Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
L’uccisione dei sei parà italiani in Afghanistan ha riproposto dei temi di dibattito considerati particolarmente appassionanti, soprattutto la questione se la guerriglia afgana possa considerarsi resistenza, o sia valida l’etichetta ufficiale di terrorismo. Nel settembre del 1939, mentre le truppe tedesche invadevano la Polonia, la propaganda nazista definiva “terroristi” i partigiani polacchi, mentre il presidente della repubblica polacca era bollato come un “dittatore”. La rivista illustrata allora più diffusa in Italia, “Tempo Illustrato”, si adeguava a questo lessico, mostrando anche foto di mamme polacche che, con i loro figli, si mettevano spontaneamente sotto la protezione tedesca, e persino ufficiali delle SS che scrivevano alla mamma. Questi dettagli possono essere verificati in qualsiasi emeroteca.
Viene in mente la storiella Zen del maestro che brandisce un bastone sopra la testa di un suo allievo e gli grida: “Se lo chiami bastone, ti colpisco. Se non lo chiami bastone, ti colpisco. Allora, come lo chiami?”
In realtà la propaganda ufficiale tende sempre a considerare terrorismo ogni forma di opposizione, e viene considerato un dittatore ogni governante nemico, perché ogni potere individua la libertà nel fare i propri comodi.
Un quotidiano come “La Repubblica” è fatto passare per giornale di sinistra e di opposizione, eppure in questi giorni non solo ha difeso l’invasione NATO dell’Afghanistan, ma ha anche presentato la protesta dei precari della Scuola con toni che suggerivano la minaccia terroristica; perciò la Gelmini non era più un destinatario delle proteste, ma veniva presentata ogni volta come colei che riusciva a sfuggire agli agguati dei precari. È ovvio che l’equazione “protesta dei precari- minaccia terroristica” è suggerita dai media in modo subliminale, perché se fosse esposta in modo esplicito sarebbe respinta per la sua palese assurdità.
Coloro che si battono per il riconoscimento di uno status resistenziale ai guerriglieri afgani, dovrebbero inoltre tenere conto del fatto che la Resistenza italiana si trova, a sua volta, nella condizione di bersaglio della propaganda ufficiale, che cerca di avvilirla alla condizione di fenomeno di criminalità politica, o criminalità tout court. Anche in questo caso l’idea che la Resistenza abbia analogie col terrorismo non è proposta quasi mai in modo diretto, ma attraverso messaggi insinuanti, che aggirino le soglie del senso critico.
Le esigenze della propaganda comportano, peraltro, anche effetti paradossali e, probabilmente, controproducenti per il morale dei soldati inviati in queste “missioni di pace”. Il non voler riconoscere ai guerriglieri afgani lo status di combattenti, ha fatto sì che nei titoli dei palinsesti televisivi per la cerimonia del funerale dei parà non si usasse per loro il termine militare di “caduti”, ma dapprima di “soldati periti”; poi, constatato il ridicolo eccessivo del termine “periti”, si è ripiegato su quello generico di “morti”.
Per dei militari, per di più professionisti, uccisi con le armi in pugno, ciò significa vedersi negato, a propria volta, lo status di combattenti e il conseguente onore militare, per essere invece percepiti come una entità indistinta, “vittime della pace” esposte inermi e ignare agli attacchi di un male subdolo. L’effetto è risultato sconcertante anche per quella parte della pubblica opinione che non si è mai sognata di contestare la versione ufficiale sui motivi dell’invasione dell’Afghanistan, poiché la propaganda di questi giorni ha finito per seppellire assieme con i parà, anche la mitologia viriloide che da sempre avvolgeva la “Folgore”.
Le manifestazioni di cordoglio riservate ai parà uccisi, avrebbero infatti avuto un senso se si fosse trattato di ragazzine uccise mentre si recavano ad una festa di matrimonio; così come era accaduto a quella ragazza afgana di tredici anni che i militari italiani uccisero ai primi di maggio di quest’anno. In quel caso la giustificazione addotta dal governo italiano fu che la colpa era da attribuire al clima di guerra, invece stavolta la guerra non c’era più.
Paradossi analoghi furono creati dalla propaganda israeliana quando presentava i propri soldati come “rapiti” dagli Hezbollah, come se fossero ragazzine vittime di un bruto; mentre le ragazzine morte sotto i bombardamenti israeliani erano vittime di guerra.
