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"La nozione di imperialismo americano non si deve intendere come dominio tout court degli Stati Uniti, ma come la guerra mondiale dei ricchi contro i poveri, nella quale gli USA costituiscono il riferimento ed il supporto ideologico-militare per gli affaristi e i reazionari di tutto il pianeta."

Comidad (2012)
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.

Di comidad (del 20/04/2017 @ 00:32:15, in Commentario 2017, linkato 2452 volte)
È probabile che il governo cinese non provi un particolare affetto per il regime nord-coreano. Sta di fatto però che la Cina non può permettersi che la “democrazia occidentale” (cioè i missili e i soldati USA) arrivino ai propri confini. I toni miti che la dirigenza cinese sta usando in questa ennesima crisi tra Stati Uniti e Corea del Nord non devono ingannare. Quando si tratta dell’integrità del proprio territorio i dirigenti cinesi sono inflessibili e possono diventare anche imprevedibili, dato che capiscono benissimo che il vero bersaglio dell’attivismo militare statunitense non è la Corea del Nord ma la Cina stessa. Che si tratti di intimidazione o di diretta minaccia al territorio, non è dato ancora capirlo; ma il confine tra l’intimidazione e la minaccia diretta è molto labile.
Dal 1972 sembrava che gli USA avessero compreso di non poter fronteggiare contemporaneamente Russia e Cina; anzi, l’alleanza commerciale con la Cina, inaugurata dal famoso viaggio di Nixon, era stata una delle chiavi della vittoria nella guerra fredda. Sembrava anche che la lobby commerciale che ha spinto CialTrump alla presidenza USA fosse intenzionata a riallacciare i rapporti con la Russia per concentrare il fuoco sulla concorrenza commerciale cinese; invece le ultime mosse dell’Amministrazione americana scompaginano questo quadro. Cos’è accaduto?
Una notizia del marzo scorso avrebbe potuto spiegare molte cose; una notizia che, sebbene anticipata dal “Financial Times”, è stata invece poco rilevata dai media. Il fatto riguarda l’arrivo negli USA di duecento miliardi di dollari di investimenti dall’Arabia Saudita; duecento miliardi nei prossimi quattro anni: guarda caso proprio il periodo del primo mandato presidenziale di CialTrump.
Si ha un bel dire che questi duecento miliardi saranno investiti nell’economia reale e rilanceranno produzione e consumi, ma sono belle chiacchiere e il dato vero è che, ancora una volta, la mobilità dei capitali ha sconfitto l’economia reale. Per re-industrializzare gli Stati Uniti occorrerebbero anzitutto sbocchi commerciali, sia interni che esterni, un obiettivo che si raggiungerebbe anzitutto ridimensionando la concorrenza cinese. Che allo scopo si ricorra ai dazi o ad una drastica svalutazione del dollaro, poco importa, ma l’una o l’altra soluzione disturberebbero la finanza globale, la quale non gradisce che si frappongano ostacoli alla circolazione delle merci, perché per ogni merce che si importa c’è come corrispettivo un capitale esportato; e la finanza globale tantomeno gradisce che i debiti si svalutino. Prima di tutti ovviamente la pensano così i grandi detentori del debito USA, come i Sauditi.

