Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
La multinazionale mediatica “Bloomberg” ha diffuso nei giorni scorsi una dichiarazione di Angela Merkel, secondo la quale il governo tedesco non penserebbe ad aiuti di Stato per soccorrere “Deutsche Bank, che, come è noto, ha aggiunto ai suoi guai finanziari anche la multa di quattordici miliardi di dollari inflittale dal governo federale USA. La dichiarazione è stata accolta con ovvi sarcasmi, visto che non ha alcun senso prospettare un “bail in” per il caso Deutsche Bank, in quanto anche una spoliazione completa di azionisti, obbligazionisti e correntisti rappresenterebbe una goccia nel mare del dissesto finanziario della maggiore banca tedesca. La voragine di Deutsche Bank è di tale entità che non avrebbe senso pensare neppure ad un aiuto di Stato, bensì occorrerebbe qualche accordo internazionale per gestire la riconversione dell’infinita massa di titoli tossici che albergano nei conti della banca. Anche la sortita dei vertici di Deutsche Bank, che hanno fatto da sponda alla Merkel dichiarando a loro volta di non aver intenzione di chiedere aiuti statali, rientra quindi nella pura retorica.
Sebbene prive di senso, le dichiarazioni della Merkel e di Deutsche Bank svolgeranno ugualmente una funzione nella comunicazione da talk-show, come riprova esclusivamente retorica del rigorismo tedesco. In Italia l’informazione riguardante la Germania è una delle più censurate e manipolate, e tende ad accreditare l’immagine, in positivo o in negativo, del colosso economico-finanziario dal quale dipenderebbero le nostre sorti. Anche Renzi, nella sua ultima performance di Bratislava si è attenuto a questo copione, concentrando la polemica nei confronti dell’ottusità e dell’egoismo del governo tedesco.
La vera questione è in realtà molto diversa, dato che non si comprende quali sarebbero le armi di ricatto in mano alla Merkel nei confronti dell’Italia. La Germania non è nostra creditrice e, come Paese che esporta la gran del suo PIL, la stessa Germania avrebbe tutto da perdere in una guerra commerciale di dazi. Persino la Commissione Europea ha un potere contrattuale piuttosto relativo nei confronti dell’Italia, poiché non potrebbe far altro che deferirla alla Corte di Giustizia in vista di eventuali multe.
Se c’è invece uno che oggi ci tiene per le palle è un italiano, un certo Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea e garante/compratore del nostro debito pubblico. Lo stesso Draghi si fa pagare dall’Italia questa garanzia con “riforme strutturali”, cioè con austerità. Quindi se oggi l’Italia ha una controparte è Draghi e non la Merkel. Si paventava anche che la Corte Suprema tedesca bocciasse la politica di “quantitative easing” e di bassi tassi di interesse di Draghi, ritenendola incompatibile con il proprio ordinamento costituzionale, ma così non è stato, anzi la sentenza della Corte è stata pienamente favorevole all’attuale linea della BCE.
Il “colosso economico” tedesco ha basato tutta la sua concezione esistenziale sul surplus commerciale, ma negli anni ‘90 non riusciva a raggiungere quell’obiettivo, anzi era in disavanzo della bilancia commerciale; c’è riuscito solo grazie al trucco dell’euro, mantenuto in vita dai “quantitative easing” di un italiano, Draghi, il quale lavora per conto della NATO.
La questione tedesca rimane comunque centrale, poiché l’effettivo ruolo di questo Paese rimane oscuro, avvolto da mitologie ed omissioni informative. Ci si vende un “modello tedesco” che non esiste, un illusionismo che regge solo a patto di non metterlo sotto osservazione.
La stessa biografia della Merkel costituisce infatti un gigantesco buco nero. Tra l’altro non si chiama neppure Merkel ma Kasner, e avrebbe acquisito il cognome attuale da un misterioso primo marito da cui avrebbe divorziato. La “Merkel” sarebbe figlia di un pastore protestante e nata ad Amburgo, in Germania Ovest, nel 1954, in piena guerra fredda; ma la sua famiglia si sarebbe trasferita nell’Europa dell’Est (una fuga all’incontrario), con il pretesto ufficiale di evangelizzare i comunisti (sic!). Laureata in fisica, la “Merkel” avrebbe fatto parte della Gioventù Comunista e sarebbe entrata nel primo governo della DDR successivo alla caduta del Muro di Berlino, per poi farsi notare e adottare dal cancelliere Kohl.
Le cose non vanno meglio neanche per la biografia dell’attuale ministro dell’Economia Wolfgang Schaeuble, che, da ministro degli Interni, alla fine degli anni ‘80 fu il gestore della riunificazione tedesca insieme con il massimo dirigente di Deutsche Bank, Alfred Herrhausen. Questi fu ucciso in un attentato nel novembre del 1989, ma meno di un anno dopo anche Schaeuble rimase vittima di un attentato che lo ridusse su una sedia rotelle per il resto dei suoi giorni. Le indagini sull’assassinio di Herrhausen seguirono dapprima la solita pista della RAF, ma non portarono a nulla, mentre lo sparatore di Schaeuble fu classificato sbrigativamente come “pazzo”. Non siamo mica a Casal di Principe ma in un contesto di “purezza ariana” (pardon, di “etica protestante”, ma il senso è quello), perciò il fatto che i due organizzatori del grande banchetto finanziario costituito dal saccheggio delle banche e delle industrie della DDR siano incorsi in attentati a pochi mesi l’uno dall’altro, fu considerato una pura coincidenza, tanto da non ritenerla neppure degna di nota.
