Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
A differenza del suo sempre inquietante predecessore, Matteo Renzi, l’attuale segretario del PD, Nicola Zingaretti esibisce un aspetto rassicurante e pacioccone. Ciò non gli impedisce però di lanciare messaggi ancora più inquietanti. Prendendo a pretesto i numeri sui nuovi contagiati dal virus, Zingaretti ha ammonito gli Italiani sulla prospettiva di un altro lockdown se le misure di “distanziamento sociale” non saranno rispettate. Non è neppure necessario un altro lockdown, è sufficiente minacciarlo per scoraggiare la ripresa di molte attività commerciali e produttive, per non parlare poi dell’effetto di dissuasione su chi volesse investire in nuove attività.
Il dominio della finanza ha dissolto lo stesso concetto di economia, a cui pure molti si ostinano ingenuamente ad attaccarsi, per cui una mega-recessione a colpi di crolli a due cifre del PIL, viene messa allegramente in conto. Nell’epoca dei tassi di interesse a zero, preservare e incrementare il valore dei crediti attraverso la deflazione diventa la priorità assoluta. Mentre si rimane attardati su astrazioni come “Stato” ed “economia”, si perde di vista che i veri soggetti in campo sono le lobby con i loro affari, ed ogni emergenza diventa una cordata di business, perciò non c’è da stupirsi che l’emergenzialismo non abbia alcuna voglia di mollare la presa.
Zingaretti è ovviamente un “tifoso” del MES, a cui non vede l’ora di aggiogare l’Italia. MES significa infatti quasi sicuramente arrivo della Troika, perciò l’integrazione europea dell’Italia potrà essere assicurata a colpi di commissariamento. Non che il Recovery Fund non comporti risultati analoghi; ma il MES è già una realtà, mentre il Recovery Fund potrebbe ancora arenarsi per le esitazioni della Germania. Il governo tedesco è vincolato alla propria stessa propaganda, che ha giustificato il crollo dei redditi in Germania addossando la colpa ai Paesi del Sud, spreconi e parassiti; ma c’è anche il timore nei confronti degli USA, poco disposti a tollerare un esplicito colonialismo tedesco sull’Europa occidentale. Gli oligarchi nostrani sono i primi ad essere consapevoli che il Recovery Fund potrebbe sgonfiarsi, perciò hanno fretta di stabilire un solido “vincolo esterno” che gli faccia da sponda contro le proprie classi subalterne.
Per affrettare l’accesso al MES è arrivato anche l’assist del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Il Governatore ci conforta circa i pericoli del MES, dato che se saremo bravi a spendere e investire, i “Mercati” ci apprezzeranno e non ci attribuiranno le stimmate di Paese sull’orlo del fallimento. Il Governatore Visco lascia intendere però che non saremo affatto bravi, anzi, che faremo brutta figura con i “Mercati” e ci anticipa anche chi sarà il colpevole. Il napoletano Visco ha infatti colto l’occasione per una litania di autorazzismo meridionale, con i soliti appelli alla “legalità” e con la scontata osservazione che la gran parte delle opere incompiute è, guarda caso, al Sud.
L’autorazzismo determina inghippi logici analoghi a quello del paradosso del cretese che diceva che tutti i Cretesi sono bugiardi. Chi ci assicura infatti che lo stesso Visco sia immune dai vizi dei suoi conterranei che egli così argutamente denuncia? Magari il capo della camorra è proprio Visco, che ne sappiamo? In fondo tra crimine organizzato e banche, siamo lì.
Ma bisogna evitare la tentazione di lasciarsi andare alla dialettica ritorsiva. Il vero problema è che, allo stesso modo in cui il paradosso del cretese è un falso confezionato nella forma del nonsenso, così l’autorazzismo non deriva da un complesso di inferiorità, bensì è una specifica tecnica di dominio consolidata nei secoli dalle oligarchie meridionali, che storicamente hanno basato il proprio potere gestendo il Sud come colonia deflazionistica. Ritardare o bloccare l’uso dei fondi stanziati per il Sud è sempre stato un modo per garantire l’attivo dei bilanci dello Stato, cioè per assicurarsi l’agognata deflazione tanto cara alle lobby finanziarie, le lobby dei creditori. L’autorazzismo porta le classi subordinate non soltanto a sottomettersi al “vincolo esterno”, ma anche a sottovalutare il proprio ceto dirigente, vedendone esclusivamente gli aspetti di inettitudine e corruzione, non notando invece l’avarizia e la brutalità delle oligarchie nostrane, la loro tendenza a considerare il proprio popolo come cavie e carne da macello.
L’autorazzismo collaudato al Sud può essere poi applicato su scala nazionale, con risultati sempre efficaci. La bocciatura da parte della Corte dei Conti europea non ha assolutamente messo in crisi i sostenitori italiani delle grandi opere ed in particolare del buco in Val di Susa. Se l’opera risulta inutile e costosa, la colpa non sarebbe dell’opera ma dell’Italia che non sa spendere bene e in fretta.
L’Italia è però, in questo caso, un soggetto un po’ vago. Il punto è che il business delle grandi opere è strutturato appositamente per far lievitare i costi, creando voragini finanziarie che vanno colmate con altro debito pubblico. In questo periodo si sta sperimentando l’inedita combinazione di deficit di bilancio e di deflazione. Le grandi opere quindi non sono solo una pacchia per le lobby affaristiche dell’edilizia, in quanto si tratta di investimenti del tutto omogenei alla logica deflazionistica delle lobby finanziarie. Gli investimenti in grandi opere sono ideali per la lobby della deflazione perché creano pochissima occupazione, non comportano ricadute positive per il territorio e non determinano alcun effetto moltiplicatore che stimoli consumi ed altre attività produttive.
