Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Quello che è stato definito lo "sfacelo secondo Matteo" ha segnato un'ulteriore tappa con il declassamento del debito italiano da parte dell'agenzia di rating "Standard&Poors". Avrebbe potuto essere l'occasione per segnalare l'inattendibilità delle agenzie di rating e la loro funzionalità a pratiche illegali di aggiotaggio. Il governo Renzi ha accolto invece la retrocessione con un atteggiamento remissivo, sforzandosi di scorgere aspetti positivi nel giudizio dell'agenzia di rating, interpretato masochisticamente come uno "stimolo" sulla strada delle "riforme", cioè dello sfacelo.
Al contrario, il governo Renzi ha assunto pose più baldanzose nei confronti della cancelliera Merkel, la quale aveva accomunato Italia e Francia in una valutazione di insufficienza circa le "riforme" intraprese. Il fatto di trovarsi in compagnia della Francia, ha evidentemente conferito alla compagine renziana una sensazione di maggiore copertura, tanto da consentire qualche accento insolente. In realtà le dichiarazioni della Merkel fanno chiaramente comprendere che l'Italia era usata come mero elemento diversivo, e che l'argomento al centro del discorso era la questione dei rapporti tra Unione Europea e Russia in seguito al contenzioso sull'Ucraina.
Chi favoleggia tanto di "Quarto Reich", dovrebbe riscontrare che la sudditanza della cancelleria tedesca ai dettami di Washington non potrebbe essere più supina e servile. La Merkel si pone come garante della politica antirussa dell'Unione Europea, ridotta ad agenzia della NATO (ammesso che la UE sia mai stata altro). Il vero bersaglio delle dichiarazioni della Merkel era perciò il presidente francese Hollande, colpevole di un incontro a sorpresa con Putin. La cancelliera tedesca fa capire ad Hollande che le sue iniziative di distensione diplomatica e commerciale non avranno alcuno spazio. La stampa ufficiale italiana si è allineata scrupolosamente agli slogan della NATO, ridicolizzando l'iniziativa di Hollande e definendo Putin come un "dittatore". Eppure Putin viene eletto oggi con gli stessi sistemi di quindici anni fa, solo che allora la politica estera russa era ritenuta confacente agli interessi "occidentali" (ovvero degli USA), tanto che allo stesso Putin veniva riconosciuto nientemeno che il titolo di "presidente".
Da una mezza calzetta come Hollande non ci si può certo aspettare la capacità di rovesciare l'attuale politica della UE, quindi quelle di Hollande sono soltanto deroghe e furbizie, attuate per salvare qualche interesse commerciale. Si tratta dello stesso tipo di deroghe e furbizie messe in atto da Enrico Letta verso la fine del suo governo. Tra la fine del 2013 e l'inizio del 2014, vari accordi commerciali con la Russia furono avviati da Letta, cosa che, molto probabilmente, gli è costata la poltrona di Presidente del Consiglio. Letta ha così pagato l'unico, e timido, atto di autonomia del suo governo.
Ma l'attacco pubblico più aspro e severo per quegli accordi di Letta con la Russia è venuto in parlamento da parte della deputata Chimenti, a nome del Movimento 5 Stelle. Si parla sin troppo dell'attuale crisi del M5S, e delle responsabilità a riguardo della gestione Grillo-Casaleggio. Secondo alcuni commentatori, una parte dell'elettorato sarebbe stata spaventata dal turbinio di dichiarazioni politicamente scorrette di Grillo. Ma, considerando la dichiarazione parlamentare della deputata Chimenti, ci si rende conto che le ambiguità del movimento sono più profonde, e derivano probabilmente dal problema opposto, cioè da una venerazione eccessiva dei feticci della vigente parodia del "politically correct". Anzi, sembra persino di ascoltare la propaganda occidentalista di un esponente del Partito Radicale.
