Nell’Europa del XIX secolo il termine “democrazia” era considerato quasi un sinonimo di socialismo; ciò in base ad un sillogismo abbastanza elementare: i poveri sono la maggioranza ed i ricchi una minoranza, perciò un governo espressione della maggioranza sarebbe stato per forza di cose contro le oligarchie e contro l’establishment, e si sarebbe posto perciò come obbiettivo la redistribuzione del reddito. A distanza di quasi due secoli la posizione anti-establishment in funzione redistributiva viene classificata invece come “populismo” e individuata come un “pericolo per la democrazia”.
Nel 1975 la Commissione Trilaterale ci ha fatto sapere con
un suo famoso documento che la democrazia è in crisi, poiché i suoi meccanismi non assicurerebbero più la “governabilità”. Il concetto è che la democrazia va in crisi quando non riconosce più a sufficienza il ruolo dirigente delle oligarchie e dell’establishment. Detto in soldoni, la democrazia va in crisi quando non taglia abbastanza i redditi dei poveri.
Il cambiamento del significato del termine “democrazia” è ormai acquisito anche dal senso comune. Ogni cosa si definisce anche in base al suo contrario; ed oggi quasi tutti non individuano il contrario della democrazia nell’oligarchia o nell’establishment, bensì nella “dittatura”. La dittatura diventa così il contrario della democrazia, mentre il ruolo egemonico dell’establishment può transitare indifferentemente dal regime “democratico” al regime “dittatoriale”.
Il “potere della maggioranza” quindi non è più lo strumento per la liberazione dei poveri dall'oppressione delle oligarchie del censo, bensì il segno della capacità dell’establishment di estorcere un consenso anche dai ceti subalterni. Un bollettino pre-situazionista che si pubblicava in Francia negli anni ‘50, “Potlach”, osservava che a guardare il risultati elettorali sembrava che i ricchi fossero il 95% ed i poveri solo il 5%. Ogni volta che il voto popolare premia forze che si pongono come anti-establishment, queste forze antisistema vengono reintegrate nei meccanismi di potere, oppure se ne rivelano una diretta emanazione. Una ventata di anticonformismo ogni tanto, per poi tirare nuovamente le redini del conformismo. Tutto ciò viene di solito classificato nella categoria del “tradimento”, oppure ascritto al potenziale cospirativo delle oligarchie. In realtà si ha a che fare con elementi oggettivi, cioè con la scarsa capacità di presa della democrazia sulla questione della redistribuzione del reddito.
Il tema della redistribuzione del reddito sembrerebbe riapparire ogni tanto timidamente. La “sinistra” individua la via maestra per la redistribuzione nella leva fiscale. Qui sorge però una difficoltà: i grandi capitali oggi sono transnazionali e quindi sfuggono al fisco, perciò la leva fiscale finisce per accanirsi solo sui meno poveri o, addirittura, sugli stessi poveri. La “via fiscale al socialismo”, tanto paventata dalla destra, in realtà non tocca i privilegi dell’establishment.
L’inghippo è facilmente spiegabile. Due secoli fa la ricchezza si identificava soprattutto con la proprietà fondiaria e immobiliare, ed il liberalismo classico riconosceva il diritto di voto solo ai proprietari, cioè a quelli che erano in grado di pagare una certa quantità di tasse. A quell'epoca il suffragio universale, l’estensione del diritto di voto ai nullatenenti, sembrava quindi avere effettivamente una carica anti-establishment. Quando invece la ricchezza si è andata ad identificare con il capitale finanziario transnazionale, le tasse sulla proprietà immobiliare hanno cominciato a sortire un effetto opposto. Imposte come l'IMU portano infatti ad una diminuzione del valore degli immobili, e quindi favoriscono l'acquisizione degli immobili da parte di capitali transnazionali.
Se ne può concludere che la democrazia è stata concessa quando ormai era fuori tempo massimo, cioè quando la vera ricchezza si era messa al riparo da ogni eventuale velleità redistributiva da parte di governi nazionali. Alla “democrazia” non rimane altro che far finta che i privilegiati da colpire siano i proprietari della casetta o i pensionati, oppure chi abbia un posto fisso. Ecco perché la Trilateral suggeriva di fatto che la “governabilità” in democrazia si misura con la capacità di tassare i poveri e di tagliarne i redditi.
Ora che la “democrazia” non è più in grado di disturbare i ricchi nel loro Olimpo, può dedicarsi non solo alla funzione di spennare i poveri ma anche e soprattutto alla missione di “educarli”. Oltre l'imposta patrimoniale,
l'altro cavallo di battaglia della “sinistra” è lo “ius soli”, cioè il riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli di immigrati che nascano sul suolo italiano. In sé la proposta è sacrosanta e corrisponde ad un’elementare equità; il punto sospetto è l'enfasi eccessiva che le viene attribuita. Quali sarebbero infatti i vantaggi derivanti dalla cittadinanza italiana? Sergio Marchionne buonanima non aveva la cittadinanza italiana, mentre ce l’hanno tanti barboni che dormono sotto i ponti. L’integrazione sociale non è data dalla cittadinanza ma dal reddito. L'unico vantaggio concreto che deriva dalla condizione di cittadino italiano è quello di poter emigrare senza ostacoli in altri Paesi dell'Unione Europea. Quindi anche i giovani figli di immigrati sarebbero liberi di andarsene in Paesi più allettanti come la Francia o la Germania, ed è quello che già fanno tanti giovani italiani. La destra xenofoba perciò dovrebbe essere a favore dello “ius soli”. Guarda caso, di questo unico aspetto concreto però non si parla mai, poiché disturberebbe l’aspetto “pedagogico” dello “ius soli” e quindi anche il gioco delle parti tra destra e “sinistra”. Il carattere ludico del tema dello “ius soli” non è affatto in contraddizione con la sua finalità pedagogica, perché i bambini si educano soprattutto attraverso il gioco.
Nell’agone democratico però destra e “sinistra” non giocano alla pari. Mentre la “sinistra” si attiene rigidamente al gioco delle parti ed è sempre ligia alla “diversolatria”, la destra invece non si vincola al culto dell'identità nazionale. La destra è più “come tu mi vuoi”, sa separare il ludico dal pedagogico inseguendo con spregiudicatezza gli umori delle folle. La destra ha una marcia in più poiché si adegua completamente al ruolo della democrazia come intrattenimento e, non a caso, i leader della destra possiedono tutti abilità da animatori di villaggio turistico.
Il carattere meramente ludico/pedagogico della democrazia e la sua funzione di infantilizzazione non sono in contraddizione neppure con la scelta di negare talvolta alle masse lo svago elettorale. Impedendo le elezioni, il presidente Mattarella si è comportato come quella mamma che proibisce al figlio di uscire a giocare, perché fuori fa freddo o perché deve rimanere casa a fare i compiti.