Un domani magari uno storico serio (ma esistono?) riuscirà forse a spiegarci il mistero della Germania, un Paese classificato come ricco e potente ma che tra l’800 ed il ‘900 ha visto partire dal proprio territorio più emigranti di qualsiasi altro Paese europeo; tanto che oggi i cittadini americani di origine tedesca sono quarantasei milioni, la prima etnia degli USA con il 18% del totale della popolazione, quindi più degli Irlandesi americani che sono trentatré milioni, e quasi il doppio rispetto agli anglo-americani, che sono appena venticinque milioni, ed il triplo degli italo-americani che non arrivano al 6% del totale.
Nell’attesa di queste spiegazioni, intanto in Italia ci si potrebbe accontentare di non farsi più prendere per i fondelli dal nostro conterraneo Mario Draghi.
Uno dei fantasmi mediatici più accreditati è quello del “grande comunicatore”, un titolo che per la prima volta fu elargito negli anni ‘80 al presidente USA Ronald Reagan. In realtà le pubbliche esibizioni di Reagan erano penose, tali da lasciare annichilito l’uditorio, subissato di barzellette demenziali e di tirate di retorica patriottica prive di riscontro in un’epoca che era già di disincanto. L’omertà giornalistica provvedeva però a far credere che la comunicazione reaganiana fosse superlativa, perciò ciascuno veniva a trovarsi nella condizione della favola dei vestiti dell’imperatore: io non li vedo ma gli altri sì. In Italia il titolo di “grande comunicatore” è stato altrettanto abusivamente affibbiato prima al Buffone di Arcore ed, oggi, a Matteo Renzi. Se poi si considera che il potere, quale che sia, ha una rendita di posizione che gli consente di riscuotere automaticamente consenso, tutti i personaggi citati non sono mai riusciti ad andare oltre il minimo garantito da quella rendita di posizione, perciò per loro, all’appellativo di “grandi comunicatori”, andrebbe preferito quello più consono di “squallidi imbonitori”.
L’omertà mediatica ha però appena stabilito che sia stato Renzi a vincere il confronto televisivo con il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, e ciò appunto per le sue presunte “doti di comunicatore” nei confronti di un avversario sprovveduto in quel campo. Uno dei più decisi a proclamare la vittoria di Renzi è stato l’editorialista Eugenio Scalfari, il quale però, con la sua consueta goffaggine, ha fatto scoprire quali siano gli aspetti reconditi di tutta la questione della revisione costituzionale voluta dal governo; aspetti che non riguardano i confusi contenuti della riforma, bensì il messaggio subliminale che li accompagna. Scalfari ha infatti contestato a Zagrebelsky di contrapporre democrazia ed oligarchia, mentre, secondo lo stesso Scalfari, i due concetti sarebbero complementari. Per dimostrare l’assunto, l’editorialista di “Repubblica” ha fatto ricorso a tutte le sue approssimative reminiscenze scolastiche, comprese le Repubbliche Marinare, un argomento a cui si attribuiva gran peso nell’istruzione elementare di una volta.
Sarebbe stato più serio dire che la democrazia non esiste e che ci sono solo oligarchie, ma la tirata scalfariana ha il senso del fumo del diversivo, dato che è noto che Scalfari pensa a ben precise oligarchie, cioè al commissariamento dell’Italia da parte della troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale), cioè un’oligarchia che si legittima come “salvatrice” nei confronti di “emergenze” che essa stessa ha creato. Scalfari si è reso conto che parlare esplicitamente di troika” era troppo “hard”, quindi ha camuffato il concetto con la proposta del ministero del Tesoro europeo, una misura che la Germania non accetterebbe mai, ma che può costituire un’insinuante pulce nell’orecchio dell’opinione pubblica italiana, da abituare all’idea di un governo estero. Del resto nel 2011 anche Mario Monti, dalle colonne del “Corriere della Sera, fece appello alla sua vacillante preparazione liceale sulla storia comunale per proporci l’idea di un “podestà straniero”.
Un’opinione pubblica distratta dalla scadenza referendaria non è che in minima parte consapevole del fatto che il commissariamento da parte della Troika rappresenta oggi una prospettiva concreta per l’incombere dell’emergenza della crisi bancaria. Lunedì scorso il ministro dell’Economia Padoan ha organizzato una riunione a porte chiuse dei vertici bancari per affrontare la questione della ricapitalizzazione degli istituti di credito, ma i margini sono strettissimi a causa del “bail in” e delle continue ingerenze della Banca Centrale Europea, pronta a inventarsi sempre nuove condizioni.
