Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Comunicazione del Comidad alle giornate anticlericali di Napoli 22-23 febbraio 2003
Le tesi anarchiche hanno messo in evidenza non solo le
pratiche oppressive e criminali degli apparati di potere clericale,
ma anche la funzione esemplare del potere religioso. La religione,
in altri termini, ha fornito il modello essenziale per le più
varie concezioni, strutture e organizzazioni gerarchiche della
società moderna. La critica anarchica della religione non può
infatti essere confusa con l'anticlericalismo generico, il quale
in realtà intende opporsi alle malefatte dell'apparato
clericale e alla credulità dei fedeli. Non è
certamente una cosa trascurabile, ma su questo genere di critica
converge, da Voltaire in poi, un'ampia parte del pensiero
borghese.
Le insulsaggini della credulità
religiosa sono messe alla berlina dagli illuministi e dai liberi
pensatori, dai libertini e dai trasgressivi in genere, correnti di
pensiero che mettono ben di rado in discussione la struttura
gerarchica della società. Questo perché si è
scoperto che si poteva criticare e persino irridere alle forme
esteriori del clericalismo, senza mettere in discussione la
sacralità della gerarchizzazione sociale. Insomma bisogna
tener conto del carattere mistificatorio della modernità, che
si rivela essere solo un mascheramento del sacro, mentre la
«laicizzazione» della società prospetta in realtà
una divinizzazione della società stessa.
Nell'ambito
di una critica anarchica, l'anticlericalismo preanarchico finisce
per mostrare dei limiti molto seri, perché sembra avallare
l' idea della divisione della società in laica e religiosa
senza tener conto di quanto il sacro pervada oggi le relazioni
sociali.
Insomma, l'anticlericalismo preanarchico
rischia di non colpire nel segno e di essere
persino controproducente dando solo l'illusione di liberarci da
un'oppressione. In altri termini, mentre l'anticlericalismo
attacca l'aspetto abitudinario, un po' rituale e un po'
paganeggiante, della religione cattolica; aspetto spesso marginale;
rischia di trascurare le forme più invasive ed efficaci del
sacro. La stessa idea dello sbattezzo non ci ha mai entusiasmati
proprio perché distrae dalla sacralità del vincolo
gerarchico, di cui il clero è l'archetipo ma non il
detentore esclusivo.
In realtà, la
divinizzazione della società e quindi l'intangibilità
del vincolo sociale vengono espressi, al di là della retorica
modernista, nelle forme più arcaiche e brutali. La pratica
del sacrificio impone di immolare vite umane sull'altare del
progresso o della sicurezza sociale; i «diritti umani»
vanno garantiti anche a costo del sacrificio di innumerevoli
individui; le guerre degli Stati non rinunciano mai a vestirsi di
sacro (le bandiere, i confini, il suolo).
Ma è
il vincolo sociale l'elemento centrale di questa sacralità:
il vero anatema, la vera condanna non è l'accusa di ateismo
o agnosticismo, ma quella di asocialità. Il rifiuto del
vincolo sociale, cioè il rifiuto di sacrificarsi e
sacrificare altri per qualcosa che si chiami interesse generale o
patria, umanità o progresso, questo rifiuto provoca
l'emarginazione o l'esclusione dell'individuo asociale dalla
collettività.
comidad - febbraio 2003
La Democrazia come mito ha subìto un notevole discredito dalla guerra coloniale in
Irak. Il rischio a questo punto è però che in questo
nuovo spazio critico aperto dal discredito del mito democratico,
vengano riciclati una serie di luoghi comuni e di pseudo-obiezioni.
Ci pare il caso del
recente libro di Luciano Canfora, Democrazia - storia di
un'ideologia, un testo che ripropone il consueto problema della
cultura marxistica, cioè la dipendenza dalla propaganda
ufficiale. Del resto, la stessa fortuna del marxismo è dovuta
proprio al fatto di essere niente più che un'appendice della
ideologia dominante, quindi di essere compatibile con il conformismo.
