Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Gran parte dell’area di opinione “sovranista” non ha voluto affrontare il vero nodo dell’attuale momento politico, cioè la crescente evidenza del carattere fittizio e puramente retorico del sovranismo della Lega di Salvini, che ha invece il suo vero obbiettivo nell’autonomia differenziata per le Regioni del Nord.
Alcune osservazioni sul personaggio Giuseppe Conte sono azzeccate ma ovvie e poco rilevanti: colui che si era presentato come “avvocato degli Italiani”, si è rivelato semmai un ottimo avvocato di se stesso, riuscendo a riciclarsi. Ma se il problema fosse stato Conte o Tria, a Salvini sarebbe bastato sfiduciare il governo escludendo l’ipotesi di elezioni anticipate e offrendo contestualmente a Di Maio una nuova composizione dell’esecutivo. Quando questa proposta da parte di Salvini è finalmente arrivata, Di Maio non aveva più elementi per fidarsi e per non ritenerla una mera mossa tattica per bloccare le sue trattative col PD.
I sovranisti che avevano appoggiato, anche solo tatticamente, il primo governo Conte, avrebbero dovuto riconoscere di aver vissuto uno psicodramma mediatico dovuto all’ostilità che il mainstream manifestava nei confronti dell’esecutivo gialloverde; un’ostilità che gli conferiva popolarità ed un illusorio alone rivoluzionario. Al contrario, la polemica di molti sovranisti si è concentrata soprattutto sul “suicidio” dei 5 Stelle, consegnatisi all’abbraccio mortale col PD. In realtà basterebbe ricordarsi che già un anno e mezzo fa i 5 Stelle avevano tentato un accordo col PD; un accordo che non era riuscito solo a causa dell’opposizione di Renzi e della sua “linea del popcorn”. Renzi ha poi cambiato idea, o gliel’hanno fatta cambiare.
Circa il “suicidio” dei 5 Stelle, anche qui dovrebbe soccorrere un po’ di memoria. Sono sei anni che i 5 Stelle non fanno altro che suicidarsi politicamente, il suicidio più lungo del mondo. Un suicidio che però non ha impedito i successi elettorali del 2013, dovuto in gran parte all’effetto Monti, e del 2018, dovuto sicuramente anche all’effetto Renzi; un effetto che il governo Gentiloni non era riuscito ad attenuare, anche per errori clamorosi come il continuare ad imbarcare l’icona renziana per eccellenza, Maria Elena Boschi. Il fenomeno delle bolle elettorali che si gonfiano e si sgonfiano, trova una spiegazione anche nel fatto che le baronie del voto organizzato da circa dieci anni sono alla ricerca di un nuovo referente: l’ultimo beneficiato ne è stato Salvini. In un Paese in condizione di subordinazione coloniale, nel quale quindi la politica controlla poco denaro, è del tutto fisiologico che il sistema politico diventi sempre più fluido e volatile, quindi preda di partitini a struttura aziendale.
Al di là degli alti e bassi elettorali, i 5 Stelle sono sempre rimasti un partito inconsistente e ondivago, né carne né pesce, che si è concentrato sin dall’inizio su un tema marginale come i costi della politica, mescolando inoltre proposte che andavano a colpire veri casi di malcostume come i vitalizi, con proposte che minano invece alla base il principio di rappresentanza, come il dimezzamento del numero dei parlamentari. Per dei feticisti della Costituzione del 1948, così come si dichiarano i 5 Stelle, è strano non notare l’incongruenza.
Nel loro ondivagare qualche volta però i 5 Stelle l’hanno pure azzeccata, riuscendo ad evitare quella squallida figura che Salvini invece si proponeva di fare, cioè la partecipazione del governo italiano all’ammucchiata occidentalista per sostenere i golpisti in Venezuela. In quell’occasione Salvini non è riuscito ad andare oltre considerazioni meschine come il compiacere Trump ed inseguire i voti degli Italiani in Venezuela, in gran parte favorevoli ai golpisti. In realtà schierarsi così apertamente con i golpisti era il modo certo per mettere in pericolo la comunità italiana in caso di guerra civile.
Al loro attivo i 5 Stelle hanno anche provvedimenti come il sussidio di disoccupazione allargato a chi non abbia mai lavorato (denominato, a dimostrazione di confusione mentale, come “reddito di cittadinanza”, che è tutt’altra cosa), ed anche la proposta di un salario minimo fissato per legge. Tutte cose che già ci sono in altri Paesi europei, ma che in Italia erano considerate un tabù. All’attivo dei 5 Stelle alcuni vedrebbero anche la proposta di revocare la concessione per le autostrade ad Atlantia; ma qui si rivela semmai la vena parolaia dei 5 Stelle, che hanno concentrato la loro polemica solo sui Benetton, “dimenticandosi” che tra gli azionisti del gruppo ci sono ossi molto più duri, cioè fondi di investimento americani come Blackrock. Le privatizzazioni non sono un affare interno, ma un’apertura ai capitali esteri, con tutti i disastri che ciò comporta.
