Mesi fa il quotidiano ”Il Foglio” ha annunciato l’arrivo di un definitivo regolamento di conti tra l’attuale governo ed i Centri Sociali. Dopo il caso Alex, i tempi sembrano maturi. Per trovare argomenti contro i Centri Sociali e la “sinistra radicale” in genere, Salvini potrebbe attingere ad un articolo di Roberto Saviano su “l’Espresso” di
cinque anni fa.
Saviano non lesinava le rampogne nei confronti dei Centri Sociali napoletani, da lui accusati di vecchiume ideologico, di invidia sociale e persino di connivenza con la camorra. Il motivo di tanta severità era che i Centri Sociali si erano permessi di manifestare contro la Banca Centrale Europea, in quei giorni in consesso a Napoli. Il messaggio di Saviano alla “sinistra radicale” era abbastanza chiaro: scherzate con i fanti (la questione migratoria), ma lasciate in pace i santi (i banchieri eurocrati).
Eppure la “sinistra radicale”, in particolare Rifondazione Comunista, detiene un primato cronologico ed ideologico nella contestazione nei confronti del sistema eurocratico. Il 28 ed il 29 ottobre del 1992, in una Camera spopolata ed afflitta dai timori delle incursioni dei giudici di Mani Pulite, si tenne il dibattito parlamentare per la ratifica del Trattato di Maastricht. Ad onta delle condizioni precarie del mondo politico di allora, il dibattito fu estremamente puntuale, ciò per merito dei due esponenti di Rifondazione che presero la parola.
Il 28 ottobre
il deputato Severino Galante demolì tutti gli assunti su cui era basato il Trattato di Maastricht, dimostrando l’assoluta incompatibilità dell’obbiettivo della stabilità dei prezzi con il mantenimento dei livelli occupazionali e salariali; ed anche l’impossibilità di attuare qualsiasi politica sociale (ma persino qualsiasi politica) in un regime che imponeva la libera circolazione dei capitali. L’esperienza successiva ha confermato che se i capitali sono liberi, i lavoratori sono schiavi: qualsiasi produzione può essere delocalizzata verso Paesi in cui i salari sono più bassi e ci sono meno diritti del lavoro. Galante notava che l’entusiasmo di Confindustria per i vincoli imposti dal Trattato era chiaramente motivato dal fatto di poterli usare come ricatto e guinzaglio nei confronti dei lavoratori.
Il 29 ottobre, nella dichiarazione di voto contrario,
il deputato Lucio Magri rincarava la dose, osservando il carattere patetico della posizione di chi considerava Maastricht un passo avanti nell’integrazione europea, infatti il regime di libera circolazione dei capitali, incentivato dalla moneta unica, avrebbe indotto gli Stati a farsi concorrenza fiscale tra loro per attirare capitali ed impedirne la fuga, il tutto all’ombra dell’ideologia deflazionistica della Bundesbank, con buona pace di tutti quelli che si illudevano di contenere la Germania attraverso la moneta unica.
In quell’occasione solo Rifondazione ed il MSI votarono contro il Trattato (a quell’epoca, evidentemente, Rifondazione non subiva ancora il timore di poter essere accomunata ai fascisti), ma che il Trattato fosse una schifezza indigeribile fu riconosciuto anche dai più-europeisti Pannella e Bonino, che proposero inutilmente di far slittare la ratifica a dopo il vertice europeo di Edimburgo, nella speranza che l’opposizione danese facesse saltare tutto. In effetti la Danimarca fu poi tacitata offrendole la possibilità di non aderire alla moneta unica.
Un resoconto pubblicato dal quotidiano “la Repubblica” dava scarne notizie sul dibattito parlamentare, dato che le prime pagine erano occupate dalle vicissitudini giudiziarie del ministro della Sanità De Lorenzo, un caso che avrebbe costituito per qualche anno il bersaglio di un’opinione pubblica da tenere all’oscuro dei veri guai che si preparavano. L’articolista però si lasciava sfuggire
una piccola verità, osservando che la rassegnazione di molti parlamentari era dovuta al fatto di sapere che la decisione era già stata presa altrove.
Come aveva ricordato Magri nel suo intervento, proprio in quei giorni il Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, aveva dichiarato che l’Italia poteva già considerarsi un Paese a sovranità limitata, una realtà che quindi Maastricht sanciva ma non creava. In quei giorni infatti stava saltando il Sistema Monetario Europeo, a causa della decisione della Bundesbank di aumentare i tassi di interesse per attirare capitali da usare per comprarsi la Germania Est; perciò l’Italia era in piena tempesta finanziaria, dato che Soros ed altri speculatori avevano sfruttato l’occasione per mettere sotto la lira e la sterlina.
Il deputato Ugo Intini, vicesegretario del PSI, ricordò quella circostanza, notando che, a differenza dei media esteri, i soli media italiani non avevano dato conto delle responsabilità tedesche, scaricando come al solito tutte le colpe sui nostri vizi nazionali. Se la Germania aveva già mancato ai vecchi patti, perché avrebbe dovuto rispettare i nuovi? Ma ciò non impedì ad Intini di dichiararsi a favore della ratifica del nuovo Trattato, dimenticando che, come nella favola di Esopo del patto leonino, le regole sarebbero state fatte valere nei confronti dei deboli ma non dei forti. In realtà non era una dimenticanza, dato che bisognava obbedire e basta, condendo la sottomissione coloniale con la consueta retorica fideistica sull’Europa.
Oggi Rifondazione rivendica ancora quella sua scelta del 1992, fa autocritica sulla successiva adesione al progetto euro, ma poi si arrampica sugli specchi, affermando che
l’uscita dall’euro non è un suo obbiettivo. La stessa Rifondazione riconosce però che occorre un controllo dei movimenti di capitale, cadendo quindi in un palese nonsenso. Se l’euro è uno strumento per favorire la libera circolazione dei capitali, allora è evidente che una moneta nazionale potrebbe essere un utile strumento per controllare i movimenti di capitale.
Certo, si può avere a disposizione questo strumento di controllo dei movimenti di capitale e non usarlo. Ad esempio, la Lega si prepara al dopo-euro affidandosi alla flessibilità del cambio ed alla diminuzione delle tasse per disincentivare la fuga di capitali. Con una moneta svalutata questo implicherebbe però il rischio di consegnare l’Italia a prezzi di svendita ai capitali esteri. Sarebbe la caduta nel modello coloniale ungherese, a cui Salvini apertamente si ispira.
Non sarà facile per RC uscire dalle sue contraddizioni. Venticinque anni di politicorretto hanno lasciato il segno, non solo nel gruppo dirigente, ma persino nell’elettorato superstite e nella stessa base del partito.