Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
I media nei giorni scorsi hanno celebrato l'evento: Walter Veltroni ha finalmente rotto il silenzio. In realtà, già da molto prima di questa presunta rottura del silenzio, Veltroni aveva già rotto le scatole in ogni modo all'attuale segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani. Sebbene oggi i media presentino il ritorno dell'ex segretario come quello di un Cincinnato, Veltroni non si è mai fatto veramente da parte ed ha continuato a comportarsi come se il capo fosse ancora lui, con gli atteggiamenti del padrone in viaggio che ogni tanto dà le istruzioni per telefono al maggiordomo; infatti ha continuamente lanciato a Bersani messaggi e avvertimenti che tendevano a screditare e boicottare ogni suo tentativo di ricucire le alleanze a sinistra. L'ottobre dello scorso anno, al super-privatizzatore Bersani era persino capitato di sentirsi ammonire da Veltroni a non ricadere in tentazioni socialiste.
http://www.corriere.it/politica/09_ottobre_28/veltroni-pd-socialismo-suicidio_d7fb8378-c3b4-11de-a7c3-00144f02aabc.shtml
L'attuale documento veltroniano, già firmato da settantacinque parlamentari del PD, ha il suo punto forte nella proposta - già di Mussolini ed Hitler, oltre che di Agnelli e Marchionne - del superamento dei conflitti sociali per giungere ad un "patto tra produttori". La cosa ha un suono abbastanza grottesco se si considera che Bersani, notoriamente, non è mai stato un leader operaio, ma una sorta di sicario della piccola e media impresa emiliano-romagnola, e i vari decreti Bersani la dicono lunga su quali interessi voglia servire l'attuale segretario del PD. Il senso della linea veltroniana non è quello di spingere Bersani più a destra di quanto già non sia, ma di colpire proprio il suo radicamento territoriale. Non si tratta quindi per Veltroni di proporre una sudditanza operaia agli interessi padronali che Bersani già avalla e promuove da sempre, ma di chiarire che gli interessi padronali da privilegiare non sono quelli vincolati al territorio italiano.
Il "papa straniero", di cui ha parlato Veltroni nelle sue interviste, magari potrà anche incarnarsi in una mezza figura come Luca di Montezemolo, ma la sua vera immagine attuale è quella di Sergio Marchionne, la cui persona ha assunto un rilievo politico, al di là delle cariche che potrà o meno assumere. A chiarirlo preventivamente è stato proprio uno dei firmatari del documento di Veltroni, cioè Pietro Ichino - criminalizzatore del lavoro a tempo pieno e vittima del terrorismo ad honorem -, in una intervista rilasciata pochi giorni fa a "Il sole-24 ore". Nell'intervista Ichino ricorre a tutto l'armamentario degli slogan del vittimismo preventivo, tipico del provocatore di professione, lamentando prima che il contratto collettivo e lo Statuto dei Lavoratori siano considerati dei "tabù" su cui non si può discutere, ma poi criminalizzando ogni possibile obiezione alle proprie posizioni con la bordata secondo cui l'alternativa al modello Marchionne sarebbe la camorra.
http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2010-09-15/provocazione-ichino-alternativa-modello-141033.shtml
Risulta paradossale presentare come alternativa alla camorra uno come Marchionne, che siede nel Consiglio di Amministrazione della Philip Morris. Di parecchie multinazionali si sa, o si sospetta, che intrattengano rapporti con la criminalità organizzata, ma solo in pochissimi casi questi rapporti sono documentati in rapporti ufficiali. Uno di questi rari casi riguarda proprio la Philip Morris, che nel 2001 ha meritato persino una relazione della Commissione Antimafia quasi tutta dedicata a questa multinazionale. http://www.publicintegrity.org/investigations/tobacco/assets/pdf/Antimafia%20Tobacco%20final%20report%20Mantovano%20March%2001.pdf
La fantasiosa tesi esposta da Ichino è che le multinazionali non vengano ad investire in Italia perché ostacolate dalle garanzie del lavoro. Si tratta di un'affermazione del tutto gratuita, che non risponde al percorso reale dei cosiddetti "investimenti" delle multinazionali, la cui strada viene tracciata dal sistema dei sussidi alle imprese da parte del Fondo Monetario Internazionale e della Unione Europea. Il FMI non finanzia investimenti in Italia, mentre l'Unione Europea lo fa in minima parte, dato che il grosso dei fondi per lo "sviluppo regionale" va a finanziare proprio le delocalizzazioni: parola della relazione della commissione d'indagine del Parlamento Europeo votata nel 2006. http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+IM-PRESS+20060313IPR06152+0+DOC+XML+V0//IT
Anche su alcuni organi della stampa ufficiale cominciano a sorgere dubbi sulla effettiva trasparenza del personaggio Marchionne. Su "Il Fatto Quotidiano" pochi giorni fa è uscito un articolo che segnala l'eccessiva entità degli investimenti azionari di Marchionne in titoli della Philip Morris, nella quale lo stesso Marchionne è, appunto, anche "director", cioè componente del Consiglio di Amministrazione.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/15/marchionne-scommette-sulle-sigarette-piu-che-sull%E2%80%99auto/60776/
Questa segnalazione de "Il Fatto Quotidiano", per quanto utile, rischia però di restringere la questione del "conflitto di interessi" di Marchionne ad una questione sì sordida, ma "veniale", come gli investimenti azionari personali, lasciando però in ombra il peccato mortale, cioè la "serbian connection" tra Philip Morris e FIAT. Attualmente la Philip Morris è il primo "investitore" in Serbia, quindi ha acquisito in loco una potenza finanziaria, immobiliare e politica che le permette di agganciare alla propria cordata anche altre imprese, facendo loro da padrino.