Un altro aspetto sul quale gran parte della polemica sovranista ha preferito sorvolare, riguarda gli aspetti di continuità del governo Conte con il governo Gentiloni, che aveva chiuso per primo con la stagione renziana e montiana delle odiate “riforme strutturali”. Chiuso, ma non del tutto, poiché nel governo Gentiloni c’era ancora la ministra Madia a stressare i dipendenti del Pubblico Impiego, mentre nel governo Conte il ministro dell’Istruzione Bussetti ha continuato a stressare una Scuola già nel caos con i tagli delle classi e con la ridicola e confusionaria imposizione dell’Educazione Civica. Non a caso, per conquistarsi simpatie tra i docenti, la prima mossa del nuovo ministro dell’Istruzione è stata quella di dilazionare il provvedimento sull’Educazione Civica.
La fine della stagione delle “riforme strutturali” non è dovuta però a scelte dei nostri governi, ma esclusivamente al fatto che la Commissione Europea è diventata più “umana”, cioè dal 2016 non pretende più riforme strutturali per concedere la tanto agognata “flessibilità”. L’allentamento delle regole di austerità si spiega facilmente col fatto che da almeno tre anni la Germania è in difficoltà e da quest’anno lo ammette apertamente.
Gli aedi mediatici hanno salutato il governo Conte bis (o Gentiloni ter?) sottolineando la discesa dello spread, che dimostrerebbe una rinnovata fiducia dei “Mercati”. In realtà persino in questo caso la sensazione di discontinuità è dovuta a pura suggestione. Pur con delle oscillazioni dovute ad incertezze sugli intendimenti della BCE, la discesa dello spread è stata una tendenza degli ultimi anni; una tendenza che ha accompagnato il primo governo Conte, che già vendeva BOT e CCT a tassi negativi. I tassi negativi sono una tendenza mondiale, del tutto omogenea al quadro generale di deflazione e stagnazione.
Presentare l’abbassamento dei tassi di interesse come un segnale positivo, è, nel migliore dei casi, abbastanza ingenuo, nel peggiore piuttosto subdolo. Quando si parla di usura, si pensa ai metodi del “cravattaro” di quartiere, ma il sistema finanziario globale è molto peggio. I bassi tassi favoriscono infatti l’indebitamento; cresce cioè la massa del debito che, grazie alla deflazione, non viene minimamente scalfita nel suo valore nel tempo. Il fatto che deflazione e stagnazione rappresentino la prospettiva del lungo periodo, non significa affatto che si vada in “decrescita”. Ci deve essere invece abbastanza crescita per consentire di pagare i debiti, ma non abbastanza per permettere di fare a meno di indebitarsi.
L’illimitata mobilità dei capitali è stata una vittoria della grande finanza, cioè delle grandi multinazionali del credito, e negli anni ’90 ci è stata venduta come garanzia di sviluppo economico. La mobilità dei capitali ha portato invece ad una stagnazione/deflazione cronica. Il fittizio conflitto tra sovranismo ed europeismo è servito ad occultare dove stava il vero oggetto del contendere. È infatti la mobilità dei capitali a consentire di delocalizzare le produzioni e di delocalizzare i lavoratori, spingendoli a migrare. Il problema quindi non è di bloccare le persone, ma di bloccare i capitali, sia in uscita che in entrata. Finché non si porrà esplicitamente questo obbiettivo, tutto si ridurrà a falso movimento e pura suggestione mediatica.
(Ringraziamo “GiorgioGiorgio” per la collaborazione, i suggerimenti ed eventuali critiche.)
Le vicende della formazione del governo Conte bis (o Gentiloni ter) hanno portato molti commentatori insospettabili a scoprire che l’Italia è una colonia. Verrebbe voglia di commentare che era ora, sennonché le argomentazioni appaiono abbastanza inconsistenti e puerili. Tra i neofiti di questa scoperta dell’acqua calda c’è persino Massimo Giannini, l’ex “firma prestigiosa” del quotidiano “la Repubblica”. Giannini ci narra gli “endorsement” internazionali ricevuti dal nuovo governo, che, secondo lui, sarebbe nato non solo per fame di poltrone e paura delle elezioni, ma anche per appoggi di “poteri forti” esteri. Tra questi fautori del nuovo governo ci sarebbero i vertici europei, “spaventati” da Salvini (sic!) ed anche il cialtrone Trump, che in un tweet lanciato a lavori di formazione del governo ancora in corso, si è profuso in elogi alla persona di Conte.
Ma CialTrump non era l’amico di Salvini ed il nemico dell’Europa? Non era stato ancora CialTrump lo scorso anno ad appoggiare la nascita del governo gialloverde in funzione antitedesca? Non era stato sempre lui a dare una manina al primo governo Conte chiedendo a JP Morgan di parlare bene dei titoli di Stato italiani? E CialTrump non era stato quello che si era irritato per gli ardori filocinesi dei 5 Stelle che si erano tradotti nella firma del Memorandum sulla Via della Seta? E allora come mai i 5 Stelle sono di nuovo al governo?
