Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Il predecessore di Matteo Salvini al Ministero degli Interni, Marco Minniti ha dichiarato che sarebbe stato in grado di risolvere il caso Sea Watch in cinque minuti. Lo stesso Minniti non ha però chiarito bene il “come” l’avrebbe risolto. Per farsene un’idea occorre andare a quanto accaduto quasi due anni fa, nel novembre del 2017, quando la stessa Sea Watch ebbe una sorta di scontro con la Guardia Costiera libica, il cui risultato fu la perdita in mare di circa quaranta migranti. In quell’occasione il solito Roberto Saviano accusò in un tweet l’allora ministro degli Interni Minniti di avere le mani sporche di sangue per aver sostenuto, finanziato e addestrato la Guardia Costiera libica.
Più sbirro che politicante, Minniti aveva fatto la scelta di allontanare il controllo delle frontiere dalle coste italiane, mentre Salvini ha imbroccato decisamente la strada della spettacolarità per gasare i suoi elettori. Il controllo dei confini è sempre brutale, lo era anche col precedente governo a guida del PD, ma Salvini potrebbe invocare a sua discolpa il fatto che la linea più spettacolare non sempre è la più cruenta.
Il problema è che Salvini, interpretando la parte del macho e del fascista, favorisce la presentazione mediatica del proprio Paese come uno Stato canaglia, esponendolo a rischi sicuramente più gravi di quelli che, secondo lui, sarebbero rappresentati dal passaggio di qualche migrante. Le questioni di immagine sono spesso considerate secondarie, come se si trattasse di un mero timore del giudizio altrui. Va invece considerato che c’è il precedente del Buffone di Arcore nel 2011. Anche allora l’immagine internazionale di un Presidente del Consiglio pagliaccio gaudente venne usata come pretesto per attuare un colpo di Stato ed una spremitura finanziaria dell’Italia. Anche allora l’aggressione esterna trovò una sponda in una parte dell’opinione pubblica, che salutò quell’aggressione come una liberazione, senza neppure accorgersi che il vero bersaglio del colpo di Stato non era il Buffone, bensì la soluzione costituzionale delle elezioni anticipate.
L’Italia è da otto anni oggetto di un mobbing; e a livello internazionale le modalità di un mobbing non sono diverse da quelle che si verificano in un posto di lavoro. Reazioni sbagliate ad un mobbing sono sia la sottomissione, stile Buffone di Arcore, sia la voce grossa alla Salvini, poiché entrambe agevolano la prosecuzione e l’inasprimento del mobbing stesso. Il fatto che la proposta di procedura d’infrazione per debito eccessivo sia stata ritirata dalla Commissione Europea, cambia poco il quadro; anzi conferma il rischio che i pretesti di aggressione si spostino dal piano economico a quello umanitario, dove si può fare maggiormente leva sull’emotività e l’indignazione.
La concezione gerarchica secondo cui esistono intoccabili Stati di serie A e poi reietti Stati di serie B e di serie C, con cui si può far quel che si vuole, è entrata ormai nel senso comune. Dispiace che anche uno scrittore/giornalista con un passato di battaglie civili come Andrea Purgatori, si sia fatto portatore di una concezione analoga. Secondo Purgatori la Libia non sarebbe affidabile per tutelare la vita dei migranti poiché li tiene in campi di concentramento ed anche perché la Guardia Costiera libica è tra le più corrotte. Bisognerebbe capire perché brutalità e corruzione nella gestione dei confini siano uno scandalo squalificante se riguardano la Libia e non se riguardino la Spagna, la Francia o gli USA. Il fatto che uno Stato sia troppo forte per essere accusato di qualcosa, diviene sinonimo di superiorità morale.
In base ad un discredito dello stesso tipo, nel 2011 la Libia è stata oggetto di un’aggressione militare che l’ha gettata nel caos. Oggi questo caos viene strumentalizzato per impedire all’attuale governo libico di rientrare nei rapporti internazionali. Si crea così una sorta di circuito chiuso per cui un’emergenza umanitaria, vera o presunta, autorizza la destabilizzazione di un Paese, poi, dato che quella stessa destabilizzazione crea altre emergenze umanitarie, allora quel Paese non può più essere considerato un interlocutore.
