Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Poco più di un anno fa al centro del dibattito politicorretto c’era ancora la minaccia di un nuovo fascismo di cui Matteo Salvini sarebbe stato il nuovo Duce in pectore. Ci ritroviamo invece oggi con un fascismo generato dal cuore stesso del politicorretto. Mussolini non era riuscito ad imporre a tutti la camicia nera, mentre adesso una mezza calzetta come Giuseppe Conte ha costretto tutti, senza eccezione, a portare la museruola (pardon, la mascherina). Tramontato definitivamente il fascismo imperialista e militarista, siamo passati ad un fascismo bio-sanitario. Si è spento del tutto il fascino delle ideologie tradizionali, soppiantate dalle “emergenze”.
L’emergenza Covid esalta lo strapotere delle lobby farmaceutiche, delle lobby del digitale e delle lobby finanziarie, in particolare di queste ultime, che possono letteralmente prendere per il collo i governi in nome del “non ci sono i soldi”. Il massimo che si riesce ad opporre al dominio della finanza è il moralismo; significativo a riguardo un film del 2016, “Le Confessioni”, dove si pensa di poter contrastare la finanza con gli scrupoli della morale cristiana. In realtà il lobbismo emergenzialista col moralismo ci va a nozze, poiché la morale non mette in dubbio il dogma della “scarsità” e quindi non è neppure in grado di mettere in discussione le gerarchie sociali che si edificano sulla distribuzione.
Allo stesso modo del “non ci sono i soldi”, a un certo punto ci si è fatto credere che mancavano i posti letto in terapia intensiva, perciò i medici sarebbero stati “costretti a scegliere” chi salvare e chi no; quindi in base alla presunta “scarsità” si legittimavano le gerarchie anche tra i malati. Ovviamente si è cascati nelle solite recriminazioni sulle colpe passate dello smantellamento della Sanità pubblica, senza mettere in dubbio che fosse davvero fondata l’esigenza di curare con la terapia intensiva e senza supporre che anche in questo caso la scarsità fosse artificiosa. “Colpe” e “responsabilità” sono proprio il materiale propagandistico su cui si può confezionare qualsiasi emergenza. Il moralismo quindi è organicamente impotente contro l’emergenzialismo, da cui si fa regolarmente infinocchiare.
Per le lobby finanziarie questo periodo appare come un momento magico, in cui tutto può essere imposto grazie all’esigenza politicorretta di salvaguardare la vita dei cittadini. L’arbitrio non ha più limiti, dato che l’emergenza consente a pieno titolo di saltare tutte le mediazioni legali, istituzionali e sociali. Laddove un governo tardi, appena appena, ad adeguarsi, può essere messo davanti al fatto compiuto da un presidente di Regione a cui si garantisca il sostegno mediatico. Sono infatti i media, organi delle lobby, a dettare tempi e scadenze, creando ad hoc gli “esperti”, gli “allarmisti di professione”, in grado di legittimare tutto di fronte alle masse inermi e passive.
C’è chi teme, giustamente, che tanta euforia e tanta ubriacatura di potere assoluto comportino la prospettiva di non uscire più da questa emergenza. D’altra parte l’emergenzialismo ha un senso finché è un espediente per aggirare la legalità. Ma se l’emergenza permanente abolisce di fatto la legalità, che succede?
Ne “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte” Karl Marx riprendeva la tesi di Louis Auguste Blanqui secondo cui la finanza non è altro che la criminalità comune ascesa ai vertici della società. Dal XVII secolo la nascita delle Borse e delle società per azioni ha garantito alla finanza un’area in cui l’illegalità poteva essere esercitata impunemente. Pur considerati ufficialmente reati, l’aggiotaggio e l’insider trading rappresentano la materia prima del mercato azionario; e la discrezionalità dell’azione penale si è strutturalmente incaricata di favorire di volta in volta i soggetti da privilegiare. Lo sviluppo della stampa prima e dei media moderni poi, ha fornito alla finanza le armi comunicative per far circolare le informazioni false o per tacere quelle vere, in modo da orientare i valori di Borsa.
