Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
L’anniversario del ’68 sta trascorrendo senza un particolare pathos. Sino ad una decina di anni fa quello del ’68 era ancora un richiamo fortemente divisivo, utilizzato soprattutto dalla destra in funzione negativa. La narrazione della destra sul ’68 si è centrata sulla visione di un mondo indirizzato verso un progresso ordinato ma improvvisamente e improvvidamente turbato da confuse e velleitarie istanze ugualitarie.
Le dichiarazioni dei prestanome risultano interessanti proprio perché non sono filtrate da sensibilità personali o da retroterra culturali, bensì esprimono direttamente la propaganda ufficiale. La ministra che ha prestato il suo nome alla riforma della Scuola attuata dal 2008 al 2010, Maria Stella Gelmini, ha cercato spesso di accreditare la nuova normativa in senso “meritocratico” contrapponendola all’immagine della Scuola “buonista” propugnata dal’68.
Su di un aspetto il ’68 è stato sicuramente “buonista”, cioè nella sua concezione del capitalismo, visto esclusivamente nel suo lato efficientistico, industrialistico, “sviluppistico” e consumistico. Il capitalismo però non è soltanto quello, anzi, lo è in minima parte.
In definitiva il cosiddetto ’68 ebbe una percezione di sé del tutto speculare a quella della destra, cioè come un movimento teso a recuperare una pienezza esistenziale e “creativa” in alternativa ad una gestione puramente ragionieristica dell’esistente. Il termine “meritocrazia” fu infatti inventato e lanciato proprio durante gli anni ’60 in senso deteriore, offrendo indirettamente uno slogan alla destra ed accreditando un qualcosa che non era poi molto preciso. Il “merito” è un concetto molto relativo e può essere declinato anche in senso criminale. Un lato del capitalismo che i movimenti anti-establishment degli anni ‘60 non hanno mai chiaramente individuato è infatti quello strettamente criminale (“criminale” in senso tecnico-giuridico, non soltanto morale), come nel caso dell’aggiotaggio sociale.
L’aggiotaggio è quel reato che consiste nel diffondere notizie destabilizzanti per far cadere il prezzo di un titolo o di una merce. È un reato per modo di dire poiché rappresentava la prassi comune sui cosiddetti “Mercati”. Se fosse considerato effettivamente reato, Mario Draghi dovrebbe essere incriminato per le notizie allarmistiche che diffonde sulle banche italiane, secondo lui troppo piene di titoli di Stato italiani. Tra i compiti di un banchiere centrale ci sarebbe quello di agire per tutelare tutte le banche e non di annunciare al mondo che non ne coprirà alcune, ma questo accade solo nel capitalismo ideale dove non esiste il cannibalismo bancario.
Dato che gli “investitori istituzionali” se ne fregano delle valutazioni di solvibilità e si limitano a seguire i movimenti di capitali, il vero aggiotaggio da parte di Draghi non sta neppure nell’allarmismo in quanto tale, bensì nel suo messaggio sotteso, cioè che non coprirà il debito pubblico italiano con acquisti da parte della BCE. Quando colpisce intere economie l’aggiotaggio diventa sociale, un’operazione deflazionistica in grande stile. Il bello del potere è che offre ai suoi sacerdoti una condizione di totale extralegalità, per la quale si può simultaneamente “vigilare” e delinquere, minacciare e fare le vittime, “difendere l’ordine” e destabilizzare. A scanso di equivoci, Draghi si giova anche della totale immunità giudiziaria che è privilegio dei superburocrati europei.
Si potrebbe spiegare estemporaneamente il comportamento criminale di Draghi con la sua spiccata antipatia per Salvini e Di Maio, oppure con la sua infanzia difficile; sta di fatto però che Draghi ha dei precedenti riferibili anche all’epoca in cui era governatore della Banca d’Italia. Nel 2010 Draghi bruciò in un’intervista al “Financial Times” la proposta degli eurobond portata avanti dal ministro dell’Economia Tremonti. Al di là dell’inconsistenza della proposta, le dichiarazioni di Draghi erano destabilizzanti per il loro messaggio latente, cioè che Tremonti andava a trattare a Bruxelles da isolato, senza avere alle spalle la Banca d’Italia. Considerando quello che è accaduto allo spread l’anno dopo, si può dire che Draghi abbia ben meritato presso i suoi mandanti.
