Da parte dei commentatori economici è stato dato scarso rilievo all'anomalia costituita dal brusco calo dei prezzi del petrolio in presenza di una guerra in Medio Oriente. A riguardo non vi sono infatti precedenti storici, dato che in passato la conflittualità medio-orientale è stata sempre strumentalizzata - e fomentata - per favorire impennate dei prezzi del petrolio. La Guerra del Kippur del 1973 e la Guerra del Golfo del 1991 rappresentano i due casi più noti a riguardo. Alla guerra in Medio Oriente si aggiunge la crisi ucraina, che interessa direttamente le vie di approvvigionamento di una materia prima come il gas; una circostanza che in passato non avrebbe mancato di spingere al rialzo i prezzi della materia prima che è diretta concorrente del gas, cioè il petrolio.
Le attuali analisi economiche teorizzano una sorta di
"guerra di tutti contro tutti" tra i produttori di petrolio, una guerra che secondo alcuni penalizzerebbe in egual misura produttori come la Russia e gli USA. La propaganda di marca USA è invariabilmente all'insegna dell'autocommiserazione, perciò non mancano i piagnistei sui poveri Americani, che avrebbero potuto finalmente starsene a casa loro a farsi i cazzi propri, ciò grazie all'indipendenza energetica ottenuta con il "fracking" delle rocce di scisto; ed invece gli USA ora sarebbero ancora costretti a continuare ad interessarsi del resto del mondo a causa della sua cattiveria.
Ma la "guerra di tutti contro tutti" in sé non spiega nulla, poiché essa costituisce una condizione di base dei rapporti internazionali, che non esclude affatto alleanze contro nemici comuni. Si richiama spesso - e si contesta altrettanto spesso - la formula secondo cui la guerra avrebbe "cause economiche". La facilità con cui è possibile contestare affermazioni del genere deriva dalla loro stessa vaghezza. "Economia" è un concetto talmente lato ed astratto che si può argomentare con altrettanta forza in un senso o nell'altro. Se invece si osserva che militarismo ed affari costituiscono un intreccio inestricabile, si fa una semplice constatazione di fatto. La guerra e le armi sono oggettivamente dei business, allo stesso modo in cui il business diventa frequentemente un'arma da guerra. Vi sono poi "merci" che vanno addirittura oltre questa considerazione di carattere generale. Il petrolio, ed anche l'oppio, sono infatti merci in cui il contenuto militaristico e bellico supera di gran lunga aspetti come il costo di produzione o il meccanismo di domanda e offerta. Espressioni come "guerre dell'oppio" o "guerre del petrolio" sono quindi pleonastiche, inutilmente ripetitive, poiché basta riferirsi al petrolio o all'oppio per implicare l'esistenza di uno stato di guerra.
Se la guerra in Medio Oriente non ha determinato un aumento dei prezzi del petrolio, ciò potrebbe essere dovuto al fatto che in questa circostanza è il ribasso dei prezzi ad essere divenuto un'arma da usare contro gli avversari. L'attuale conflitto siro-iracheno vede schierati da una parte gli USA con le petromonarchie sue alleate, e dall'altra la Russia e l'Iran, sostenitori del regime di Assad in Siria. Mentre i media statunitensi offrono una rappresentazione tanto fiabesca quanto cruda e ripugnante dell'Isis (il sedicente Califfato), le milizie dello stesso "Califfato" continuano ad essere finanziate da un fido alleato della NATO, il Qatar. Nel Regno Unito
il fatto è talmente noto che persino il primo ministro inglese Cameron ha dovuto recentemente, almeno a livello di mera dichiarazione, prendere le distanze dall'emiro del Qatar, se non altro fingendo di porre sul tavolo la questione dei finanziamenti all'Isis.
La Russia è addirittura impegnata su due fronti che interessano direttamente i suoi confini, dato che oltre che la Siria, dall'anno scorso c'è in ballo anche l'Ucraina. In questo contesto, la politica al ribasso dei prezzi del petrolio è stata avviata dall'Arabia Saudita, che è alleata degli USA ed anch'essa indicata dalla stampa britannica come finanziatrice dell'Isis. Il ribasso dei prezzi costituisce quindi un episodio delle guerre in Siria, Iraq ed Ucraina, cioè un attacco diretto a Paesi come la Russia e l'Iran, più dipendenti dal petrolio per mantenere i propri equilibri finanziari.
Il dumping dell'Arabia Saudita non si spinge ovviamente a sfiorare neppure alla lontana il sottocosto, ma il calo del prezzo del petrolio determina ugualmente un crescente stress finanziario per i Paesi più deboli. I ribassi praticati dall'Arabia Saudita, hanno infatti costretto Mosca e Teheran a spingere i prezzi ancora più giù per salvaguardare vendite e profitti. Altrettanto ha dovuto fare l'Iraq.
Non si tratta quindi di una semplice guerra commerciale, dato che in questo caso il commercio è direttamente usato come arma di una guerra già combattuta sul terreno. Come era prevedibile, il calo del prezzo del petrolio ha posto anche il
rublo sotto pressione. La scommessa del dipartimento di Stato USA è che il regime Gazprom-putiniano non possa reggere ad un basso prezzo del petrolio.
Le crescenti difficoltà di Gazprom fanno sì che diventino sempre più "economiche" le sue azioni, cosa che rende più facili eventuali ingressi condizionanti da parte di "investitori" stranieri. Nel maggio scorso infatti il gruppo Rothschild ha avviato
l'acquisto di azioni Gazprom.