Dal XVII secolo ad oggi le cose non sono cambiate: il potere criminale ha strutturalmente bisogno della legalità, poiché è appunto la legalità a creare la possibilità di quella rendita di posizione che è l’illegalità. Se non c’è un potere della Legge, non può esservi nemmeno il vantaggio del delitto, concesso ad alcuni e precluso ad altri.
Il grande vantaggio del lobbismo rispetto alle forme associative di tipo politico, è di poter agire in automatico, senza lo sforzo di pensare. Il lobbista può realizzare l’ideale buddista del vuoto mentale per diventare puro comportamento, mero tornaconto immediato. Laddove ci siano un vincolo o una norma, il lobbista può passare direttamente a manipolare chi debba gestire quella norma, a farsene un complice per aggirare la norma.
Quando invece la norma manca o sia stata formulata in modo talmente ambiguo da configurare già di per sé un arbitrio illimitato, il lobbista rischia di perdere il suo stato di grazia, poiché sarà costretto a pensare. Proprio perché c’è una Legge, le opzioni di business attraverso l’illegalità sono un numero ristretto, sono quelle e non altre. Non c’è sforzo di scelta. Quando tutto sia possibile, il rischio è di diventare come l’Asino di Buridano, incerto verso quale mangiatoia andare. Quando si sia costretti a pensare c’è ancora un rischio in più, quello di diventare vittima della propria propaganda finendo per crederci. Il collaboratore principale del lobbista è infatti il tecnico delle pubbliche relazioni, colui che si incarica di riconvertire il linguaggio morale e legalitario in giustificazione del business. Può accadere però che il lobbista finanziario percepisca davvero come “lacci e lacciuoli” quei vincoli legali e morali che sono alla base dei suoi privilegi e finisca perciò per tagliare il ramo su cui è appollaiato. Non c’è per i potenti pericolo maggiore che prendere sul serio il proprio vittimismo e finire per diventare così naif da credere che davvero la Legge o la morale stiano lì per difendere i deboli.
In uno stato di emergenza permanente che faccia svanire i vincoli legali, il lobbismo rischia quindi di dover diventare un’altra cosa. Ridotta la politica ad un’appendice del lobbismo, è al lobbista che spetterebbe di avere una visione d’insieme che invece, per formazione, non è in grado di avere.
Dalla metà degli anni ’70 il lobbying finanziario ha scatenato un’offensiva mediatica per screditare il ruolo della politica. Nell’ambito di quella fucina di pubbliche relazioni e propaganda che è la Commissione Trilaterale, sono stati prodotti quegli slogan che hanno condotto alla convinzione generale che fosse la politica ad essere vincolata: la dottrina della “governabilità” per irreggimentare i parlamenti e svuotare le Costituzioni; ed anche la dottrina del “vincolo esterno” per costringere i governi a seguire politiche di bilancio dominate dalle lobby finanziarie insediate in organismi come il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Centrale Europea. Come sempre accade, la propaganda non si è curata del principio di non contraddizione, per cui si predica l’urgenza di “decidere” e, nello stesso tempo, l’esigenza di porre ostacoli esterni alle decisioni dei governi. Questa politica asservita, prona, umiliata e “lobbistizzata” diventa troppo molle per fare da sponda o da interlocutore. Si tratta di una considerazione che non riguarda solo la politica dei governi e dei parlamenti, ma anche quella delle cosiddette “opposizioni”.
Negli anni ’70 un capolavoro delle pubbliche relazioni è stato la cosiddetta “stagflazione”. cioè la presunta combinazione di stagnazione e inflazione. La colpa dell’inflazione veniva scaricata sugli avidi Paesi produttori di petrolio o sui lavoratori che rivendicavano aumenti salariali. Ma se ci fosse stata davvero stagnazione, non sarebbero caduti sia il potere contrattuale dei lavoratori, sia la domanda di petrolio?