A proposito di “meritocrazia”, in un’altra delle sue sortite mediatiche, la Gelmini ha polemizzato con Renzi, rivendicando il merito della priorità del proprio governo nell’attuare l’alternanza Scuola-lavoro. La riforma Gelmini può essere perciò considerata la prima tappa della trasformazione della Scuola in laboratorio di aggiotaggio sociale.
L’alternanza Scuola-lavoro scredita infatti simultaneamente la Scuola ed il lavoro. La Scuola viene delegittimata e umiliata con l’esplicita affermazione secondo cui essa non sarebbe in grado di fornire una formazione per il lavoro. A sua volta il valore del lavoro viene avvilito e umiliato nei confronti dell’impresa, al punto che il lavorare gratis diventa uno stato di grazia poiché consentirebbe al lavoratore di “formarsi”. Il pretendere di essere pagati diventa quindi un atto di ingratitudine ed irriconoscenza, ciò in base ai canoni classici del vittimismo padronale, assunto come visione assoluta del mondo. Si tratta di una drastica operazione di abbattimento del costo del lavoro, di deflazione salariale.
Il razzismo è una visione del mondo totalizzante e può diventare segregazionismo razziale, apartheid, persino tra gli argomenti. Con questo paraocchi può sfuggire l’evidenza di costanti e invarianze tra temi “alti” come la finanza globale e temi “bassissimi” come l’alternanza Scuola-lavoro, accomunati invece dal deflazionismo, dall’assistenzialismo per ricchi e dall’aggiotaggio sociale. Il messaggio sociale latente dell’alternanza Scuola-lavoro è che né la Scuola né il lavoro costituiscono degli interlocutori per il governo e che solo l’impresa lo è. La Scuola, pur così avvilita, non perde perciò la funzione sociale, in quanto viene arruolata alla sacra missione della deflazione salariale.
Infuria la polemica sulle dichiarazioni del neopresidente della RAI, Vittorio Foa, ad un quotidiano israeliano circa i rapporti tra il PD ed il finanziere George Soros. Non è chiaro se Foa abbia effettivamente parlato di “finanziamenti” di Soros al PD, in quanto i virgolettati dei giornali lasciano il tempo che trovano. Quel che è certo è che il documento interno della Open Society Foundation di Soros esibito da Foa non appare molto significativo. Il documento parla infatti di “alleati affidabili” all’interno dell’attuale parlamento europeo, il che può indicare anche soggetti dimostratisi particolarmente manipolabili.
Il punto vero è che, al di là di ciò che Foa abbia dichiarato o meno, la questione dei finanziamenti del PD si presenta in parte come fuori tempo ed in parte fuorviante. Dal 2014 e sino all’anno scorso infatti Soros appariva come il maggiore investitore, con una quota di poco superiore al 5%, nella IGD, una delle principali società della Lega delle Cooperative. L’uscita di Soros ha portato alla defezione anche di altri investitori americani, come Morgan Stanley.
Dati i rapporti organici tra PD e lega delle Cooperative, si può dire che il feeling finanziario tra PD e Soros sia ormai tramontato, probabilmente perché è venuta a cadere di fatto la principale motivazione: frenare i rapporti di un partito di governo italiano con la Russia. L’anno scorso il PD era già un partito “cotto” sul piano elettorale, perciò non aveva più senso cercare di condizionarne la politica estera.
In tema di finanziamento ai partiti, sarebbe poi interessante sapere come stanno effettivamente le cose a venticinque anni dalla cosiddetta “Tangentopoli”, dato che continuano gli strani “suicidi” dei personaggi coinvolti; “suicidi” tutti avallati dai solerti magistrati. L’ultima vittima della serie è Bruno Binasco, “suicidato” poco più di tre mesi fa.
