Le vicende della formazione del governo Conte bis (o Gentiloni ter) hanno portato molti commentatori insospettabili a scoprire che l’Italia è una colonia. Verrebbe voglia di commentare che era ora, sennonché le argomentazioni appaiono abbastanza inconsistenti e puerili. Tra i neofiti di questa scoperta dell’acqua calda c’è persino Massimo Giannini, l’ex “firma prestigiosa” del quotidiano “la Repubblica”. Giannini ci narra
gli “endorsement” internazionali ricevuti dal nuovo governo, che, secondo lui, sarebbe nato non solo per fame di poltrone e paura delle elezioni, ma anche per appoggi di “poteri forti” esteri. Tra questi fautori del nuovo governo ci sarebbero i vertici europei, “spaventati” da Salvini (sic!) ed anche il cialtrone Trump, che in un tweet lanciato a lavori di formazione del governo ancora in corso, si è profuso in elogi alla persona di Conte.
Ma CialTrump non era l’amico di Salvini ed il nemico dell’Europa? Non era stato ancora CialTrump lo scorso anno ad appoggiare la nascita del governo gialloverde in funzione antitedesca? Non era stato sempre lui a dare una manina al primo governo Conte chiedendo a JP Morgan di parlare bene dei titoli di Stato italiani? E CialTrump non era stato quello che si era irritato per gli ardori filocinesi dei 5 Stelle che si erano tradotti nella firma del Memorandum sulla Via della Seta? E allora come mai i 5 Stelle sono di nuovo al governo?
La rappresentazione dell’ingerenza coloniale in termini così approssimativi finisce per screditare il tutto. Bisogna partire dall’assunto che all’estero dell’Italia e della sua situazione politica interna si sa poco o nulla. Ci si basa su fonti giornalistiche, cioè su suggestioni.
Tra le proprie personali benemerenze, l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti annovera
un dispaccio dell’ambasciatore USA, rivelato da Wikileaks, in cui lo stesso Tremonti era dipinto come un critico della globalizzazione. Si sta parlando del Tremonti che ha introdotto i titoli derivati in Italia e spinto i Comuni ad acquistarli, del Tremonti che ha cercato di privatizzare l’acqua e i patrimoni immobiliari delle Università, del Tremonti che ha fondato Equitalia, che ha bloccato gli stipendi dei lavoratori statali e che ha operato tagli forsennati di bilancio. È chiaro che l’ambasciatore USA assumeva le informazioni solo dai talk show, dove Tremonti esibiva le sue innegabili doti retoriche di venditore di fumo. Quello stesso ambasciatore lanciò nel 2011 anche messaggi di endorsement a favore di Tremonti, cosa che non impedì la sua rimozione con un piccolo colpo di Stato da parte di Napolitano.
I “messaggi di endorsement” dall’estero non vanno quindi presi troppo sul serio. Spesso sono contrattati e sollecitati dall’Italia. Il colonialismo non consiste semplicemente nell’ingerenza di un Paese più potente su uno più debole, ma è una strada a due sensi, è una saldatura di interessi tra un’oligarchia locale ed un’oligarchia estera o sovranazionale. Non esisterebbe l’imperialismo americano senza i filoamericani e non esisterebbe l’egemonia tedesca senza i filotedeschi. Che poi non sono né filoamericani, né filotedeschi ma oligarchie locali che regolano i loro conti all’interno con l’appoggio di potenze straniere. La colonizzazione si inserisce nel conflitto di classe e viene favorita e sollecitata dalle classi dominanti dei Paesi più deboli per tenere a bada i propri ceti lavoratori. Ogni colonialismo è anche un autocolonialismo.
Quanto a connessioni lobbistiche con l’estero, in Italia anche il più pulito ha la rogna. Se la lobby degli affari del PD ha trovato i suoi agganci a Parigi e Berlino, la Lega invece li ha da tempo con Monaco di Baviera, con cui ha formato una vera è propria entità sovranazionale,
la Macroregione Alpina. Ricondurre le vicende interne tout court al burattinaio estero, è perciò una banalizzazione colossale.
Le dinamiche del colonialismo sono particolarmente evidenti nelle cosiddette
“rivoluzioni colorate”, come quella che si sta svolgendo ad Hong Kong. Il “Washington Post” accusa larvatamente il regime cinese di alimentare le violenze per giustificare una repressione. Si potrebbe supporre però, con altrettanta attendibilità, che una repressione violenta sia perseguita da chi vuole screditare il regime cinese.
Sta di fatto che nessun regime va per il sottile quando deve liquidare movimenti fastidiosi. Il movimento Occupy Wall Street è stato azzerato negli USA dal solito FBI con
metodi subdoli e “disinvolti”, eppure si trattava di un movimento sicuramente non violento e certamente privo di agganci con l’estero, un movimento che non andava a chiedere la benedizione dell’ambasciatore russo, mentre i “rivoltosi” di Hong Kong cercano l’endorsement dell’ambasciatore USA.
Nel caso di Hong Kong però la vera questione è che non si può trattare una rivoluzione colorata in Cina come se si trattasse della Georgia o dell’Ucraina. Nessuno può pensare seriamente che una rivoluzione colorata possa abbattere il regime cinese o sottrargli Hong Kong. I dirigenti cinesi alla fine troveranno il modo per spegnere il focolaio, ma comunque il danno sarà fatto e lo scopo di chi ha scatenato la rivoluzione colorata sarà raggiunto. Non si trattava di abbattere il regime o di sottrargli territorio, ma di schiodarlo dalle sue certezze di potenza nazionale allineata e compatta sui propri obbiettivi.
I dirigenti cinesi, ed in particolare il segretario del partito “comunista” Xi Jinping, tengono certamente un contegno molto rigoroso, alieno dagli sbracamenti che caratterizzano i leader occidentali; ma emanano anche l’aura di chi si sente di una specie superiore, estranea alle altrui miserie. Ma ora la sua sicumera Xi Jinping se la può scordare, poiché si è dimostrato, anche se parzialmente, vulnerabile nei confronti del caos altrui.
I dirigenti cinesi sanno che una rivoluzione colorata non può essere completamente eterodiretta, ha bisogno di agganci e complicità all’interno. Chi all’interno del regime cinese non ha saputo o voluto vedere e prevedere in tempo? Chi ha fatto addirittura il doppio gioco?
Queste saranno le domande che agiteranno il regime cinese nei prossimi anni, poiché una rivoluzione colorata non è solo una manifestazione di potenza dell’imperialismo statunitense e delle sue ONG, ma anche delle lobby interne al Paese bersaglio, lobby che cercano sponde e agganci internazionali.