Un'infiltrazione radicale nel M5S spiegherebbe forse il motivo per cui questa "forza di opposizione" non spinge nella direzione che sarebbe la più diretta ed efficace nel mettere in mostra le contraddizioni del governo, e cioè la politica estera. Denunciare la corruzione del ceto politico italiano, senza però segnalare il contesto colonialistico in cui tale corruzione si sviluppa, diventa solo un modo per fare autorazzismo, riconfermando così le basi ideologiche della sottomissione coloniale. Accade così che ci si scandalizzi per i rapporti del Partito Democratico di Roma con il "mafioso" Salvatore Buzzi, mentre non si fa caso a relazioni molto più significative.
Del resto, solo gli idolatri della magistratura possono non considerare che certe inchieste giudiziarie svolgono oggettivamente la funzione di disboscare il terreno per prepararlo ad altre coltivazioni. Un malaffare espresso da un certo territorio, ed in esso radicato, può essere soppiantato da un malaffare di importazione coloniale. Casualmente, la nascita del governo Renzi è andata infatti a coincidere con l'ingresso del finanziere George Soros nella IGD, società immobiliare controllata dalla Lega delle Cooperative, come a dire la fonte primaria di approvvigionamento finanziario del PD. Renzi ha giurato da Presidente del Consiglio alla fine di febbraio, mentre l'annuncio che Soros era diventato il terzo azionista dell'IGD è arrivato ai primi di marzo. La coincidenza temporale è tale da escludere che si sia trattato di un semplice investimento da parte di questo finanziere, tanto celebrato sia per le sue iniziative "filantropiche", sia per le "rivoluzioni colorate" che ha allestito nell'Est europeo in funzione antirussa.
Tra filantropia e rivoluzioni colorate c'è peraltro un nesso evidente, dato che proprio le iniziative umanitarie hanno consentito a Soros di insinuarsi nei Paesi che poi ha destabilizzato. A causa di quest'opera meritoria in favore della "democrazia e dei diritti umani" (pseudonimi dei business delle multinazionali), Soros è diventato un "membro NATO" a tutti gli effetti, in posizione alla pari, o anche superiore, a quella di molti Stati. La fondazione privata a scopo filantropico di Soros - lo "Open Society Institute" - costituisce un'agenzia di politica estera a tutti gli effetti. Esiste - ed è ancora rintracciabile sul web - un documento della NATO del novembre 2000, che in parte riguarda proprio l'Ucraina, nel quale un privato come Soros appare con un ruolo addirittura preminente rispetto a quello della UE. Il segretario generale della NATO di allora, Robertson, ed il "filantropo" Soros discutevano della collaborazione passata e di altri eventuali "progetti congiunti" per il futuro. Poi abbiamo visto quali fossero questi progetti congiunti.
Da parte dei commentatori economici è stato dato scarso rilievo all'anomalia costituita dal brusco calo dei prezzi del petrolio in presenza di una guerra in Medio Oriente. A riguardo non vi sono infatti precedenti storici, dato che in passato la conflittualità medio-orientale è stata sempre strumentalizzata - e fomentata - per favorire impennate dei prezzi del petrolio. La Guerra del Kippur del 1973 e la Guerra del Golfo del 1991 rappresentano i due casi più noti a riguardo. Alla guerra in Medio Oriente si aggiunge la crisi ucraina, che interessa direttamente le vie di approvvigionamento di una materia prima come il gas; una circostanza che in passato non avrebbe mancato di spingere al rialzo i prezzi della materia prima che è diretta concorrente del gas, cioè il petrolio.
Le attuali analisi economiche teorizzano una sorta di "guerra di tutti contro tutti" tra i produttori di petrolio, una guerra che secondo alcuni penalizzerebbe in egual misura produttori come la Russia e gli USA. La propaganda di marca USA è invariabilmente all'insegna dell'autocommiserazione, perciò non mancano i piagnistei sui poveri Americani, che avrebbero potuto finalmente starsene a casa loro a farsi i cazzi propri, ciò grazie all'indipendenza energetica ottenuta con il "fracking" delle rocce di scisto; ed invece gli USA ora sarebbero ancora costretti a continuare ad interessarsi del resto del mondo a causa della sua cattiveria.