Il difetto principale
dell'argomentazione di Canfora è infatti quello di riprendere
acriticamente uno dei principali temi della propaganda di destra,
cioè la distinzione, anzi la contrapposizione, tra libertà
e uguaglianza. Anche Norberto Bobbio attuava questa
distinzione/contrapposizione, assegnando la libertà alla
destra e l'uguaglianza alla sinistra.
Che la destra si serva
dello slogan della libertà e si presenti come la "casa
delle libertà", è un fatto, ma si tratta appunto
di propaganda, anzi di propaganda nel suo aspetto più
mistificatorio.
In realtà, la
libertà e l'uguaglianza non soltanto non sono separabili, ma
non sono neppure ben distinguibili sul piano pratico, nel senso che
risultano nomi diversi per la stessa cosa, magari vista sotto
angolazioni un po' diverse. Libertà e uguaglianza hanno
infatti gli stessi avversari: gerarchie e privilegi.
Il liberalismo storico
voleva limitare le une e gli altri, chiedeva alle gerarchie di
legittimarsi in termini di ordine e di garantismo giuridico. L'ideale
del liberalismo è infatti uno Stato di Diritto, basato sulla
separazione dei poteri e su pesi e contrappesi istituzionali.
Anche Canfora finisce
indirettamente per far proprio l'equivoco semantico che identifica
liberalismo e libertà, mentre in effetti il termine
liberalismo non deriva da libertà, ma da "liberalità",
cioè generosità; infatti il liberalismo - così
come è stato concepito da Locke e da Montesquieu - è
basato su una idea redistributiva del potere.
Il liberalismo non è
quindi "deregulation", ma, al contrario, è un culto
della regola, perciò consiste in un metodo preciso, che
richiederebbe però una trasparenza istituzionale che non è
riuscito mai a imporre. Benedetto Croce chiedeva inutilmente ai
governi liberali la messa fuori legge della massoneria, lamentando
che nel segreto delle logge i poteri separati si ricomponessero
attraverso patti oscuri.
Al contrario del
liberalismo, la Democrazia non è affatto definibile sul piano
metodologico. Molti la vorrebbero identificare col suffragio
universale, ma allora dovrebbero spiegare come mai la "più
grande democrazia del mondo", cioè gli Stati Uniti, ne
abbia fatto a meno sino a pochi decenni fa, ed anzi, sul piano
strettamente giuridico, ne faccia a meno ancora adesso, dato che la
iscrizione alle liste elettorali rimane facoltativa e soggetta alla
mediazione dei poteri locali.
Esiste un artificio
linguistico detto "prosopopea", che il dizionario
Devoto-Oli definisce:
"Figura
retorica per cui si introducono a parlare persone assenti o morte, o
anche cose astratte, come se fossero vive e presenti".
Il dizionario
Palazzi-Folena inserisce in questa figura retorica anche la pratica
di "animare e personificare cose o animali".
Nella propaganda la
prosopopea ha un notevole ruolo: basti ricordare espressioni come "il
tribunale della Storia" o " il libro della Natura".
D'altro canto il parlare comporta inevitabilmente un certo grado di
artificio retorico ed è quasi sempre possibile difendersi
dall'abuso della prosopopea riconducendo le cose alla loro
definizione.
Uno dei casi in cui ciò
non è possibile è quello della Democrazia, poiché
essa è indefinibile per definizione, in quanto essa
costituisce pura prosopopea, nel senso che la Democrazia funziona nel
discorso solo se viene personificata. Per questo motivo, ad esempio,
è stato possibile agli americani "portare la Democrazia
in Irak". "Imporre la Democrazia" poteva apparire
strano, perciò la si è semplicemente "portata".
A rigor di termini, gli USA avrebbero potuto imporre in Irak uno
Stato di Diritto, ma poi sarebbero stati costretti ad osservare le
regole che essi stessi avevano imposto, cosa che però non
avevano assolutamente intenzione di fare. Nella sua indefinibilità
metodologica, la Democrazia consente invece uno spazio discrezionale
assoluto, un'assoluta "deregulation" ad uso e consumo del
potente e prepotente di turno.