Uno sbocco commerciale all’industria statunitense comunque i Sauditi lo garantiscono: le armi, di cui la monarchia saudita è il principale cliente. La guerra anti-sciita condotta con crescente e genocida ferocia dall’Arabia Saudita nello Yemen (nel silenzio dei media) è una vera manna per il traffico di armi USA ed infatti gli stessi USA la sostengono con le incursioni aree a base di droni. Ma la guerra non va tanto bene: i primi a defilarsi dall’alleanza con l’Arabia Saudita sono stati gli Emirati Arabi Uniti, poi si è defilato l’Egitto. Se non fosse per l’appoggio di Stati Uniti e Regno Unito, le cose per la petro-monarchia saudita si metterebbero davvero male.
Qualche settimana fa i cultori della parodia del politicamente corretto sono andati in brodo di giuggiole per il fatto che il Primo Ministro britannico Theresa May sia andata in visita in Arabia Saudita senza il velo islamico, dimenticando che la petro-monarchia saudita costituisce storicamente una creatura dei servizi segreti britannici. La stessa setta islamica dei Wahabiti (peraltro di dottrina molto incerta) di cui la monarchia saudita è leader, rappresentava sin dal XVIII secolo uno strumento dell’imperialismo britannico, dapprima in funzione anti-turco ottomana, poi in funzione di destabilizzazione dei regimi arabi laici. Nonostante l’appoggio di USA e UK, l’Arabia Saudita in queste ultime settimane è diventata persino bersaglio dei missili dei guerriglieri sciiti; guerriglieri armati dall’Iran, anch’esso sciita, ma, soprattutto, maggiore avversario geopolitico dell’Arabia Saudita nell’area del Vicino Oriente.
Si comprende quindi che gli USA in Siria siano andati in soccorso della santa alleanza sunnita in funzione anti-sciita (cioè anti-iraniana), un’alleanza di cui il principale attore e finanziatore, nonostante il crescente protagonismo del Qatar, è ancora l’Arabia Saudita. Da decenni la petro-monarchia di Riad è il principale reclutatore e finanziatore di guerriglieri islamici, che la stessa petro-monarchia sparge per il mondo. Che il cosiddetto “fanatismo religioso” costituisca un prodotto della mobilità dei capitali dell’Arabia Saudita e del Qatar non deve risultare strano: il denaro è suggestivo e carismatico, spesso si ha l’illusione di seguire un’idea mentre in realtà si sta seguendo solo il denaro che la sostiene. Al denaro saudita si deve anche la destabilizzazione della Jugoslavia. Oggi persino i quotidiani occidentalisti come “Il Foglio” ammettono che negli anni ‘90 in Bosnia agirono, e furono determinanti, i jihadisti stranieri pagati da Riad, quindi non si trattò di una semplice guerra civile, come ci era stato narrato. All’epoca invece la propaganda “occidentale” diede tutta la colpa ai Serbi ed al “nuovo Hitler” di turno, Milosevic.
 
Di comidad (del 13/04/2017 @ 01:32:59, in Commentario 2017, linkato 2118 volte)
È iniziato un periodo difficile per Putin. Per oltre un anno il presidente russo era riuscito a tener buoni i propri generali prospettando loro la possibilità di un accordo con CialTrump. In questi ultimi mesi Putin aveva posto le basi di una pacificazione in Siria coinvolgendo l’Iran e costringendo la facinorosa Turchia di Erdogan a più miti consigli; tutto questo lasciando gli USA fuori dalla porta ma, comunque, con la porta aperta. L’inversione ad U di un presidente spinto da lobby commerciali, ma lasciato eleggere soltanto per la sua ricattabilità, ha dimostrato che gli USA sono determinati ad impedire qualsiasi stabilizzazione dell’area del Vicino Oriente. Se per raggiungere lo scopo gli USA devono prendere esplicitamente le parti dell’ISIS-Daesh, non c’è problema, tanto ai media occidentali basta un po’ di retorica e ipocrisia per mistificare tutto.
Al G7 di Lucca si è parlato persino di nuove sanzioni alla Russia, accusata di complicità con i presunti crimini di guerra di Assad e, per somma beffa, si è aperto il tavolo ad un Paese come l’Arabia Saudita, il più diretto responsabile del caos siriano insieme con il Qatar. I governi europei si sono completamente appiattiti sulle scelte irresponsabili degli USA ed il loro unico sussulto di “autonomia” è consistito nel consueto scivolamento nel demenziale repertorio del “più Europa”, farneticando ancora una volta di ”difesa europea”.
È inutile soffermarsi sul giallo dei trentasei missili americani mancanti all’appello nell’impatto sul suolo siriano perché, in fatto di malversazioni, qui siamo ancora all’apprendistato, perciò non è difficile supporre che quei missili, già strapagati dall’Amministrazione USA, magari non siano mai stati realmente forniti dalle aziende costruttrici, oppure forniti in condizioni di non operatività, ovviamente con la connivenza delle autorità militari. Il bomb-business è fatto anche di queste farse.
Ma le ruberie rappresentano il risvolto patetico e pacioccone del militarismo, mentre la riflessione più urgente riguarda invece domande come quelle dell’ultimo festival della rivista Limes, intitolato “Un nuovo secolo americano?”. Se i generali russi si dovessero convincere che con gli USA non è possibile alcuna trattativa, una domanda più realistica sarebbe quella di chiedersi se ci sarà un nuovo secolo tutto intero. Se al quadro si aggiungono le nuove provocazioni degli USA alla Corea del Nord, anche i generali cinesi potrebbero pervenire alla stessa convinzione dei generali russi e, a quel punto, potrebbe succedere di tutto. Gli oligarchi americani si sono crogiolati per troppo tempo nella puerile illusione di essere i soli criminali del pianeta.