http://www.balcanicaucaso.org/ita/aree/Serbia/Gli-USA-al-primo-posto-negli-investimenti-in-Serbia/(language)/ita-IT
I piccoli e medi imprenditori italiani, nella loro gran parte, non delocalizzano non perché affetti dal virus del patriottismo, ma semplicemente perché non saprebbero da che parte cominciare per farlo, in quanto non possiedono gli agganci necessari per accedere ai fondi europei e internazionali, e per beneficiare degli sgravi fiscali in loco, ed anche per avere i terreni su cui insediare le fabbriche. Potrebbero farlo soltanto se venisse loro offerta la possibilità di agganciarsi ad una cordata internazionale che fornisse i contatti giusti, permettendo loro così di sganciarsi dal territorio di appartenenza. Si tratterebbe di essere ammessi come sudditi e vassalli in quello che è oggi il feudo della Philip Morris, la Serbia. O almeno questa sarebbe l'illusione, perché poi questi patti leonini non offrirebbero vere garanzie future ai piccoli e medi imprenditori che decidessero di accettarli.
Il "modello Marchionne" si risolve quindi in saccheggiare imprese in Italia, ponendole sotto il controllo/tutela della Philip Morris, per delocalizzarle in Serbia. Ciò spiega anche perché Bersani sia divenuto un bersaglio per l'asse Veltroni-Marchionne, dato che, fatto fuori il bersaglio Bersani, si potrebbe andare ad attingere al serbatoio di imprese piccole e medie che egli rappresenta politicamente, alcune delle quali tecnologicamente interessanti per le multinazionali.
Come già fu a suo tempo il "Veltrusconi", anche il "Veltracchionne" non consiste in un vero progetto politico a lungo termine, ma è solo un alibi politico in funzioni di operazioni affaristiche immediate di marca FMI. Marchionne ammanta le sue operazioni affaristiche con slogan idealistici ed "epocali", ciò in base ad una tecnica pubblicitaria ampiamente sperimentata dai "Neocon" americani; una tecnica che ovviamente si può reggere solo grazie all'appoggio di media "insospettabili". Infatti un settimanale come "l'Espresso", che si è costruito una credibilità con inchieste sul malaffare, ora spende questa stessa credibilità per spacciare Marchionne come un "sovversivo", dedicandogli una copertina in cui fa di lui l'icona di un messia del cambiamento in Italia.
Giorgio Cremaschi, dirigente della FIOM, ha commentato così la decisione di Federmeccanica di attuare la disdetta del contratto dei metalmeccanici firmato nel 2008: "Anche se gli effetti formali di questa disdetta sono rinviati nel tempo, visto che il contratto resta comunque in vigore fino al 2012, quelli politici si dispiegano subito. Dimostrano che gli industriali italiani vogliono competere con i paesi a più basso costo del lavoro, senza investimenti, tagliando diritti e salario." Insomma, secondo Cremaschi, gli imprenditori italiani non avrebbero sufficiente autostima e, invece di competere con Germania e Stati Uniti, preferiscono misurarsi con Paesi che magari sono in Europa, ma che comunque, economicamente, sono terzo mondo. In realtà il problema è che gli industriali non hanno nessuna intenzione di competere con chicchessia, ed il ricatto delle delocalizzazioni non deriva affatto dal minore costo del lavoro in questo o quel Paese, ma dalla politica di incentivi alla delocalizzazione attuata dagli organismi internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale, ma anche dall'Unione Europea. Quando si parla di questi argomenti è meglio riferirsi rigidamente agli atti ed ai documenti ufficiali; e non tanto perché altrimenti tutto verrebbe liquidato con le solite battute sulle "teorie del complotto" e sulle "bufale che circolano su internet" (certi slogan funzionano in automatico), ma soprattutto perché non si coglierebbe il fatto che i veri criteri di funzionamento del sistema affaristico sono universalmente noti, e che gli slogan come "competizione" servono appunto a confondere le acque. Il 14 marzo 2006 il Parlamento europeo ha approvato una relazione in cui si rivolge questo appello alla Commissione europea: "la Commissione deve adottare tutti i provvedimenti necessari affinché la politica regionale europea non costituisca un incentivo alla delocalizzazione di imprese". La relazione del Parlamento europeo in oggetto, redatta in base all'indagine condotta dal deputato Alain Hutchinson, è reperibile all'indirizzo dell' europarlamento. La relazione si limita ad osservare che molte delocalizzazioni di imprese - ci si riferisce evidentemente a quelle nell'Europa dell'Est - non corrispondono a criteri di redditività economica, ma sono dovute semplicemente al fatto che le imprese possono giovarsi di una serie di fondi e contributi pubblici che rendono conveniente l'operazione. In altri termini, sono i fondi europei allo sviluppo che vanno a finanziare i licenziamenti, perciò le tasse che tanti lavoratori