Ciò indica che le esigenze della guerra psicologica prevalgono persino su quelle della guerra sul campo, dimostrando che per la NATO è prioritario dissimulare i veri motivi della occupazione dell’Afghanistan.
Una vittoria definitiva della NATO sulla guerriglia appare infatti irrealistica, mentre risulta significativo che la presenza USA tenda ad appropriarsi di aree circoscritte per disseminare il territorio con le solite basi militari. Anche la delegittimazione che i media del sedicente Occidente stanno operando nei confronti del presidente Karzai - di cui si è scoperto improvvisamente che è un misogino e un narco-trafficante -, va in questa direzione, a dimostrazione che gli USA non mirano più ad un Afghanistan ridotto a Stato satellite, quanto a una sua riduzione a territorio brado, esposto ai traffici ed ai saccheggi delle cosche affaristiche.
Il modello appare quello dell’attuale Congo, un Paese oggi saccheggiato direttamente dalle multinazionali, che non devono più neanche disturbarsi a prendere accordi con autorità-fantoccio. Anche in Iraq, dove il petrolio risulta ancora ufficialmente nazionalizzato, gli USA non premono per una privatizzazione - che neppure il governo collaborazionista potrebbe accettare -, ma si dedicano direttamente al saccheggio e al contrabbando del petrolio, e persino dell’acqua.
Tra gli obiettivi della invasione USA dell’Afghanistan, si è spesso messo in evidenza quello della costruzione di un gasdotto in grado di spiazzare l’egemonia russa nel settore orientale. Ma un accordo per questo gasdotto era già pronto nel 2001 con il governo talebano, eppure ciò non fermò l’invasione.
Sono tutti indizi che fanno ritenere che la gestione della produzione e del traffico di oppio non fosse un semplice affare collaterale, ma il principale obiettivo della occupazione NATO dell’Afghanistan.
L’arrivo del presidente venezuelano Hugo Chavez alla Mostra di Venezia, per la proiezione di un documentario in parte a lui dedicato, ha suscitato il consueto “disgusto” della stampa italiana, che si è domandata, con toni gravi, come mai la sinistra italiana possa prostrarsi davanti a questo “dittatore”. Non si capisce a quale “sinistra” ci si riferisca, dato che i due quotidiani ascritti generalmente a questa area politica, “La Repubblica” e “l’Unità”, sono tra i più inflessibili e sprezzanti nel denunciare i “crimini” del “dittatore”. Comunque la “sinistra” genericamente intesa è, per definizione e missione storica, sempre sotto accusa, perciò non è il caso di sottilizzare.
Nei confronti di Chavez la propaganda ufficiale ricorre a tutte le varianti dell’epiteto di “dittatore”, sebbene in Venezuela circoli oggi abbastanza denaro da reggere quella costosa impalcatura di pubbliche relazioni detta “democrazia”, in modo più credibile di quanto non avvenga nel sedicente Occidente. Ciononostante, l’attuale Arcivescovo di Caracas ha definito Chavez un “dittatore paranoico”, forse perché questi non si fida più dei preti da quando la Chiesa Cattolica appoggiò il tentativo di golpe militare contro di lui nel 2002. Un comportamento davvero irrazionale.
Chavez si sarebbe dimostrato inoltre un dittatore demagogo, poiché ha istituito in Venezuela una assistenza sanitaria pubblica, acquistando dal regime di Cuba le strutture e i servizi sanitari necessari. Il regime cubano, a sua volta, è giustamente oggetto della riprovazione internazionale, poiché approfitta cinicamente delle sanzioni economiche che gli Stati Uniti gli impongono da mezzo secolo, per circondare Cuba dell’alone eroico del piccolo Paese che resiste all’aggressione del gigante colonialista; come se gli Stati Uniti, nell’imporre le sanzioni a Cuba, non fossero stati mossi esclusivamente dal loro ingenuo e generoso intento di difendere i diritti umani.
Secondo l’opposizione, Chavez sarebbe poi un “dittatore sanguinario”, ciò non in base a delitti commessi, ma che starebbe per commettere; e, comunque, certe denunce non si basano su notizie dirette, ma sui rapporti di Organizzazioni Non Governative specializzate nella difesa di “diritti umani”, nel senso di diritti umani delle multinazionali.
