Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Risulta ormai evidente che il terremoto di Haiti è divenuto il pretesto dell’ennesima invasione militare statunitense. Di fronte a questa plateale aggressione militare, ordinata da Sant’Obama con i soliti pretesti umanitari, qualcuno si è spinto ad ipotizzare che lo stesso terremoto sia stato l’effetto di super-armi segrete di cui gli USA sarebbero in possesso. Ma in tal modo ci si spinge nel campo della pura speculazione, dato che l’esistenza di tali armi può essere solo immaginata. Laddove non c’è da immaginare, ma solo da constatare, è invece sul ruolo che ancora una volta stanno svolgendo i media di tutto il mondo, impegnati a fornire giustificazioni alla presenza militare statunitense.
I toni con cui i media enfatizzano presunti episodi di banditismo, rappresentano la scontata giustificazione della presenza dei marines per le strade della capitale haitiana; perciò, dietro il paravento del pietismo mediatico, si è immediatamente potuto scorgere l’intento di criminalizzare un intero popolo, presentandolo come vittima e carnefice di se stesso, in base ad uno schema precostituito e ricorrente di psico-guerra colonialistica.
Inoltre nessun commentatore ha neppure provato a spiegare i motivi logistici per i quali è presente di fronte alle coste haitiane anche una portaerei statunitense, che, chiaramente, può servire da supporto solo per velivoli da caccia e non per il trasporto di mezzi di soccorso. Si tratta di un’omissione significativa, ed anch’essa indica un atteggiamento di complicità dei media.
È scomparso inoltre dai mezzi di comunicazione quello che avrebbe dovuto costituire l’ovvio interlocutore di qualsiasi iniziativa di soccorso, e cioè il governo haitiano, come se il crollo delle cupole del palazzo presidenziale avesse cancellato di colpo la presenza di qualsiasi autorità civile sul posto. Non risulta infatti che l’intervento militare statunitense sia stato in nessun modo concordato, e la solita ONU si è soltanto affannata a legittimarlo a posteriori. Una razza subalterna di ex schiavi non ha neanche il diritto di chiedere aiuto, ma altri devono pensarci per loro, perciò oggi i militari statunitensi controllano l'aeroporto di Port-au-Prince, e il criminale Clinton coordina gli "aiuti", tra cui si annoverano le ONG, e persino Bertolaso, il che è una garanzia.
Le ipotesi giornalistiche sul numero delle vittime del sisma sono state improntate da subito ad un allarmismo privo di riscontri, e che appariva soltanto mirato a giustificare il fatto che si scavalcasse ogni procedura del diritto internazionale.
La super-arma di cui gli USA sicuramente dispongono sono i media mondiali, che possono creare l’emergenza anche laddove non ci sia, oppure presentare una vera emergenza con i contorni adatti a far apparire le scelte statunitensi come le sole possibili per far fronte alla tragedia in atto. Dato che catastrofi naturali non mancano mai, ne deriva la legittimazione di un colonialismo “umanitario”, il quale in sé non rappresenterebbe una novità, poiché da sempre il colonialismo ha accampato pretesti umanitari, spacciandosi per “aiuto” o “civilizzazione” di popoli barbari.
Nella propaganda dei media appare poi particolarmente sospetta l’insistenza sulla miseria degli Haitiani, come se due secoli di ingerenze, aggressioni e massacri da parte statunitense fossero stati dettati unicamente dal pio desiderio di soccorrere dei bisognosi. In realtà nessuno è così povero da non poter essere ancora derubato.