hanno pagato negli anni, sono state usate dai governi per privarli del posto di lavoro. La relazione approvata dal Parlamento europeo proponeva perciò di punire, con la sospensione degli incentivi allo sviluppo regionale, tutte le imprese che approfittano del denaro pubblico per licenziare e delocalizzare. Risulta evidente che la Commissione europea non ha mai tenuto conto di questa raccomandazione del Parlamento europeo - che notoriamente non conta nulla -, altrimenti oggi la FIAT non potrebbe delocalizzare, grazie ai fondi europei, le sue fabbriche in Serbia o in Polonia, e ciò senza dover temere la benché minima sanzione dalla Commissione stessa. I "fondi europei per lo sviluppo regionale" perciò non sono altro che l'etichetta di copertura per poter elargire sussidi pubblici alle imprese private. Quindi la "Competizione", il "Mercato" e la "Concorrenza" sono personaggi delle fiabe, mentre il colonialismo delle multinazionali è una realtà; come pure costituisce una realtà il fatto che lo strapotere coloniale delle multinazionali si fonda sull'uso e sull'abuso del pubblico denaro. Anche la Serbia, la Polonia e la Romania sono costrette a loro volta a pagare, attraverso incentivi e sgravi fiscali alle imprese, l'onore di essere colonizzate dalle multinazionali. L'Occidente non esiste: per le multinazionali siamo tutti terzo mondo. L'ultima spiaggia dell'unità sindacale invece oggi è proprio l'ideologia occidentalistica, cioè l'illusione di essere parte di un'area eletta del pianeta, che può permettersi di dare lezioni di democrazia e Stato di Diritto ad altri Paesi. Non a caso l'unica iniziativa unitaria di Cgil, Cisl e Uil di questi ultimi anni è consistita in un comunicato congiunto dell'11 febbraio scorso, in cui si sollecitava l'Unione Europea ad adottare sanzioni contro l'Iran: "CGIL CISL e UIL, nel ribadire la mobilitazione dei lavoratori italiani contro il regime iraniano, sollecitano con forza la comunità internazionale e l’Unione Europea a mettere in atto tutte le iniziative di pressione perché in quel Paese cessi la repressione violenta e vengano garantite le libertà e i diritti fondamentali. Le annunciate sanzioni economiche mirate nei confronti dell’Iran vanno realizzate con immediatezza." Quindi dei sindacati italiani si fanno promotori e celebratori di un'aggressione coloniale nei confronti di un altro Paese, e chiamano i lavoratori a mobilitarsi per questo; e tutto ciò viene giustificato in base ad "informazioni" esclusivamente di fonte colonialistica. D'altra parte, per i sindacati "colonialismo" è una parola proibita, perciò tutte le sventure che capitano ai lavoratori italiani devono essere attribuite esclusivamente al "Mercato". Nulla di male ad essere contro il regime iraniano, ma non sta scritto da nessuna parte che i Paesi "occidentali" abbiano qualcosa da insegnare agli altri in fatto di Stato di Diritto, anzi sta scritto il contrario. Nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 8 aprile 2008, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 16 aprile 2008, n. 90, "in attuazione dell'art. 39 della legge 3 agosto 2007, n. 124 ", c' è in allegato un elenco dei settori che possono essere considerari oggetto di segreto di Stato, e già i primi due dei diciotto punti previsti sono sufficienti a coprire ogni attività umana: "1. La tutela di interessi economici, finanziari, industriali, scientifici, tecnologici, sanitari ed ambientali; 2. la tutela della sovranita' popolare, dell'unita' ed indivisibilita' della Repubblica; ...". Quindi non solo ogni attività economica e sociale, ma anche la sovranità popolare può essere messa sotto segreto di Stato (come a dire che il risultato elettorale viene deciso nelle sedi competenti, che certo non sono le urne). Si tratta ovviamente di segreti di Pulcinella, dato che lo scopo vero del segreto di Stato è quello di creare un "legittimo impedimento", cioè riservare l'impunità, ed una condizione di superiorità alla legge, agli affaristi ed ai loro complici nei servizi segreti e nelle altre istituzioni. Leggi del genere non spuntano fuori dal nulla come improvvisi colpi di Stato, ma rappresentano l'espressione di un consolidato sistema di totalitarismo degli affari, che prende le sue contromisure contro eventuali incidenti di percorso. Insomma, nei suoi ultimi giorni di vita, il governo Prodi bis si è preoccupato di difendere le multinazionali da quella piaga costituita dai funzionari integerrimi, in modo da evitare che succeda di nuovo ciò che è accaduto alla povera Philip Morris, perseguitata per tutti gli anni '90 per trascurabili reati di contrabbando ed evasione fiscale miliardaria, e poi esposta al pubblico ludibrio in documenti ufficiali della Unione Europea e, in Italia, persino della Commissione Antimafia.
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