L’espressione “diritti umani delle multinazionali” non va intesa come un paradosso scherzoso, ma riguarda proprio quel “diritto umano” che fa etichettare chi cerchi di limitarlo con l’epiteto di “dittatore comunista”: il diritto alla proprietà privata. Per comprendere bene il vero oggetto del contendere, è necessario anche sgombrare il campo dallo slogan del “socialismo bolivariano”, che rappresenta una contromossa propagandistica piuttosto ingenua di Chavez e dei suoi sostenitori, pericolosamente inclini a ricadere nelle sabbie mobili della retorica, in cui troppo spesso in passato sono annegati i movimenti di resistenza popolare.
Chavez ha effettivamente commesso un grave crimine contro l’Umanità, quando ha costretto le multinazionali a rinegoziare tutti i contratti per lo sfruttamento del petrolio del bacino del fiume Orinoco, esigendo la formazione di società miste in cui l’ente petrolifero pubblico venezuelano detenesse la maggioranza azionaria. La più importante multinazionale del petrolio, l’americana Exxon, non ha voluto sottostare a questa pretesa contro natura, per la quale i Venezuelani comanderebbero nientemeno che in Venezuela, e ha citato l’ente petrolifero venezuelano in giudizio, ottenendo il congelamento dei suoi beni su scala planetaria. Ma Chavez ha riportato lo scorso anno contro la Exxon una prima vittoria giudiziaria, cosa che ha rafforzato la campagna propagandistica mondiale che lo dipinge come una minaccia.
Oggi tutti i Paesi che chiedono alle multinazionali di rivedere le loro concessioni nel senso della formazione di società miste, con la maggioranza azionaria nelle mani del Paese ospitante, finiscono immancabilmente nel mirino delle ONG per i “diritti umani”, perché è il diritto di proprietà delle multinazionali a non dover subire alcun tipo di limitazione. Ad essere inseriti nella lista nera per questo motivo, sono stati Paesi come lo Zimbabwe, il Sudan e, recentemente, l’Eritrea. Quindi è considerato “dittatore comunista” (o, nel caso del Sudan, “terrorista islamico”), non solo chi abolisca la proprietà privata, bensì anche chi cerchi semplicemente di regolarla. Chavez ha infatti offerto alle multinazionali ricchi risarcimenti per essersi ripreso solo risorse venezuelane.
Quindi, se sfrondiamo il programma di Chavez dai diaframmi retorici e propagandistici - i pochi a favore e i moltissimi contro -, notiamo che esso si riduce alla rivendicazione di un po’ di sovranità nazionale e di qualche garanzia sociale, ed è solo nell’ottica del dominio coloniale delle multinazionali anglo-americane che queste istanze modeste, e persino ovvie, possono apparire mostruose e sovversive.
La multinazionale cinese Petrochina ha invece favorito questa piccola svolta in Venezuela, ed anche l’ENI ha pensato bene di accettare le nuove condizioni, estorcendo alla controparte venezuelana un risarcimento maggiore e persino nuovi contratti, che sono stati formalizzati a Caracas nel marzo dello scorso anno, con la presenza dell’allora ministro degli Esteri D’Alema. Ciò conferma che l’ENI fa i suoi affari con qualsiasi governo in carica in Italia, e che il presunto flirt di Berlusconi con Putin non c’entra nulla con gli ultimi accordi ENI-Gazprom per il gasdotto South Stream; ma conferma anche che i rischi di privatizzazione dell’ENI si fanno sempre più seri. Occorrerà perciò stare attenti alle scelte di un eventuale e prossimo governo Fini, e non perché Berlusconi non sarebbe personalmente disposto a privatizzare l’ENI, ma solo perché è mentalmente incapace di reggere lo stress di una tale impresa.
Tra le critiche “da sinistra” piovute su Chavez, c’è quella che lo accusa di continuare a vendere petrolio al nemico americano; ma le forniture agli Stati Uniti non sono mai state messe in discussione da Chavez. In realtà, il problema non è mai stato la fornitura del petrolio venezuelano agli USA, ma il possesso esclusivo che la Exxon poteva vantare sui giacimenti venezuelani sino a pochi anni fa, tanto che era in effetti la Exxon a rivendere il petrolio ai Venezuelani sotto forma di derivati.