In effetti Haiti risulta interessante per il colonialismo statunitense sia per le sue risorse di materie prime (scienziati francesi vi hanno anche scoperto recentemente giacimenti di petrolio, e ciò spiega perché della missione "umanitaria" italiana faccia parte anche l'ENI), sia per la sua posizione geografica strategica sul piano militare e commerciale, sia per la sua riserva di manodopera a costo quasi zero. I predecessori di Obama, Bush e Clinton, non hanno mai allentato la morsa su Haiti, ed hanno sempre posto come condizione per il ritorno del Paese alla “normalità democratica” la consueta ondata di privatizzazioni a vantaggio delle multinazionali. Il presidente haitiano Aristide, inviso alle multinazionali, dovette svolgere il suo mandato tra l'ostilità degli organismi finanziari internazionali, ed anche dei media "progressisti" del sedicente Occidente, che gli rimproveravano di non essere sufficientemente puro e immacolato da risultare "degno" di opporsi alle aggressioni statunitensi (come se per opporsi alle rapine occorresse una patente rilasciata dal rapinatore); così i media "progressisti" hanno plaudito al colpo di Stato che ha cacciato definitivamente Aristide nel 2004.
La povertà non è uno spiacevole effetto collaterale del sistema affaristico, ma costituisce, al contrario, il fondamento di tutto il sistema. Il filosofo anglo-olandese Bernard de Mandeville, vissuto tra il ‘600 ed il ‘700, affermava che per gli affari i poveri sono la principale risorsa, la materia prima basilare, perché è più facile derubare i poveri che i ricchi, e perché li si può costringere più agevolmente a condizioni di lavoro umilianti e sottopagate: “La fame è una piaga spaventosa, senza dubbio, ma chi può prosperare e digerire senza di essa?” (La Favola delle Api).
Per quanto avvolte di retorica autocelebrativa, le tesi di Mandeville erano però troppo esplicite e rischiavano di aprire gli occhi alle vittime del sistema degli affari. Dalla seconda metà del ‘700, con il filosofo scozzese Adam Smith, la propaganda affaristica - o sedicente scienza economica - ha scelto perciò una strada diversa, più sottile e insinuante, ed invece di limitarsi a celebrare l’esistente, ha confezionato, ad uso delle vittime dell’affarismo, il mito di un “mercato” governato saggiamente da una “mano invisibile”. La dottrina esoterica della “mano invisibile” aveva lo scopo di confondere le idee alle vittime dell’affarismo, e di convincerle che sarebbero potute accedere ai vantaggi del paradiso del “mercato”, se solo avessero abbassato le difese e si fossero aperte fiduciosamente all’aggressione del colonialismo.
Nasceva così l’utopia del cosiddetto “capitalismo”, uno slogan fumoso e contraddittorio, che conferiva alle rapine affaristiche la dimensione impersonale di una ineluttabile legge dell’economia. Il termine "mercato" è così radicato nell'immaginazione delle persone, che oggi queste davvero credono che i rapporti affaristici internazionali siano regolati dalla compravendita, quando invece sono ancora la pirateria ed il saccheggio la prassi abituale delle multinazionali in molti Paesi, come il Congo, ed ora, di nuovo, anche ad Haiti.
Quando però la propaganda non basta, e le vittime di turno non si lasciano convincere dei vantaggi di un “libero mercato” inesistente e mai esistito, ecco che allora si torna alle aggressioni militari in grande stile, sempre con il pretesto di grandi e nobili ideali, ma sempre con lo scopo preciso di derubare gli affamati.
Un proverbio cinese, che fu reso famoso da Mao Tse Tung, dice: “Se qualcuno ha fame, non dargli un pesce, ma insegnagli a pescare”. Ma probabilmente il proverbio sarebbe più realistico se consigliasse di insegnare all’affamato come non farsi fregare il pesce.
Quando il segretario della CGIL Epifani ha lanciato la proposta di uno sciopero generale per promuovere una riforma fiscale, si è attirato una reprimenda da parte dei segretari di CISL e UIL. Il fatto che i segretari di CISL e UIL si siano profusi nelle consuete manifestazioni di servilismo verso il governo ed il padronato, non implica di per sé che la linea di Epifani abbia un senso.