La rappresentazione dell’ingerenza coloniale in termini così approssimativi finisce per screditare il tutto. Bisogna partire dall’assunto che all’estero dell’Italia e della sua situazione politica interna si sa poco o nulla. Ci si basa su fonti giornalistiche, cioè su suggestioni.
Tra le proprie personali benemerenze, l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti annovera un dispaccio dell’ambasciatore USA, rivelato da Wikileaks, in cui lo stesso Tremonti era dipinto come un critico della globalizzazione. Si sta parlando del Tremonti che ha introdotto i titoli derivati in Italia e spinto i Comuni ad acquistarli, del Tremonti che ha cercato di privatizzare l’acqua e i patrimoni immobiliari delle Università, del Tremonti che ha fondato Equitalia, che ha bloccato gli stipendi dei lavoratori statali e che ha operato tagli forsennati di bilancio. È chiaro che l’ambasciatore USA assumeva le informazioni solo dai talk show, dove Tremonti esibiva le sue innegabili doti retoriche di venditore di fumo. Quello stesso ambasciatore lanciò nel 2011 anche messaggi di endorsement a favore di Tremonti, cosa che non impedì la sua rimozione con un piccolo colpo di Stato da parte di Napolitano.
I “messaggi di endorsement” dall’estero non vanno quindi presi troppo sul serio. Spesso sono contrattati e sollecitati dall’Italia. Il colonialismo non consiste semplicemente nell’ingerenza di un Paese più potente su uno più debole, ma è una strada a due sensi, è una saldatura di interessi tra un’oligarchia locale ed un’oligarchia estera o sovranazionale. Non esisterebbe l’imperialismo americano senza i filoamericani e non esisterebbe l’egemonia tedesca senza i filotedeschi. Che poi non sono né filoamericani, né filotedeschi ma oligarchie locali che regolano i loro conti all’interno con l’appoggio di potenze straniere. La colonizzazione si inserisce nel conflitto di classe e viene favorita e sollecitata dalle classi dominanti dei Paesi più deboli per tenere a bada i propri ceti lavoratori. Ogni colonialismo è anche un autocolonialismo.
Quanto a connessioni lobbistiche con l’estero, in Italia anche il più pulito ha la rogna. Se la lobby degli affari del PD ha trovato i suoi agganci a Parigi e Berlino, la Lega invece li ha da tempo con Monaco di Baviera, con cui ha formato una vera è propria entità sovranazionale, la Macroregione Alpina. Ricondurre le vicende interne tout court al burattinaio estero, è perciò una banalizzazione colossale.
Le dinamiche del colonialismo sono particolarmente evidenti nelle cosiddette “rivoluzioni colorate”, come quella che si sta svolgendo ad Hong Kong. Il “Washington Post” accusa larvatamente il regime cinese di alimentare le violenze per giustificare una repressione. Si potrebbe supporre però, con altrettanta attendibilità, che una repressione violenta sia perseguita da chi vuole screditare il regime cinese.
Sta di fatto che nessun regime va per il sottile quando deve liquidare movimenti fastidiosi. Il movimento Occupy Wall Street è stato azzerato negli USA dal solito FBI con metodi subdoli e “disinvolti”, eppure si trattava di un movimento sicuramente non violento e certamente privo di agganci con l’estero, un movimento che non andava a chiedere la benedizione dell’ambasciatore russo, mentre i “rivoltosi” di Hong Kong cercano l’endorsement dell’ambasciatore USA.
Nel caso di Hong Kong però la vera questione è che non si può trattare una rivoluzione colorata in Cina come se si trattasse della Georgia o dell’Ucraina. Nessuno può pensare seriamente che una rivoluzione colorata possa abbattere il regime cinese o sottrargli Hong Kong. I dirigenti cinesi alla fine troveranno il modo per spegnere il focolaio, ma comunque il danno sarà fatto e lo scopo di chi ha scatenato la rivoluzione colorata sarà raggiunto. Non si trattava di abbattere il regime o di sottrargli territorio, ma di schiodarlo dalle sue certezze di potenza nazionale allineata e compatta sui propri obbiettivi.
I dirigenti cinesi, ed in particolare il segretario del partito “comunista” Xi Jinping, tengono certamente un contegno molto rigoroso, alieno dagli sbracamenti che caratterizzano i leader occidentali; ma emanano anche l’aura di chi si sente di una specie superiore, estranea alle altrui miserie. Ma ora la sua sicumera Xi Jinping se la può scordare, poiché si è dimostrato, anche se parzialmente, vulnerabile nei confronti del caos altrui.
I dirigenti cinesi sanno che una rivoluzione colorata non può essere completamente eterodiretta, ha bisogno di agganci e complicità all’interno. Chi all’interno del regime cinese non ha saputo o voluto vedere e prevedere in tempo? Chi ha fatto addirittura il doppio gioco?
Queste saranno le domande che agiteranno il regime cinese nei prossimi anni, poiché una rivoluzione colorata non è solo una manifestazione di potenza dell’imperialismo statunitense e delle sue ONG, ma anche delle lobby interne al Paese bersaglio, lobby che cercano sponde e agganci internazionali.
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