Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Si narra che Cesare, giunto ad Alessandria d’Egitto, rimase contrariato quando il re Tolomeo gli offrì in dono la testa mozzata del suo avversario Pompeo. La reazione di Cesare fu del tutto conseguente. Pompeo era pur sempre un romano, un aristocratico romano, perciò il fatto che uno straniero avesse preso l'iniziativa di tradirlo e di ucciderlo, violava il senso della gerarchia di un altro aristocratico romano come Cesare. Anche nelle leccate bisogna saper stare al proprio posto e non mettersi alla pari, o peggio al di sopra, del destinatario dell’adulazione.
Quando Mario Draghi ha elogiato Joe Biden per avere scelto, a differenza di Trump, l'Europa come sua prima meta di viaggio, l'ha fatta fuori dal vaso. Del resto Biden non avrebbe mai dovuto trovarsi nelle condizioni per cui un “alleato” (ovvero un vassallo) come Draghi potesse mettergli i voti dicendogli di essere più bravo del suo predecessore. Criminalizzando oltre ogni verosimiglianza una mezza figura come Trump, gli apparati statunitensi hanno ottenuto il risultato di delegittimare l’istituzione presidenziale. Gli USA sono cascati in una sindrome analoga a quella del XX Congresso del Partito Comunista sovietico, che con la denuncia dei crimini di Stalin screditò e delegittimò l’Unione Sovietica nel suo complesso.
In questa circostanza il novello “Kruscev”, Joe Biden, non esce bene neppure dal confronto tra il suo primo viaggio come presidente e quello del cialtrone Trump, che di politica non capiva nulla ma di affari sì. Recandosi in Arabia Saudita Trump rimediò 200 miliardi tra investimenti e vendite di armi, quindi, almeno sul piano degli affari, la sua prima visita all'estero ebbe un senso.
Al contrario, Biden dal G7 in Cornovaglia e dal vertice NATO di Bruxelles torna con vuote dichiarazioni, in cui gli “alleati” avallano le fantasie degli apparati americani sulla “minaccia russa” e sulla “sfida sistemica della Cina”. Le lobby affaristiche che controllano gli apparati americani vivono in funzione dell’enemy business, pensano cioè soltanto ai fiumi di miliardi che è possibile convogliare contro quelle fasulle minacce. I media mainstream hanno presentato il vertice NATO di Bruxelles come un rilancio dell’egemonia statunitense sul mondo. La cosa strana è che anche commentatori tutt'altro che conformisti hanno avallato questa interpretazione. Eppure è evidente che un confronto militare con Russia e Cina messe insieme non ha altra prospettiva concreta che incentivare la collaborazione economica e militare tra due Paesi che altrimenti avrebbero dovuto concentrarsi sui loro innumerevoli motivi di contenzioso reciproco e, soprattutto, sulle loro fragilità interne, che ora è possibile attenuare con la disciplina patriottica. Prese separatamente, Russia e Cina non rappresentano assolutamente delle minacce per l’egemonia statunitense, ma insieme rischiano, seppure in parte, di diventarlo. Quello del vertice di Bruxelles perciò è fumo propagandistico, dietro al quale gli alleati/sudditi possono nascondersi per continuare le loro scappatelle.
La Turchia si è insediata in Tripolitania ed ha ottenuto per un secolo la concessione del porto di Misurata, mettendo perciò una manina su un percorso strategico che dovrebbe essere un'esclusiva della flotta USA, cioè il Canale di Sicilia, che collega il Mediterraneo orientale e quello occidentale. Al di là delle chiacchiere giornalistiche, non c’è stato alcun “passo indietro” di Erdogan. Ci sarebbe anche di peggio, dato che in Cirenaica si sono insediati i Mig russi. Supportando l’aggressione di Francia e Regno Unito alla Libia nel 2011, gli USA hanno compiuto questo capolavoro.
Ma in generale la rendita di posizione concessa alla Turchia è inspiegabile sul piano strategico. Sino agli anni ’80 la Turchia era decisiva per contrastare l’egemonia del Patto di Varsavia nel Mar Nero e nei Balcani; persino la Jugoslavia e l’Albania potevano permettersi di fare i non allineati perché c’era la Turchia a fare da contrappeso. Oggi invece la Romania, l’Albania, la ex Jugoslavia, la Georgia e l’Ucraina sono nella NATO o nella sua disponibilità. Se Putin non si fosse ripreso la Crimea, non potrebbe neppure mettere il naso fuori di casa. E se gli USA non demonizzassero pretestuosamente la Russia, certamente Erdogan non potrebbe permettersi di fare il proprio comodo.
