Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Mentre i “suicidi” delle persone sono troppo spesso la conclusione di indagini non svolte, i suicidi politici costituiscono un dato costante della Storia. Una discreta parte della classe dirigente della cosiddetta “Prima Repubblica” (i Cagliari, i Gardini, i Mensorio, i Bisaglia) fu “suicidata”, o “incidentata”, per favorire il passaggio di consegne, dato che le inchieste giudiziarie sembravano non bastare. Sta di fatto che quei “suicidi” di persone furono preceduti da un vero suicidio politico del regime di allora.
A partire dalla fine degli anni ’70 la Democrazia Cristiana, il mitico "Partito-Stato” dei documenti delle BR, compì una serie di scelte che avrebbero ben presto posto fine al suo regime: l’adesione al Sistema Monetario Europeo, l’affidamento della politica economica ad un mistico-liberista invasato come Beniamino Andreatta, la delega ai negoziati per il Trattato di Maastricht ad un lobbista della finanza sovranazionale come Guido Carli. Tra le scelte che contribuirono a tagliare il ramo su cui il regime era appollaiato, vi fu anche quella di umiliare a tutti i costi quello che costituiva uno dei principali puntelli sociali del regime stesso, cioè i sindacati.
Umiliare i sindacati è diventato da allora uno dei passaggi obbligati di chiunque detenesse il potere o vi aspirasse. A questo rituale non si è sottratto neppure il candidato “premier” dei 5 Stelle, Luigi Di Maio. L’ultimatum lanciato ai sindacati (o vi autoriformate o vi riformeremo noi) rappresenta l’ennesima manifestazione di arroganza verso l’anello più debole dell’establishment. Tale manifestazione di arroganza è stata accompagnata però dalla consueta manifestazione di sudditanza e piaggeria nei confronti del presunto anello “forte” dell’establishment, cioè l’imprenditoria. Di Maio ha infatti individuato come priorità la diminuzione del costo del lavoro come condizione per rilanciare l’occupazione, cosa che lo ha fatto immediatamente accomunare a Renzi da molti commentatori.
A parte la solita inversione del rapporto causa-effetto (non è vero infatti che ci sia disoccupazione perché il costo del lavoro è alto ma, al contrario, si è creata disoccupazione per abbassare il costo del lavoro), c’è da considerare che Luigi Di Maio si è esposto più di ogni altro esponente dei 5 Stelle a favore del microcredito, da lui presentato come la panacea dei mali della piccola impresa. Il denaro sottratto alla voracità della politica viene destinato dai 5 Stelle al “soccorso” verso le imprese, sebbene ormai il microcredito si sia dimostrato uno strumento inadatto allo sviluppo ed adattissimo invece a creare spirali di sovra-indebitamento.
Il fatto di voler colpire ancora il salario per celebrare il microcredito rischia perciò di far apparire Di Maio e i 5 Stelle come lobbisti della micro-finanziarizzazione sociale, cioè della progressiva sostituzione dei salari con i prestiti. Ma davvero Di Maio crede di ottenere seguito e di suscitare entusiasmo con le bandiere della diminuzione del costo del lavoro e del microcredito? E, ammesso che riesca a vincere le elezioni, quanto tempo pensa di durare al governo? Oppure Di Maio già pensa a ben altro, magari a “salvezze” personali?
Anche Renzi si è suicidato politicamente quando è apparso come un lobbista e Di Maio sembra condannarsi allo stesso esito. Il lobbismo però non ha neppure pagato Renzi, il quale, invece che una carriera in una multinazionale, si è visto costretto a proseguire la sua malinconica avventura nel PD.
Il lobbismo del microcredito sta invadendo peraltro anche i sindacati, almeno a livello locale. La CGIL di Parma ha infatti lanciato, con tutta la retorica umanitaria del caso, un proprio sportello di microcredito. A quanto pare il suicidio politico è una vocazione che acquista sempre più proseliti.
Si tratta di un fenomeno sociale interessante: un opportunismo talmente acritico da smarrire persino il senso del proprio tornaconto personale. Il politico-lobbismo è un tipico fenomeno coloniale, riguarda cioè soprattutto quei Paesi nei quali i poteri interni siano stati del tutto scavalcati e soppiantati dall’ingerenza delle lobby sovranazionali. L’inconveniente per i lobbisti locali è che il loro opportunismo ed il loro zelo servile tendono a far calare sempre più anche il loro potere contrattuale, cioè si diventa sempre più facilmente sostituibili con altri lobbisti con sempre minori pretese. Si perisce così per eccesso di servilismo.