L’emergenza-stagflazione non fu minimamente messa in dubbio né dalle sinistre istituzionalizzate, né dalle sinistre rivoluzionarie: Soprattutto non si colse il fatto che lo slogan della stagflazione era l’alibi per avviare una deindustrializzazione, cioè una deflazione che permettesse alla finanza di preservare il valore dei propri crediti; è pur vero infatti che la vituperatissima inflazione era ossigeno per i debitori. Quando poi l’emergenza dei conti pubblici ha legittimato le privatizzazioni, neppure allora si è colto il nesso tra privatizzazioni e deindustrializzazione. Eppure c’era stato Marx a spiegare che esiste la caduta tendenziale del saggio di profitto, perciò il privato non può avere un interesse industriale a gestire settori strutturalmente in perdita come la siderurgia. All’ombra delle privatizzazioni infatti i veri interessi privati riguardavano la riscossione di finanziamenti pubblici.
Una volta che i vincoli politici sono stati distrutti, il lobbismo non può più semplicemente permettersi di parassitare le scelte altrui, ma deve cominciare a gestire in prima persona. Vedremo se sarà capace di realizzare questa mutazione.
Le “Considerazioni Finali” del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, hanno ottenuto l’effetto di sconcertare persino i commentatori più critici e smaliziati, che hanno dovuto confrontarsi con troppe incongruenze. Visco ha presentato come un dato positivo l’attuale equilibrio della bilancia commerciale, come se ciò indicasse una vitalità dell’esportazione. In realtà il grosso delle importazioni non riguarda i beni di consumo, bensì le materie prime necessarie alla produzione, perciò un equilibrio della bilancia commerciale nel caso italiano rappresenta un chiaro indizio di deindustrializzazione. Una ripresa produttiva non potrebbe che passare per un deficit commerciale; uno squilibrio che non assumerebbe aspetti drammatici a causa degli attuali prezzi bassi delle materie prime, ma che comunque dovrebbe verificarsi per segnalare un risveglio delle imprese.
Ipocritamente Visco dichiara di voler scongiurare prospettive di deflazione, cioè di caduta dei prezzi, ma tutto il suo discorso va nel senso opposto. La sua idea di rifinanziare un’economia allo sfacelo a colpi di debito pubblico e privato, non configura uno sviluppo ma appunto una strozzatura da debiti, che rimarrebbero poi inalterati in futuro nel loro valore a causa della mancanza di inflazione.
Non mancano altre considerazioni ambigue da parte del Governatore, come quelle sul “capitale umano” da incentivare grazie all’istruzione. Come cittadino Visco Ignazio ha tutto il diritto di discettare su ciò che preferisce, ma come banchiere centrale dovrebbe attenersi alle sue competenze istituzionali, perciò ogni invasione di campo risulta sospetta. Visco indica infatti l’urgenza della preparazione e formazione degli insegnanti, come a dire che adesso non sono preparati, quindi si alimenta la delegittimazione della Scuola. Prima Visco parla di “capitale umano” ma subito dopo lo svaluta, facendo quindi aggiotaggio sociale, un altro fattore di deflazione.
Visco quindi non si esprime da tutore dell’interesse generale e neppure del generico interesse di classe, bensì esclusivamente da lobbista della finanza. Da parte di molti analisti è già stata posta in evidenza la mostruosità giuridica della Banca Centrale, un istituto di diritto pubblico che però non ha nessuna collocazione nel quadro istituzionale, tanto che la Costituzione italiana neppure la nomina.
Fondate verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, le Banche Centrali rappresentarono una debacle dello Stato liberale, che rinunciava unilateralmente ad una delle sue prerogative fondamentali, il controllo della moneta. Fu un grande successo del lobbismo finanziario, che ha determinato appunto la creazione di una grande zona grigia ai confini del diritto.
Negli anni ’90 la Commissione Bicamerale, voluta da Massimo D’Alema, tracciò una proposta di revisione costituzionale, nella quale si introduceva la Banca Centrale nella Costituzione italiana, proclamandone l’autonomia. Tutta quella proposta di revisione costituzionale decadde per le vicende dello scontro politico tra D’Alema e il Buffone di Arcore, per cui la Banca d’Italia rimane a tutt’oggi un potere di governo extracostituzionale.