L’imperialismo dei diritti umani si legittima attraverso le emergenze umanitarie e non solo non le risolve, ma pone le condizioni per altre emergenze croniche che legittimano altro imperialismo dei diritti umani. La questione se le ONG siano propaggini dei servizi segreti, è persino secondaria rispetto al ruolo di simbolo della superiorità morale dell’Occidente che le stesse ONG svolgono.
Salvare vite diventa infatti un ottimo pretesto per ammazzare gente e farci pure sopra degli affari. L’ideale umano non si realizza mai, bensì ha il solo effetto di creare un contrario, un nemico-simbolo: il mostro inumano, contro il quale tutto diventa lecito. Oggi anche l’Italia ha il suo bravo “mostro” sempre in prima pagina. Non è da escludere che questo possa diventare per le lobby commerciali e finanziarie un pretesto per ogni genere di aggressione all’insegna dei diritti umani.
Il problema è che il “mostro” della xenofobia è stato generato dalla stessa propaganda dell’imperialismo umanitario. Il fantasma della sostituzione di popolazione infatti non è stato creato dai naziskin o da CasaPound. Quando Romano Prodi afferma che nei prossimi anni l’Europa avrà bisogno, a causa della denatalità, di cinquanta milioni di immigrati, le sue parole inevitabilmente sono percepite da gran parte dell’opinione pubblica come una minaccia di sostituzione di popolazione. Per la propaganda xenofoba non c’è neppure lo sforzo di inventare niente, ma basta usare le dichiarazioni di Prodi, della Bonino o della Boldrini.
Prodi passa per persona preparata ma, a quanto pare, è un credulone passivo nei confronti delle boutade dei centri studi della Trilateral. Come si può pensare di spostare cinquanta milioni di persone senza destabilizzare i loro Paesi di provenienza? A quel punto andrebbe in secondo piano la questione migratoria, visto che bisognerebbe gestire una guerra mondiale. Il fantasma della sostituzione di popolazione è però utile a creare il mostro della xenofobia e quindi a mettere dalla parte del torto i Paesi che si vogliono colpire.
Mesi fa il quotidiano ”Il Foglio” ha annunciato l’arrivo di un definitivo regolamento di conti tra l’attuale governo ed i Centri Sociali. Dopo il caso Alex, i tempi sembrano maturi. Per trovare argomenti contro i Centri Sociali e la “sinistra radicale” in genere, Salvini potrebbe attingere ad un articolo di Roberto Saviano su “l’Espresso” di cinque anni fa.
Saviano non lesinava le rampogne nei confronti dei Centri Sociali napoletani, da lui accusati di vecchiume ideologico, di invidia sociale e persino di connivenza con la camorra. Il motivo di tanta severità era che i Centri Sociali si erano permessi di manifestare contro la Banca Centrale Europea, in quei giorni in consesso a Napoli. Il messaggio di Saviano alla “sinistra radicale” era abbastanza chiaro: scherzate con i fanti (la questione migratoria), ma lasciate in pace i santi (i banchieri eurocrati).
Eppure la “sinistra radicale”, in particolare Rifondazione Comunista, detiene un primato cronologico ed ideologico nella contestazione nei confronti del sistema eurocratico. Il 28 ed il 29 ottobre del 1992, in una Camera spopolata ed afflitta dai timori delle incursioni dei giudici di Mani Pulite, si tenne il dibattito parlamentare per la ratifica del Trattato di Maastricht. Ad onta delle condizioni precarie del mondo politico di allora, il dibattito fu estremamente puntuale, ciò per merito dei due esponenti di Rifondazione che presero la parola.
Il 28 ottobre il deputato Severino Galante demolì tutti gli assunti su cui era basato il Trattato di Maastricht, dimostrando l’assoluta incompatibilità dell’obbiettivo della stabilità dei prezzi con il mantenimento dei livelli occupazionali e salariali; ed anche l’impossibilità di attuare qualsiasi politica sociale (ma persino qualsiasi politica) in un regime che imponeva la libera circolazione dei capitali. L’esperienza successiva ha confermato che se i capitali sono liberi, i lavoratori sono schiavi: qualsiasi produzione può essere delocalizzata verso Paesi in cui i salari sono più bassi e ci sono meno diritti del lavoro. Galante notava che l’entusiasmo di Confindustria per i vincoli imposti dal Trattato era chiaramente motivato dal fatto di poterli usare come ricatto e guinzaglio nei confronti dei lavoratori.