Un commentatore con i crismi dell’ufficialità come il giornalista Massimo Mucchetti, si è concesso di andare al cuore del problema ricordando che quando alla fine del 2015 il governo ha deciso arbitrariamente di anticipare di alcuni mesi l’entrata in vigore del “bail in”, quella che allora era semplicemente la crisi di quattro avventuristiche banche di provincia, ha assunto le dimensioni di una crisi di sistema. Per la precisione, Mucchetti non ha nominato il governo, ma ha parlato di “errore dell’Italia”. La personificazione di concetti astratti è un consolidato espediente per evitare di individuare le responsabilità, ma il dato di fatto non cambia: l’emergenza non c’era e “qualcuno” l’ha creata artificiosamente.
Se invece il governo avesse deciso semplicemente di salvare le quattro banche senza coinvolgere i risparmiatori, non si sarebbe compromessa la raccolta di risparmio degli altri istituti di credito. Il “bail in” sarebbe entrato in vigore tranquillamente dal 1° gennaio successivo senza che nessuno se ne accorgesse e gli investitori avrebbero continuato a comprare obbligazioni ed azioni bancarie, senza peraltro rischiare più di tanto. A parte Monte dei Paschi di Siena, nessuna banca italiana ha problemi di titoli derivati; inoltre le tanto enfatizzate “sofferenze” hanno anche fruttato parecchio alle stesse banche in termini di acquisizione di patrimoni immobiliari dei debitori.
Il governo ha quindi creato la crisi ed il panico senza che nessuna situazione oggettiva lo giustificasse e senza che nessuna regola lo obbligasse a farlo. Si può supporre che Renzi sia stato “consigliato” da qualcuno (il solito Mario Draghi?), ma queste sarebbero speculazioni. Il punto è che Renzi e Padoan hanno posto le basi per una crisi istituzionale, altro che “riforma costituzionale”.
Esistono leggi per sanzionare questi comportamenti criminali dei governi? In teoria sì, perché Renzi potrebbe essere imputato di vari reati, a cominciare da quelli di abuso di potere e di aggiotaggio; di fatto però la magistratura non riesce a concepire i reati della politica se non nella forma primitiva dell’intascare tangenti. Il reato di diffondere informazioni false o esagerate per determinare finte emergenze utili a certe lobby sovranazionali, non rientra nella forma mentis (o negli interessi personali) degli inquirenti.
A proposito del lobbying occulto (ma mica tanto occulto) di Renzi, va registrata, una volta tanto, un’iniziativa più che pertinente dei parlamentari 5 Stelle, i quali hanno annunciato un esposto alla Procura di Roma per segnalare lo strano nesso consequenziale tra gli annunci di Renzi sulla ripresa del progetto del ponte sullo Stretto di Messina e gli incrementi del titolo in Borsa della multinazionale edile Impregilo, cioè l’azienda che da decenni tiene in ostaggio le casse dello Stato con quel finto progetto. Anche in questo caso infatti l’intento renziano di manipolare il mercato borsistico a favore di “qualcuno” è risultato palese. Non che gli esposti siano in grado di spostare le abitudini della magistratura, ma costituiscono comunque un mezzo per mettere in evidenza l’inerzia della stessa magistratura quando si tratti di reati legati al lobbying occulto.
L’impunità dei lobbisti occulti regna sovrana ovunque, persino quando vengono sbugiardati ufficialmente nelle loro mistificazioni, ciò persino nella “civilissima” Gran Bretagna. La commissione esteri del parlamento britannico ha accertato che l’intervento militare in Libia del 2011 è stato deciso dal governo Cameron con motivazioni infondate e addirittura false, paventando persino un inesistente pericolo per cittadini britannici residenti in Libia. Quindi tutto falso, così come era già stato per l’intervento militare di Blair nel 2003 in Iraq. Ma ciò ovviamente non comporterà l’imputazione di Cameron o di Blair per alto tradimento e neppure per lobbying occulto a favore della multinazionale BP.
Mai sottovalutare l’irresponsabilità dei privilegiati.
Non si diventa “fintosinistra” dalla sera al mattino perché è caduto il Muro di Berlino, c’erano da prima le premesse ideologiche per svuotare di senso i partiti “difensori del lavoro” e per soppiantare i loro gruppi dirigenti. Prima di soppiantare i gruppi dirigenti, si era già soppiantata l’ideologia. La sinistra è stata permeata da quell’untuoso umanesimo che considera il crimine come l’effetto di uno svantaggio sociale, di un disagio sociale o di una mancata educazione sociale. Insomma, si spreme una lacrimuccia sulla sorte dei poveri, ma poi i potenziali criminali vengono sempre individuati solo tra i poveri. Il problema è che invece il crimine è un rapporto sociale che si insedia nella stessa gestione della legge e del potere. La prassi del criminale dal colletto bianco non sta soltanto nel sottrarre una ricchezza non propria, ma nell’allestire lo spettacolo sociale della svalutazione e del deprezzamento di quella ricchezza per farla apparire come una miseria da “soccorrere”. Così è sempre stato fatto per il lavoro, ma oggi si va a coinvolgere persino istituti bancari.
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