Ma la "guerra di tutti contro tutti" in sé non spiega nulla, poiché essa costituisce una condizione di base dei rapporti internazionali, che non esclude affatto alleanze contro nemici comuni. Si richiama spesso - e si contesta altrettanto spesso - la formula secondo cui la guerra avrebbe "cause economiche". La facilità con cui è possibile contestare affermazioni del genere deriva dalla loro stessa vaghezza. "Economia" è un concetto talmente lato ed astratto che si può argomentare con altrettanta forza in un senso o nell'altro. Se invece si osserva che militarismo ed affari costituiscono un intreccio inestricabile, si fa una semplice constatazione di fatto. La guerra e le armi sono oggettivamente dei business, allo stesso modo in cui il business diventa frequentemente un'arma da guerra. Vi sono poi "merci" che vanno addirittura oltre questa considerazione di carattere generale. Il petrolio, ed anche l'oppio, sono infatti merci in cui il contenuto militaristico e bellico supera di gran lunga aspetti come il costo di produzione o il meccanismo di domanda e offerta. Espressioni come "guerre dell'oppio" o "guerre del petrolio" sono quindi pleonastiche, inutilmente ripetitive, poiché basta riferirsi al petrolio o all'oppio per implicare l'esistenza di uno stato di guerra.
Se la guerra in Medio Oriente non ha determinato un aumento dei prezzi del petrolio, ciò potrebbe essere dovuto al fatto che in questa circostanza è il ribasso dei prezzi ad essere divenuto un'arma da usare contro gli avversari. L'attuale conflitto siro-iracheno vede schierati da una parte gli USA con le petromonarchie sue alleate, e dall'altra la Russia e l'Iran, sostenitori del regime di Assad in Siria. Mentre i media statunitensi offrono una rappresentazione tanto fiabesca quanto cruda e ripugnante dell'Isis (il sedicente Califfato), le milizie dello stesso "Califfato" continuano ad essere finanziate da un fido alleato della NATO, il Qatar. Nel Regno Unito il fatto è talmente noto che persino il primo ministro inglese Cameron ha dovuto recentemente, almeno a livello di mera dichiarazione, prendere le distanze dall'emiro del Qatar, se non altro fingendo di porre sul tavolo la questione dei finanziamenti all'Isis.
La Russia è addirittura impegnata su due fronti che interessano direttamente i suoi confini, dato che oltre che la Siria, dall'anno scorso c'è in ballo anche l'Ucraina. In questo contesto, la politica al ribasso dei prezzi del petrolio è stata avviata dall'Arabia Saudita, che è alleata degli USA ed anch'essa indicata dalla stampa britannica come finanziatrice dell'Isis. Il ribasso dei prezzi costituisce quindi un episodio delle guerre in Siria, Iraq ed Ucraina, cioè un attacco diretto a Paesi come la Russia e l'Iran, più dipendenti dal petrolio per mantenere i propri equilibri finanziari. Il dumping dell'Arabia Saudita non si spinge ovviamente a sfiorare neppure alla lontana il sottocosto, ma il calo del prezzo del petrolio determina ugualmente un crescente stress finanziario per i Paesi più deboli. I ribassi praticati dall'Arabia Saudita, hanno infatti costretto Mosca e Teheran a spingere i prezzi ancora più giù per salvaguardare vendite e profitti. Altrettanto ha dovuto fare l'Iraq.
Non si tratta quindi di una semplice guerra commerciale, dato che in questo caso il commercio è direttamente usato come arma di una guerra già combattuta sul terreno. Come era prevedibile, il calo del prezzo del petrolio ha posto anche il rublo sotto pressione. La scommessa del dipartimento di Stato USA è che il regime Gazprom-putiniano non possa reggere ad un basso prezzo del petrolio.
Le crescenti difficoltà di Gazprom fanno sì che diventino sempre più "economiche" le sue azioni, cosa che rende più facili eventuali ingressi condizionanti da parte di "investitori" stranieri. Nel maggio scorso infatti il gruppo Rothschild ha avviato l'acquisto di azioni Gazprom.
|