I pochi sostenitori del no al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari avevano molte buone ragioni dalla loro parte. Ridurre il numero dei parlamentari non soltanto va contro il principio di rappresentanza, ma urta anche il semplice buonsenso, poiché, più sono strette le maglie per accedere al ruolo di parlamentare, minori saranno le possibilità che in parlamento entrino persone dotate di un’autentica passione politica e non semplicemente dei carrieristi del tutto soggetti alle segreterie dei partiti.
Mancava però ai sostenitori del no la ragione fondamentale, cioè l’esistenza in vita di qualcosa che potesse essere considerato un parlamento, almeno secondo i canoni storici che dovrebbero definire questo termine. Un parlamento che delegittima se stesso, vergognandosi della propria funzione parassitaria di intralcio alla “rapidità del processo decisionale”, non può essere considerato un parlamento ma un mero luogo di ratifica.
Nella visione realistica e pessimistica del potere formulata prima da Locke e poi, in modo più articolato, da Montesquieu, il parlamento rivendicava specificamente il proprio ruolo di intralcio all’attività dei governi, ponendosi non come un semplice luogo di controllo ma come un contrappeso, una funzione di ostacolo all’assolutismo ed alle sue pretese.
Per riciclare in grande stile l’assolutismo, è bastato sostituire il potere per grazia divina con la “rapidità del processo decisionale”, ciò è assolutamente coerente con l’attuale contesto di emergenzialismo cronico, per cui ogni decisione diventa “urgente”. Allo scopo il liberalismo rigorosamente metodologico di Montesquieu è stato da tempo soppiantato dal liberalismo parolaio e polivalente alla John Stuart Mill, con il quale è possibile giustificare tutto ed il contrario di tutto, in particolare il colonialismo.
Un dato curioso è che molti costituzionalisti constatano questo tramonto del parlamentarismo con una sorta di collaborativa rassegnazione. Dopo le elezioni del 2013 il costituzionalista Marco Olivetti, poi divenuto consulente giuridico del governo Gentiloni, osservava come la gestione della formazione del governo da parte del Presidente Napolitano configurasse già una repubblica presidenziale. L’analisi di Marco Olivetti riscontrava che non solo il parlamento, ma persino il governo che dovrebbe reggersi sulla sua fiducia, erano di fatto sotto la tutela del Presidente della Repubblica. Il passaggio dalla repubblica parlamentare a quella presidenziale era avvenuto senza alcuna revisione costituzionale, bensì attraverso colpi di mano istituzionali. L’unico “rimedio” che il “costituzionalista” Olivetti si sentiva di proporre, era di legittimare questo strapotere presidenziale “almeno” attraverso un’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Si propone quindi una “riforma” per legittimare a posteriori un fatto compiuto, per non dire un golpe. Di restaurare il regime parlamentare, invece non se ne parlava proprio. Il “costituzionalismo” non si pone più come guardiano della legittimità degli atti ma si cerca un impiego come reggicoda del golpismo.
Sia Napolitano, sia ancora più esplicitamente l’attuale Presidente Mattarella, hanno rivendicato una legittimazione, ma molto diversa dal mandato popolare, ponendosi come intermediari tra l’Italia e i poteri esterni dell’Unione Europea. Il Presidente della “Repubblica” si pone quindi come agente e garante del colonialismo e dell’autocolonialismo.
I sostenitori del “no” hanno, in un certo senso, invocato la chiusura della stalla quando i buoi sono già scappati, quando il regime parlamentare è stato ormai congedato. Il feticismo costituzionale impedisce infatti di misurarsi con i veri soggetti che hanno invaso e occupato lo spazio istituzionale, cioè il colonialismo euro-germanico con i suoi entusiastici e zelanti sostenitori interni, i nuovi “austriacanti”, molto più aggressivi e spregiudicati di quelli dell’800.
L’anno scorso si era parlato di una candidatura di Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio; una prospettiva irrealistica, dato che un uomo del potere vero come Draghi non avrebbe certo potuto accettare quel ruolo da sfigato e da passacarte che è diventato il presiedere il governo in Italia. La voce di una candidatura di Draghi alla Presidenza della Repubblica, può vantare invece una maggiore plausibilità, poiché il Presidente della Repubblica riveste oggi la funzione di agente e garante del colonialismo euro-germanico. Lo stesso Draghi può rivendicare un’esperienza pluridecennale in questo ruolo, sin da quando nel 1991 fu nominato Direttore Generale del Ministero del Tesoro e avviò l’era delle privatizzazioni massicce .
D’altra parte le ipotesi sui pericoli futuri possono essere un ottimo modo per distrarsi dalle vicende del colonialismo presente e in pieno svolgimento. L’acquisizione della maggioranza della quota del porto di Trieste da parte del Comune di Amburgo è stata narrata dai nostri media nei termini del “si aspettavano i Cinesi ed invece sono arrivati i Tedeschi”. In realtà i Cinesi potrebbero ancora arrivare, solo che il loro eventuale ingresso nella gestione del porto di Trieste sarà negoziato dai Tedeschi. Il punto è che la città di Amburgo nella repubblica federale tedesca ha il rango di Stato, perciò, dopo il precedente delle basi militari degli USA e della NATO, si ha ora un altro caso di una frazione del territorio italiano gestita direttamente da uno Stato straniero.
Per giustificare la colonizzazione non viene più neppure invocata la foglia di fico delle privatizzazioni. Il porto di Trieste sarà infatti di proprietà pubblica, ma il “pubblico” di un altro Paese.
Ringraziamo Claudio Mazzolani per la collaborazione.
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