Il 29 ottobre, nella dichiarazione di voto contrario, il deputato Lucio Magri rincarava la dose, osservando il carattere patetico della posizione di chi considerava Maastricht un passo avanti nell’integrazione europea, infatti il regime di libera circolazione dei capitali, incentivato dalla moneta unica, avrebbe indotto gli Stati a farsi concorrenza fiscale tra loro per attirare capitali ed impedirne la fuga, il tutto all’ombra dell’ideologia deflazionistica della Bundesbank, con buona pace di tutti quelli che si illudevano di contenere la Germania attraverso la moneta unica.
In quell’occasione solo Rifondazione ed il MSI votarono contro il Trattato (a quell’epoca, evidentemente, Rifondazione non subiva ancora il timore di poter essere accomunata ai fascisti), ma che il Trattato fosse una schifezza indigeribile fu riconosciuto anche dai più-europeisti Pannella e Bonino, che proposero inutilmente di far slittare la ratifica a dopo il vertice europeo di Edimburgo, nella speranza che l’opposizione danese facesse saltare tutto. In effetti la Danimarca fu poi tacitata offrendole la possibilità di non aderire alla moneta unica.
Un resoconto pubblicato dal quotidiano “la Repubblica” dava scarne notizie sul dibattito parlamentare, dato che le prime pagine erano occupate dalle vicissitudini giudiziarie del ministro della Sanità De Lorenzo, un caso che avrebbe costituito per qualche anno il bersaglio di un’opinione pubblica da tenere all’oscuro dei veri guai che si preparavano. L’articolista però si lasciava sfuggire una piccola verità, osservando che la rassegnazione di molti parlamentari era dovuta al fatto di sapere che la decisione era già stata presa altrove.
Come aveva ricordato Magri nel suo intervento, proprio in quei giorni il Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, aveva dichiarato che l’Italia poteva già considerarsi un Paese a sovranità limitata, una realtà che quindi Maastricht sanciva ma non creava. In quei giorni infatti stava saltando il Sistema Monetario Europeo, a causa della decisione della Bundesbank di aumentare i tassi di interesse per attirare capitali da usare per comprarsi la Germania Est; perciò l’Italia era in piena tempesta finanziaria, dato che Soros ed altri speculatori avevano sfruttato l’occasione per mettere sotto la lira e la sterlina.
Il deputato Ugo Intini, vicesegretario del PSI, ricordò quella circostanza, notando che, a differenza dei media esteri, i soli media italiani non avevano dato conto delle responsabilità tedesche, scaricando come al solito tutte le colpe sui nostri vizi nazionali. Se la Germania aveva già mancato ai vecchi patti, perché avrebbe dovuto rispettare i nuovi? Ma ciò non impedì ad Intini di dichiararsi a favore della ratifica del nuovo Trattato, dimenticando che, come nella favola di Esopo del patto leonino, le regole sarebbero state fatte valere nei confronti dei deboli ma non dei forti. In realtà non era una dimenticanza, dato che bisognava obbedire e basta, condendo la sottomissione coloniale con la consueta retorica fideistica sull’Europa.
Oggi Rifondazione rivendica ancora quella sua scelta del 1992, fa autocritica sulla successiva adesione al progetto euro, ma poi si arrampica sugli specchi, affermando che l’uscita dall’euro non è un suo obbiettivo. La stessa Rifondazione riconosce però che occorre un controllo dei movimenti di capitale, cadendo quindi in un palese nonsenso. Se l’euro è uno strumento per favorire la libera circolazione dei capitali, allora è evidente che una moneta nazionale potrebbe essere un utile strumento per controllare i movimenti di capitale.
Certo, si può avere a disposizione questo strumento di controllo dei movimenti di capitale e non usarlo. Ad esempio, la Lega si prepara al dopo-euro affidandosi alla flessibilità del cambio ed alla diminuzione delle tasse per disincentivare la fuga di capitali. Con una moneta svalutata questo implicherebbe però il rischio di consegnare l’Italia a prezzi di svendita ai capitali esteri. Sarebbe la caduta nel modello coloniale ungherese, a cui Salvini apertamente si ispira.
Non sarà facile per RC uscire dalle sue contraddizioni. Venticinque anni di politicorretto hanno lasciato il segno, non solo nel gruppo dirigente, ma persino nell’elettorato superstite e nella stessa base del partito.
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