L’attuale rendita di posizione della Germania è altrettanto inspiegabile sul piano strategico. Sino agli anni ’80 senza la Germania Ovest a fare da base agli USA, il Mar Baltico e l'Europa orientale sarebbero stati sotto il pieno controllo del Patto di Varsavia. Oggi invece gli USA controllano la Polonia e i Paesi Baltici. Dissolta l’Unione Sovietica nel 1991, alla Germania sono state fatte concessioni tali da far sembrare che Hitler avesse vinto la guerra. Mentre attuava la propria riunificazione, la Germania contestualmente ha ottenuto la dissoluzione della Jugoslavia e della Cecoslovacchia, facendosi così il proprio orticello di colonie economiche. Tutto questo perché gli USA hanno continuato a concentrare la propria ostilità contro la Russia anche dopo il 1991. Il bello è che gli USA continuano a darsi la zappa sui piedi.
Biden non solo non è riuscito ad ottenere dalla Germania il blocco del gasdotto North Stream 2 che la collega alla Russia, ma ha rimediato anche altre bastonate sul piano economico dagli “alleati”. Dal G7 e dal vertice NATO non è uscito infatti alcun impegno dell’Unione Europea a rilanciare la domanda interna per aiutare un po’ le esportazioni americane. Anzi l'UE conta di parassitare le iniezioni di liquidità di Biden nell’economia americana per rilanciare le proprie esportazioni. Il candidato Cancelliere che dovrebbe sostituire la Merkel, ha già fatto sapere che dall'anno prossimo si torna ai “conti in ordine”. Draghi si atteggia a nemico dell’austerità, ma dimostra nei fatti di pensarla allo stesso modo della Germania, anzi peggio.
Gli USA hanno vinto la guerra fredda non per proprie capacità ma perché la gran parte dell'oligarchia russa si era convertita alla religione del denaro. La fondazione di Gazprom nel 1989 ha comportato la rinuncia all’impero sovietico, allo scopo di trasformare gli ex sudditi in clienti paganti del petrolio e del gas della Russia. Il business del petrolio e del gas ha dissolto l’impero sovietico; allo stesso modo l’enemy business degli apparati sta condannando gli USA ad una totale inettitudine strategica.
Nell’Europa del XIX secolo il termine “democrazia” era considerato quasi un sinonimo di socialismo; ciò in base ad un sillogismo abbastanza elementare: i poveri sono la maggioranza ed i ricchi una minoranza, perciò un governo espressione della maggioranza sarebbe stato per forza di cose contro le oligarchie e contro l’establishment, e si sarebbe posto perciò come obbiettivo la redistribuzione del reddito. A distanza di quasi due secoli la posizione anti-establishment in funzione redistributiva viene classificata invece come “populismo” e individuata come un “pericolo per la democrazia”.
Nel 1975 la Commissione Trilaterale ci ha fatto sapere con un suo famoso documento che la democrazia è in crisi, poiché i suoi meccanismi non assicurerebbero più la “governabilità”. Il concetto è che la democrazia va in crisi quando non riconosce più a sufficienza il ruolo dirigente delle oligarchie e dell’establishment. Detto in soldoni, la democrazia va in crisi quando non taglia abbastanza i redditi dei poveri.
Il cambiamento del significato del termine “democrazia” è ormai acquisito anche dal senso comune. Ogni cosa si definisce anche in base al suo contrario; ed oggi quasi tutti non individuano il contrario della democrazia nell’oligarchia o nell’establishment, bensì nella “dittatura”. La dittatura diventa così il contrario della democrazia, mentre il ruolo egemonico dell’establishment può transitare indifferentemente dal regime “democratico” al regime “dittatoriale”.
Il “potere della maggioranza” quindi non è più lo strumento per la liberazione dei poveri dall'oppressione delle oligarchie del censo, bensì il segno della capacità dell’establishment di estorcere un consenso anche dai ceti subalterni. Un bollettino pre-situazionista che si pubblicava in Francia negli anni ‘50, “Potlach”, osservava che a guardare il risultati elettorali sembrava che i ricchi fossero il 95% ed i poveri solo il 5%. Ogni volta che il voto popolare premia forze che si pongono come anti-establishment, queste forze antisistema vengono reintegrate nei meccanismi di potere, oppure se ne rivelano una diretta emanazione. Una ventata di anticonformismo ogni tanto, per poi tirare nuovamente le redini del conformismo. Tutto ciò viene di solito classificato nella categoria del “tradimento”, oppure ascritto al potenziale cospirativo delle oligarchie. In realtà si ha a che fare con elementi oggettivi, cioè con la scarsa capacità di presa della democrazia sulla questione della redistribuzione del reddito.
