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IL PRESIDENZIALISMO AUTOCOLONIALE
Di comidad (del 08/10/2020 @ 00:19:56, in Commentario 2020, linkato 6838 volte)
I pochi sostenitori del no al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari avevano molte buone ragioni dalla loro parte. Ridurre il numero dei parlamentari non soltanto va contro il principio di rappresentanza, ma urta anche il semplice buonsenso, poiché, più sono strette le maglie per accedere al ruolo di parlamentare, minori saranno le possibilità che in parlamento entrino persone dotate di un’autentica passione politica e non semplicemente dei carrieristi del tutto soggetti alle segreterie dei partiti.
Mancava però ai sostenitori del no la ragione fondamentale, cioè l’esistenza in vita di qualcosa che potesse essere considerato un parlamento, almeno secondo i canoni storici che dovrebbero definire questo termine. Un parlamento che delegittima se stesso, vergognandosi della propria funzione parassitaria di intralcio alla “rapidità del processo decisionale”, non può essere considerato un parlamento ma un mero luogo di ratifica.
Nella visione realistica e pessimistica del potere formulata prima da Locke e poi, in modo più articolato, da Montesquieu, il parlamento rivendicava specificamente il proprio ruolo di intralcio all’attività dei governi, ponendosi non come un semplice luogo di controllo ma come un contrappeso, una funzione di ostacolo all’assolutismo ed alle sue pretese.
Per riciclare in grande stile l’assolutismo, è bastato sostituire il potere per grazia divina con la “rapidità del processo decisionale”, ciò è assolutamente coerente con l’attuale contesto di emergenzialismo cronico, per cui ogni decisione diventa “urgente”. Allo scopo il liberalismo rigorosamente metodologico di Montesquieu è stato da tempo soppiantato dal liberalismo parolaio e polivalente alla John Stuart Mill, con il quale è possibile giustificare tutto ed il contrario di tutto, in particolare il colonialismo.
Un dato curioso è che molti costituzionalisti constatano questo tramonto del parlamentarismo con una sorta di collaborativa rassegnazione. Dopo le elezioni del 2013 il costituzionalista Marco Olivetti, poi divenuto consulente giuridico del governo Gentiloni, osservava come la gestione della formazione del governo da parte del Presidente Napolitano configurasse già una repubblica presidenziale. L’analisi di Marco Olivetti riscontrava che non solo il parlamento, ma persino il governo che dovrebbe reggersi sulla sua fiducia, erano di fatto sotto la tutela del Presidente della Repubblica. Il passaggio dalla repubblica parlamentare a quella presidenziale era avvenuto senza alcuna revisione costituzionale, bensì attraverso colpi di mano istituzionali. L’unico “rimedio” che il “costituzionalista” Olivetti si sentiva di proporre, era di legittimare questo strapotere presidenziale “almeno” attraverso un’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Si propone quindi una “riforma” per legittimare a posteriori un fatto compiuto, per non dire un golpe. Di restaurare il regime parlamentare, invece non se ne parlava proprio. Il “costituzionalismo” non si pone più come guardiano della legittimità degli atti ma si cerca un impiego come reggicoda del golpismo.

Sia Napolitano, sia ancora più esplicitamente l’attuale Presidente Mattarella, hanno rivendicato una legittimazione, ma molto diversa dal mandato popolare, ponendosi come intermediari tra l’Italia e i poteri esterni dell’Unione Europea. Il Presidente della “Repubblica” si pone quindi come agente e garante del colonialismo e dell’autocolonialismo.
I sostenitori del “no” hanno, in un certo senso, invocato la chiusura della stalla quando i buoi sono già scappati, quando il regime parlamentare è stato ormai congedato. Il feticismo costituzionale impedisce infatti di misurarsi con i veri soggetti che hanno invaso e occupato lo spazio istituzionale, cioè il colonialismo euro-germanico con i suoi entusiastici e zelanti sostenitori interni, i nuovi “austriacanti”, molto più aggressivi e spregiudicati di quelli dell’800.
L’anno scorso si era parlato di una candidatura di Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio; una prospettiva irrealistica, dato che un uomo del potere vero come Draghi non avrebbe certo potuto accettare quel ruolo da sfigato e da passacarte che è diventato il presiedere il governo in Italia. La voce di una candidatura di Draghi alla Presidenza della Repubblica, può vantare invece una maggiore plausibilità, poiché il Presidente della Repubblica riveste oggi la funzione di agente e garante del colonialismo euro-germanico. Lo stesso Draghi può rivendicare un’esperienza pluridecennale in questo ruolo, sin da quando nel 1991 fu nominato Direttore Generale del Ministero del Tesoro e avviò l’era delle privatizzazioni massicce .

D’altra parte le ipotesi sui pericoli futuri possono essere un ottimo modo per distrarsi dalle vicende del colonialismo presente e in pieno svolgimento. L’acquisizione della maggioranza della quota del porto di Trieste da parte del Comune di Amburgo è stata narrata dai nostri media nei termini del “si aspettavano i Cinesi ed invece sono arrivati i Tedeschi”. In realtà i Cinesi potrebbero ancora arrivare, solo che il loro eventuale ingresso nella gestione del porto di Trieste sarà negoziato dai Tedeschi. Il punto è che la città di Amburgo nella repubblica federale tedesca ha il rango di Stato, perciò, dopo il precedente delle basi militari degli USA e della NATO, si ha ora un altro caso di una frazione del territorio italiano gestita direttamente da uno Stato straniero.
Per giustificare la colonizzazione non viene più neppure invocata la foglia di fico delle privatizzazioni. Il porto di Trieste sarà infatti di proprietà pubblica, ma il “pubblico” di un altro Paese.

  Ringraziamo Claudio Mazzolani per la collaborazione.