Il tema della riforma fiscale è un po’ come quello della riforma istituzionale, serve cioè a rimandare il tutto ad una scadenza fittizia, apparentemente urgente, ma in effetti dilazionabile all’infinito, il cui risultato certo consiste soltanto nella delegittimazione delle garanzie esistenti.
Non a caso il Presidente del Consiglio - che ha attuato nel più assoluto silenzio una raffica di privatizzazioni natalizie - ora lancia pubblicamente ed enfaticamente una proposta di riforma fiscale, senza avere alcuna voglia di farla, ma solo per far abboccare la CGIL. In tal modo il sindacato delegittima se stesso e la propria funzione, poiché la difesa del salario viene demandata non ad un aumento dello stesso salario, ma ad una riduzione della pressione fiscale da parte dello Stato.
Un sindacato ha in realtà un modo diretto e semplice per “tassare” il padronato, rivendicando cioè il pagamento di salari più alti. La funzione storica del sindacato era infatti quella di scavalcare la mediazione del governo, non di invocarla. Il sindacato si pone come organizzazione di classe, quindi dovrebbe partire dal presupposto che lo Stato non sia neutrale, ma che, al contrario, costituisca un apparato funzionale al privilegio affaristico.
D’altra parte, il sindacato non è stato soltanto oggetto di una infiltrazione del suo gruppo dirigente, ma anche di una colonizzazione ideologica, che lo ha indotto a prendere come oro colato tutto il repertorio mitologico del vittimismo padronale. È la vecchia fiaba ufficiale del ricco che vive sempre insidiato dall’invidia sociale dei poveri, che cercano subdoli espedienti legali per espropriarlo. Il mito della “via fiscale al socialismo” fa il paio con il mito, altrettanto fasullo, delle “toghe rosse”, costituisce cioè un prodotto del vittimismo dei ricchi, i quali evocano tutta una serie di spettri della minacciata uguaglianza sociale: la “imposta progressiva”, la “patrimoniale”, la “tassazione delle rendite da capitale”. In questa fiaba il ricco, tartassato da un fisco manovrato dai poveri, non può svolgere tranquillamente la sua santa missione di creare altra ricchezza per la società. Ecco che allora il ricco è costretto ad impugnare la bandiera della “rivolta fiscale” ed a farsi condottiero e vindice dei meritevoli soffocati dall’invidia sociale. In questo scenario fiabesco, il copione assegna alla cosiddetta "sinistra" il ruolo del partito delle tasse, destinate ad alimentare una gigantesca spesa sociale, un assistenzialismo pubblico che deprimerebbe la concorrenza e il "mercato".
In realtà la spesa sociale non solo è cosa distinta dalla spesa pubblica, ma ne costituisce una parte minima. Attraverso un gioco degli equivoci, sia i politici che i giornalisti fanno credere che persino le pensioni siano a carico della spesa pubblica dello Stato, mentre invece sono completamente pagate dai contributi versati dai lavoratori all'INPS. A sua volta l'INPS usa il suo attivo di bilancio per sostenere la cassa integrazione, la quale però costituisce più un'assistenza alle imprese che ai lavoratori. La cassa integrazione è infatti diventata per le imprese un modo per risparmiare sul costo del lavoro, dato che i padroni, mentre da un lato mettono in cassa integrazione una parte dei lavoratori, nel frattempo fanno fare gli straordinari ai lavoratori rimasti.
I contributi pensionistici sono quindi usati per alimentare un assistenzialismo per ricchi, ed a riguardo non mancano i casi clamorosi. Ad esempio, alla fine degli anni '70 i lavoratori subirono per parecchio tempo una trattenuta per alimentare un ipotetico "Fondo Perequazione Pensioni", che però non fu mai attivato, dato che il fondo fu fiscalizzato e dirottato a finanziare le imprese private. Questo è il mondo reale, in cui si ruba ai poveri per dare ai ricchi, e infatti uno dei prossimi bersagli delle privatizzazioni è proprio l'INPS.