Alcuni commentatori hanno opportunamente notato che nemmeno nei periodi più bui della guerra fredda si era mai giunti così vicini alla possibilità concreta di un conflitto nucleare globale. Come mai invece ci si è arrivati ora, con una Russia ed una Cina convertite al capitalismo?
Il fatto è che il pur giustamente bistrattato “socialismo reale” costituiva una limitazione alla mobilità dei capitali. Intere aree del mondo erano sottratte alla “libera circolazione dei capitali” e persino il sedicente “Mondo Libero” era costretto, per motivi di consenso interno, a regolare i flussi di capitale per consentire un po’ di benessere e di welfare.
Oggi invece i capitali non hanno confini e perciò sono liberi di destabilizzare ovunque. Una volta l’importanza di un Paese era valutabile in base al territorio, alla popolazione, al potenziale industriale e agricolo. Ma oggi, grazie alla libera circolazione dei capitali, un Paese altrimenti insignificante come il Qatar ha potuto assurgere al ruolo di attore - e destabilizzatore - globale. Con “investimenti” mirati, il Qatar si è comprato il sistema bancario ed il governo di un Paese tutt’altro che insignificante come la Turchia e, da quella base, ha potuto avviare la destabilizzazione della Siria.
Qualcosa di analogo stava riuscendo al Qatar in Egitto, destabilizzato e avviato alla “democrazia” dal denaro dello stesso Qatar. I generali egiziani hanno avuto i riflessi più pronti dei loro colleghi turchi e quindi hanno attuato un colpo di Stato vero e non una messinscena ad uso e consumo del regime come in Turchia.
Al di là delle astrazioni del “sovranismo”, una delle questioni concrete che devono affrontare i Paesi che vogliano sfuggire alla destabilizzazione interna è quella di limitare i movimenti di capitali, a partire dal cosiddetto “non profit” delle sedicenti “Organizzazioni non Governative” e delle fondazioni private. Ancora una volta l’ungherese Orban dimostra di avere momenti di lucidità a riguardo: dopo essersi liberato delle ingerenze del Fondo Monetario Internazionale, oggi prende a bersaglio la Open Society Foundation di George Soros e le sue centrali di reclutamento di spie e provocatori per “rivoluzioni colorate”, centrali spacciate per innocue Università.
Ma finché a correre ai ripari saranno estemporaneamente dei generali o degli improvvisatori come Orban, i pericoli di guerra non potranno certo diminuire. Occorrerebbe un antimperialismo che avesse chiaro il legame tra la libera circolazione dei capitali, la destabilizzazione e la guerra.
 
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


17/05/2024 @ 07:36:41
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