Il dibattito
democratico è ovviamente popolato di altre prosopopee, cioè
di ulteriori soggetti non solo astratti, ma anche indefinibili, che
però agiscono e parlano come entità animate. Il
"Mercato" è uno di questi soggetti, la cui natura
inconsistente e puramente mitologica potrebbe essere immediatamente
rilevata attraverso l'osservazione che lo Stato è sempre e
comunque il primo cliente e il primo committente delle imprese,
perciò inevitabilmente lo Stato orienta e dirige l'economia
attraverso la spesa pubblica.
Anche nella scelta dei
nemici, la Democrazia preferisce soggetti altrettanto evanescenti,
come, ad esempio, il Terrorismo; un nemico che non può essere
circoscritto e consente perciò un margine di manovra
praticamente illimitato.
Nel linguaggio comune
la parola "prosopopea" indica anche un tronfio
atteggiamento di superiorità, e, in effetti, la Democrazia è
prosopopaica persino in questo senso, dato che della sua superiorità
fa l'unico elemento davvero distintivo e generalmente riconoscibile.
L'unica costante della Democrazia è infatti il senso di
superiorità sugli altri.
Beninteso, la
superiorità retorica della Democrazia è un dato di
fatto, perché essa ha un meccanismo comunicativo che inibisce
qualsiasi obiezione ed orienta ogni scelta. In questo meccanismo
comunicativo, l'elettoralismo svolge una decisiva funzione.
Le critiche
all'elettoralismo si limitano di solito a mettere in evidenza nel suo
meccanismo la non effettiva rappresentatività del "volere
popolare". Insomma, si obietta all'elettoralismo di non essere
abbastanza democratico, perdendo così di vista il potere
inibitorio e manipolatorio dell'elettoralismo stesso.
Una delle capacità
della Democrazia è di far discutere tutti come se si dovesse
SEMPRE votare, come se fosse urgente una scelta di schieramento. Il
dibattito democratico riesce a creare un senso di impellenza
elettorale anche laddove non c'è, perciò la discussione
sulla guerra in Irak si risolveva sempre nel votare per Bush o per
Saddam.
Ancora adesso molti
compagni continuano ad interrogarsi gravemente sul fatto se sia
giusto o meno appoggiare la resistenza irakena data la sua
propensione al "fascismo islamico". In realtà qui
non si tratta di votare per un governo islamico in Irak, ma
semplicemente di chiamare le cose col loro nome, per cui l'aggressore
va chiamato aggressore e l'aggredito va chiamato aggredito,
l'occupazione va chiamata occupazione e la resistenza all'occupante
va chiamata resistenza.
Se si vogliono chiamare
le cose col loro nome, anche l'espressione "fascismo islamico"
è un controsenso.
L'Islam è
sicuramente oscurantistico e oppressivo come ogni teocrazia, ma più
di ogni altra religione l'Islam si fonda su una regola precisa,
mentre il fascismo - per definizione e per autodefinizione - mette la
gerarchia al di sopra di ogni regola e quindi tende inevitabilmente
al razzismo.
Quindi il fascismo e il
nazismo convivono benissimo con la Democrazia, come ci ha dimostrato
Hitler e come ci dimostra Bush, il quale ha liquidato dopo l'11
settembre ogni traccia di Stato di Diritto negli Stati Uniti. Ma
anche l'elezione di Bush era stata ottenuta grazie ad un'illegalità
macroscopica: non un semplice broglio elettorale, ma il rifiuto da
parte di un giudice di verificare il risultato elettorale. Un
prestigioso teorico della Democrazia come Giovanni Sartori ha
giustificato la cosa dicendo che l'urgenza di avere un capo metteva
in secondo piano la correttezza procedurale. Quindi anche per
Sartori, la necessità di avere un Capo viene prima di ogni
regola: e questo che cos'è se non fascismo (anzi Democrazia)?
Comidad, luglio 2004