Il tema della redistribuzione del reddito sembrerebbe riapparire ogni tanto timidamente. La “sinistra” individua la via maestra per la redistribuzione nella leva fiscale. Qui sorge però una difficoltà: i grandi capitali oggi sono transnazionali e quindi sfuggono al fisco, perciò la leva fiscale finisce per accanirsi solo sui meno poveri o, addirittura, sugli stessi poveri. La “via fiscale al socialismo”, tanto paventata dalla destra, in realtà non tocca i privilegi dell’establishment.
L’inghippo è facilmente spiegabile. Due secoli fa la ricchezza si identificava soprattutto con la proprietà fondiaria e immobiliare, ed il liberalismo classico riconosceva il diritto di voto solo ai proprietari, cioè a quelli che erano in grado di pagare una certa quantità di tasse. A quell'epoca il suffragio universale, l’estensione del diritto di voto ai nullatenenti, sembrava quindi avere effettivamente una carica anti-establishment. Quando invece la ricchezza si è andata ad identificare con il capitale finanziario transnazionale, le tasse sulla proprietà immobiliare hanno cominciato a sortire un effetto opposto. Imposte come l'IMU portano infatti ad una diminuzione del valore degli immobili, e quindi favoriscono l'acquisizione degli immobili da parte di capitali transnazionali.
Se ne può concludere che la democrazia è stata concessa quando ormai era fuori tempo massimo, cioè quando la vera ricchezza si era messa al riparo da ogni eventuale velleità redistributiva da parte di governi nazionali. Alla “democrazia” non rimane altro che far finta che i privilegiati da colpire siano i proprietari della casetta o i pensionati, oppure chi abbia un posto fisso. Ecco perché la Trilateral suggeriva di fatto che la “governabilità” in democrazia si misura con la capacità di tassare i poveri e di tagliarne i redditi.
Ora che la “democrazia” non è più in grado di disturbare i ricchi nel loro Olimpo, può dedicarsi non solo alla funzione di spennare i poveri ma anche e soprattutto alla missione di “educarli”. Oltre l'imposta patrimoniale, l'altro cavallo di battaglia della “sinistra” è lo “ius soli”, cioè il riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli di immigrati che nascano sul suolo italiano. In sé la proposta è sacrosanta e corrisponde ad un’elementare equità; il punto sospetto è l'enfasi eccessiva che le viene attribuita. Quali sarebbero infatti i vantaggi derivanti dalla cittadinanza italiana? Sergio Marchionne buonanima non aveva la cittadinanza italiana, mentre ce l’hanno tanti barboni che dormono sotto i ponti. L’integrazione sociale non è data dalla cittadinanza ma dal reddito. L'unico vantaggio concreto che deriva dalla condizione di cittadino italiano è quello di poter emigrare senza ostacoli in altri Paesi dell'Unione Europea. Quindi anche i giovani figli di immigrati sarebbero liberi di andarsene in Paesi più allettanti come la Francia o la Germania, ed è quello che già fanno tanti giovani italiani. La destra xenofoba perciò dovrebbe essere a favore dello “ius soli”. Guarda caso, di questo unico aspetto concreto però non si parla mai, poiché disturberebbe l’aspetto “pedagogico” dello “ius soli” e quindi anche il gioco delle parti tra destra e “sinistra”. Il carattere ludico del tema dello “ius soli” non è affatto in contraddizione con la sua finalità pedagogica, perché i bambini si educano soprattutto attraverso il gioco.
Nell’agone democratico però destra e “sinistra” non giocano alla pari. Mentre la “sinistra” si attiene rigidamente al gioco delle parti ed è sempre ligia alla “diversolatria”, la destra invece non si vincola al culto dell'identità nazionale. La destra è più “come tu mi vuoi”, sa separare il ludico dal pedagogico inseguendo con spregiudicatezza gli umori delle folle. La destra ha una marcia in più poiché si adegua completamente al ruolo della democrazia come intrattenimento e, non a caso, i leader della destra possiedono tutti abilità da animatori di villaggio turistico.
Il carattere meramente ludico/pedagogico della democrazia e la sua funzione di infantilizzazione non sono in contraddizione neppure con la scelta di negare talvolta alle masse lo svago elettorale. Impedendo le elezioni, il presidente Mattarella si è comportato come quella mamma che proibisce al figlio di uscire a giocare, perché fuori fa freddo o perché deve rimanere casa a fare i compiti.
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