusconismo, raccolse l’adesione entusiastica di gran parte del ceto medio e persino di ceti popolari. In quel caso il “premio” per essersi tuffati nell'avventura di seguire un avventuriero, fu l’istituzione nel 2005, da parte del secondo governo del Buffone di Arcore, della famigerata Equitalia. Sarebbe quindi ragionevole aspettarsi che il ceto medio del Nord Italia riceva qualche altro “premio” del genere per il suo appoggio all’esperimento dell’autonomia differenziata.
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