Del resto anche il Paese in cui la Banca Centrale ha il maggior peso, la Germania, non ha conferito a questa istituzione un chiaro inquadramento costituzionale. Nel testo della Costituzione tedesca aggiornato al 2016 si fa ancora riferimento alla vecchia Banca Federale, poi sostituita nel 1957 da Bundesbank con un’apposita legge e, comunque, non si fa accenno ad una sua autonomia. Non si capisce quindi con quali basi giuridiche la Corte Costituzionale tedesca possa pontificare in campo finanziario. Ecco un’ennesima riprova che sul piano pratico le carte costituzionali non valgono neppure la carta su cui sono scritte, dato che veri e propri strapoteri vengono introdotti da leggine ad hoc del tutto decontestualizzate dall’ordinamento. Il vero potere non ha basi legali ma si insinua nelle contraddizioni delle leggi. Ogni potere è un abuso di potere.
Al deficit costituzionale del diritto tedesco supplisce però la teologia tedesca, infatti negli anni ’70 Eugenio Scalfari, ad imitazione di quanto già accadeva in Germania, lanciò un vero e proprio culto religioso del Governatore della Banca d’Italia, che allora era Guido Carli. Si è data troppa enfasi alla circostanza che Guido Carli pubblicasse articoli di commento sul settimanale “l’Espresso” con lo pseudonimo di Bancor; mentre il fatto più significativo era che il settimanale scalfariano pubblicava le relazioni del Governatore come se fossero i testi sacri di una divinità laica, a cui si demandava la tutela nei confronti di una politica sprecona e corrotta. Il feticismo delle Banche Centrali entrava allora a pieno titolo nel politicorretto. Il dato curioso è che i politicorretti sono anche feticisti della Costituzione ma sembrano non accorgersi che uno dei loro principali idoli, il banchiere centrale, non è citato in quel testo.
Alcuni però interpretano l’articolo 47 della Costituzione, in cui si afferma che la Repubblica “tutela il risparmio”, come una profezia che annuncia l’avvento del nuovo messia, il banchiere centrale. Sennonché le Banche Centrali c’entrano poco o nulla con la tutela del risparmio, semmai la loro funzione è di difendere il valore della moneta. Nella mistificazione corrente i due concetti, tutela del risparmio e difesa del valore della moneta, sono confusi e identificati, ma sono cose diverse. Per difendere il valore della moneta occorre spesso creare disoccupazione ed anche deindustrializzare per abbattere sia la domanda di beni di consumo, sia la domanda di materie prime; quindi la difesa del valore della moneta si identifica con la pauperizzazione. Dov’è allora la tutela del risparmio se ti costringo a mangiarti i tuoi risparmi per sopravvivere?
In realtà la tutela del risparmio sarebbe un compito del Tesoro, che dovrebbe emettere titoli di debito pubblico indicizzati all’inflazione ad uso esclusivo dei propri contribuenti. Sarebbe infatti interesse dello Stato preservare i cittadini dalla povertà per fare in modo che continuino a produrre reddito ed a consumare, in modo da garantire all'erario il gettito delle imposte sia dirette, sia indirette. Questo idillio presupporrebbe però l’esistenza di un attore che invece non c’è: lo Stato. Quella finzione giuridica che si chiama “Stato” è infatti una sponda delle lobby che si insinuano nelle lacune e nelle pieghe oscure del diritto. Se esistesse lo Stato come ingenuamente lo si concepisce, non sarebbero mai nati quei governi paralleli ed extracostituzionali che sono le Banche Centrali.
L’espressione “autonomia della Banca d’Italia” si è infatti sempre configurata come subdola, dato che non si tratta affatto di semplice autonomia, bensì di stabilire un predominio sulla politica. Che la politica sia sprecona e corrotta, non c’è dubbio; non si spiega però il motivo per cui banchieri centrali rappresenterebbero una specie eletta, immune dai vizi umani e soprattutto dalle ovvie commistioni con la finanza internazionale, che in effetti è l’unica ad essere realmente interessata alla difesa del valore delle monete. Siamo appunto alla superstizione religiosa che copre le falle del diritto e fa da alibi al lobbying mascherato.
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