Le ultime elezioni tedesche hanno riconfermato il tracollo del quadro politico tradizionale in Europa. È l’esito scontato della “politica unica” imposta dal Trattato di Maastricht, che delegittima preventivamente ogni mediazione sociale in nome della “libera concorrenza” e della “stabilità dei prezzi”, cioè privatizzazioni da un lato e deflazione, disoccupazione e pauperismo dall’altro.
In Francia la dissoluzione di un Partito Socialista percepito come nemico del lavoro, ha addirittura anticipato la scadenza elettorale, consentendo all’oligarchia bancaria francese di confezionare un candidato come Macron, al quale probabilmente è stata aperta la strada anche intimidendo e ricattando la principale avversaria, Marine Le Pen, costretta con qualche scheletro nell’armadio ad annacquare il suo messaggio antieuropeista a ridosso delle elezioni.
L’Europa che faceva la voce grossa e assumeva toni sprezzanti nei confronti del transfuga Regno Unito sembra ritornare a tremare di fronte al pericolo dei “populismi”. D’altra parte bisogna domandarsi se questi “populismi” non costituiscano il terreno principale di una manipolazione di consensi e dissensi forse non gestita direttamente dall’oligarchia UE ma dall’azione di forze esterne. L’Eurocrazia ha creato in Europa un laboratorio social-lobbistico-finanziario che può rappresentare un terreno di sperimentazione anche per altri soggetti gestori di obiettivi del tutto propri.
In Spagna il conflitto tra potere centrale e Catalogna ha assunto toni drammatici che hanno suscitato nei soliti commentatori le rituali litanie razzistiche. Si è fatto finta di chiedersi, ad esempio, perché Madrid non abbia consentito in Catalogna un referendum analogo a quello svoltosi in Scozia. La domanda era finta poiché la risposta era implicita nella domanda stessa e riguardava il luogo comune razzistico del diverso grado di civiltà politica tra Spagna e Regno Unito. Tutto ciò avviene anche in base alla mistificazione storiografica che fa passare il conflitto del 1936-1939 come “Guerra Civile Spagnola”, come se Mussolini non avesse “inventato” Francisco Franco finanziandolo con quaranta miliardi di lire dell’epoca, appoggiandolo con la sua flotta e con le sue truppe; le stesse truppe che costrinsero la Repubblica Spagnola a svenarsi in quella grande Vittoria di Pirro che fu la battaglia di Guadalajara. Gli Spagnoli sanno che la loro “guerra civile” non fu esclusivamente un affare interno, ma altrove si fa finta di dimenticarselo.
La Lega Nord ha infatti risposto prontamente al “richiamo della foresta” del secessionismo, schierandosi acriticamente con le “istanze” della Catalogna. Magari si spera persino che l’esempio dia man forte alle istanze simili da parte del Lombardo-Veneto. Matteo Salvini sembra non essersi neppure reso conto della contraddizione di questa posizione con le rivendicazioni “sovraniste” agitate sino a poco tempo fa.
La manipolazione passa proprio per i “richiami della foresta” e l’antidoto alla manipolazione consiste nel non rinunciare ad analizzare caso per caso. Se la simpatia va istintivamente all’indipendentismo catalano, va anche riconosciuto che dall’altra parte non vi è solo centralismo o autoritarismo, ma anche la preoccupazione di trovarsi nuovamente nel pieno di un processo di destabilizzazione manovrato dall’esterno.
Al presidente della Regione Catalana, Carles Puigdemont, è stato, ad esempio, chiesto più volte di dar conto dei finanziamenti ricevuti da una ONG americana, Independent Diplomat; una ONG che può vantare un curriculum di tutto rispetto. Si tratta infatti della stessa ONG al centro di altre secessioni, come quella del Sudan del Sud.
Nell’epoca della trasparenza invece Independent Diplomat ci dà volentieri conto sul proprio sito dei supporti finanziari ricevuti. Si viene così a sapere che tra i finanziatori di Independent Diplomat ci sono non solo governi minori come quello svizzero, norvegese e finlandese, ma anche quello britannico (destabilizzare la Spagna per tenersi Gibilterra?). Vi sono inoltre fondazioni private come quella dei fratelli Rockefeller e della Open Society di George Soros (e poteva mai mancare?).
Nella vicenda catalana Matteo Salvini si viene così a trovare dalla stessa parte delle sue bestie nere, il finanziere americano ungherese Soros e le sue ONG.
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