La Exxon è arrivata in Venezuela negli anni ’40, con i finanziamenti del governo statunitense e del Fondo Monetario Internazionale (una banca privata che usa però, tanto per cambiare, solo fondi pubblici), ottenendo inoltre dal Venezuela una totale esenzione fiscale, oltre alla fornitura gratuita di infrastrutture. Quindi la Exxon poteva sfruttare a piacimento il Venezuela senza investire un soldo di tasca propria: queste sono le condizioni che le multinazionali chiamano “proprietà privata” e “libero mercato”, cioè un socialismo per i ricchi. Alla Exxon sono stati perciò offerti risarcimenti ingenti per proprietà che aveva incamerato, a suo tempo, praticamente gratis; ma ciononostante la Exxon trova di che lamentarsi e gridare al sopruso.
Quando si tratta di multinazionali, il concetto di economia è fuori luogo, perché le Corporation non sono soggetti economici, in quanto mancano di qualsiasi senso della reciprocità. Le multinazionali sono esclusivamente soggetti affaristico-criminali.
Per capire sino a che punto arrivino l’avarizia e il razzismo della Exxon, vale l’esempio del tentativo di golpe contro Chavez del 2002. Il golpe militare organizzato dalla Exxon fallì per l’atteggiamento degli ufficiali intermedi dell’esercito che rimasero fedeli a Chavez. In quella circostanza furono i soldi l’elemento determinante, poiché gli amici di Chavez riuscirono a risvegliare negli ufficiali venezuelani il patriottismo ed il senso dell’onore grazie a significative elargizioni di denaro; elargizioni che risultarono molto superiori a quelle distribuite dalla Exxon, che si atteneva rigidamente al misero tariffario in vigore in America Latina, nella quale le multinazionali avevano sempre potuto organizzare i loro golpe con budget ridottissimi.
Il golpe del 2002 poteva considerarsi già riuscito, poiché Chavez era anche stato fatto prigioniero dei generali ribelli, ma alla fine si sgonfiò tutto per l’incapacità della Exxon di allargare i cordoni della borsa un po’ di più rispetto a quanto aveva preventivato. Se il funzionario della Exxon incaricato di organizzare il golpe, avesse agito di sua iniziativa e aumentato il peso delle mazzette agli ufficiali, sarebbe stato poi chiamato a risponderne davanti al Consiglio di Amministrazione, che gli avrebbe chiesto conto di un tale spreco. Neppure il fatto di esibire un successo avrebbe potuto salvare il funzionario, poiché non sarebbe mai riuscito a dimostrare che, con una spesa minore, il golpe non sarebbe andato a segno ugualmente.
Negli anni ’60 e ’70 vi è stata una offensiva propagandistica tendente a convincere i lavoratori che proprietà privata e proprietà pubblica costituiscano situazioni di oppressione del tutto analoghe per il lavoro. Furono anche diffuse tutta una serie di teorie socio-economiche sull’avvento di “nuove classi” che avrebbero gestito a loro vantaggio l’economia pubblica: la “tecnoburocrazia”, la “rivoluzione dei manager”, la “razza padrona”, ecc. Persino alcune tesi di Bakunin furono distorte e travisate per fargli profetizzare l’avvento di queste presunte nuove classi.
In realtà Bakunin aveva detto che ogni situazione di privilegio parziale tende a cercare di diventare assoluto, quindi un socialismo autoritario è una contraddizione in termini, perché pone le condizioni per un ritorno alla proprietà privata; esattamente ciò che è successo in Unione Sovietica, dove proprio lo Stato ha reimposto la privatizzazione.
Ma, se è vero che la proprietà pubblica in sé non è socialismo, e non evita neppure il consolidarsi di ceti privilegiati, ciò non vuol dire che per il lavoratore sia la stessa cosa di un sistema a gestione privata, che diventa inevitabilmente il socialismo per ricchi, ad uso delle multinazionali. La proprietà pubblica costituisce comunque una minima garanzia, poiché vincola l’impresa al territorio, aumenta il potere contrattuale del lavoro, e non lo espone al rischio di dislocazione degli impianti. Invece la gestione privata obbliga il lavoratore a pagare il costo della privatizzazione attraverso le tasse, e lo costringe a ricomprare dalle multinazionali le risorse che aveva già in loco; e non solo il petrolio o il gas, ma anche l’acqua.
È chiaro però che il socialismo per i poveri può realizzarsi davvero non solo quando cessino le privatizzazioni, ma si elimini anche il soggetto in grado di privatizzare, cioè lo Stato.
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