Se persino i contributi pensionistici dei lavoratori sono usati per assistere i ricchi, figuriamoci poi quanto i ricchi possano attingere direttamente dalle casse dello Stato. Oggi si discute se sia giusto che la FIAT riscuota finanziamenti statali mentre licenzia i lavoratori di Termini Imerese, ma si dimentica che i licenziamenti a Mirafiori nel 1980 erano già stati finanziati dallo Stato, che aveva appena versato alla FIAT sessantamila miliardi di lire dell'epoca con la Legge per la Riconversione Industriale. In una lacrimevole intervista di un anno fa, Massimo D'Alema si lamentò dell'ingratitudine della Confindustria, sempre sprezzante e insolente verso il governo Prodi, che pure era così prodigo di finanziamenti agli imprenditori.
Quasi tutti credono alla "mano invisibile del mercato", sebbene nessuno l'abbia mai vista, e intanto non ci si accorge di una cosa evidente come il fatto che i ricchi sono tali non solo perché pagano poche tasse, ma soprattutto perchè sono assistiti dallo Stato. Persino le privatizzazioni vengono tutte operate a carico della spesa pubblica e del patrimonio pubblico, senza che il privato ci spenda un soldo di suo. Negli ultimi mesi i patrimoni immobiliari delle aziende municipalizzate idriche, delle Università, della Difesa, della Protezione Civile e del Demanio dello Stato sono stati regalati dal governo ad affaristi privati attraverso vari artifici pseudo-legali, come fondazioni e SPA.
Con il pretesto della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina e con il trucco del “federalismo demaniale”, l’intera Provincia di Reggio Calabria è divenuta di proprietà della multinazionale edilizia Impregilo. In più, per la costruzione di un ponte che probabilmente non si farà mai, finora la Impregilo non ha sborsato un soldo, dato che i finanziamenti sono tutti statali. Quale “imposta patrimoniale” potrebbe mai ovviare ad un saccheggio del genere?
Dovunque le privatizzazioni siano riuscite ad imporsi a tappeto, non solo i poveri sono diventati più poveri, ma anche il ceto medio è stato travolto e ridotto alla miseria. È la storia dei Paesi dell’America Latina e di tutte le parti del mondo dove il Fondo Monetario Internazionale sia riuscito ad imporre il vangelo delle privatizzazioni. Il vangelo del FMI impone anche i tagli alla spesa sociale, e non perché ciò incida davvero sulla spesa pubblica - che ha tutt'altri oneri e scopi-, ma in quanto determina un minor numero di posti di lavoro nella pubblica amministrazione, quindi disoccupazione, e ulteriore calo del costo del lavoro. Che la povertà non sia un incidente di percorso, ma un preciso obiettivo dell'affarismo, è indicato dal fatto che il FMI ha spalancato le porte ad uno dei più grossi business mondiali di sfruttamento della povertà, cioè le agenzie di recupero crediti, le quali risultano determinanti anche nel fenomeno della migrazione; perciò i migranti arrivano qui non perché attirati da un presunto "italian dream" - di cui, giustamente, non gli frega nulla -, ma perché costretti per poter pagare un frigorifero comprato a credito, o le esose bollette dell'acqua privatizzata.
Come fare per convincere il ceto medio - colpito dalle privatizzazioni e dagli attacchi al pubblico impiego - a ritornare all’ovile ed a schierarsi con quella borghesia che lo sospinge verso la precarietà? Basta spaventarlo chiamando Epifani e facendogli dire che i risparmi in obbligazioni e titoli di Stato di tanti impiegatucci sono minacciati dal fisco a caccia di “rendite da capitale”; così il risparmiatore viene convinto che la sua sorte personale sia legata a quella di Rothschild e della Impregilo, piuttosto che a quella degli operai.
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