Non si può negare che esistano i venduti e neppure che ci siano quelli che, come diceva Victor Hugo, pagherebbero pur di vendersi; ma applicare la categoria del vendersi ad intere aree politiche non ha molto senso. La questione dei rapporti finanziari tra PD e Soros rischia dunque di essere fuorviante se si considera che non si può certo ipotizzare un legame tra Soros ed il PCI di Enrico Berlinguer nel 1976. Eppure in quel periodo Berlinguer adottava in pieno le posizioni deflazionistiche imposte dall’establishment finanziario, arrivando a santificare la cosiddetta “austerità”. I pentimenti di Berlinguer arrivarono tardi ed in modo confuso: il suo PCI si oppose a manovre deflazionistiche come il Sistema Monetario Europeo ed il taglio della scala mobile sui salari, ma si arrese senza condizioni davanti alla ambigua icona pseudo-moralistica di Carlo Azeglio Ciampi quando si celebrò quel “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia che portava alla definitiva consegna dell’Italia nelle grinfie degli “investitori istituzionali”. Berlinguer assistette quindi del tutto inerte alla totale deindustrializzazione del Sud ed alla sterilizzazione di suoi tradizionali serbatoi elettorali come Castellamare di Stabia, dove la scomparsa di una storica classe operaia comportò la consegna del feudo elettorale alla DC di Gava.
In quest’ultimo decennio si è diffusa la locuzione di “pensiero unico”, un concetto che ha anche qualche fondamento, ma che rischia anch’esso di portare fuori strada. La realtà è che il lobbying ha aggredito la politica utilizzando l’arma delle pubbliche relazioni, utilizzando perciò parole d’ordine e valori della stessa politica. Si può dire che il lobbying ha sconfitto la politica e che le pubbliche relazioni hanno sconfitto le ideologie. Il risultato non è stato un semplice “pensiero unico” ma una colonizzazione ideologica, cioè l’occupazione di uno spazio politico con lo sfruttamento e la riconversione delle risorse ideologiche e valoriali trovate in loco.
Negli anni ’70 la lobby della deflazione, cioè la lobby degli “investitori istituzionali”, attuava il suo capolavoro. Nel 1971 il presidente USA Nixon aveva messo fine al sistema di Bretton Woods, il sistema deflazionistico “soft” che aveva imperato sino ad allora: tutte le monete del “Mondo Libero” agganciate al dollaro e questo, a sua volta, convertibile in oro. A causa della fine del sistema, i prezzi del materie prime aumentarono, tutte le monete si trovarono sotto attacchi speculativi da parte degli “investitori istituzionali”; attacchi ai quali le banche centrali opponevano la solita reazione demenziale: sperperare le proprie riserve valutarie per sostenere la moneta nazionale. La lobby della deflazione, con una massiccia campagna mediatica, riuscì ad imputare questo caos a presunte politiche keynesiane dei governi: Keynes venne criminalizzato e bollato come “superato”. Si ponevano così le basi per un sistema deflazionistico “hard”.
Capolavoro nel capolavoro: la lobby della deflazione riuscì ad annettersi anche la sinistra. Nel 1976 Berlinguer non aveva fatto altro che manifestare la dipendenza della sinistra nei confronti delle pubbliche relazioni, le quali dissimulavano la manovra deflazionistica e gli interessi finanziari che le stavano dietro sotto il paravento neutro e “oggettivo” della “crisi”; inoltre strumentalizzavano il moralismo tradizionale della sinistra per offrire uno slogan denso sul piano valoriale come “austerità”.
La vera “crisi” era stata però quella di venti anni prima, la crisi dello stalinismo nel 1956. La sinistra post-stalinista (compresa la cosiddetta “Nuova Sinistra” del ’68) era impegnata ad esorcizzare il pericolo di un nuovo dogmatismo interno. La sinistra diventava quindi la preda perfetta per un dogmatismo imposto dall’esterno; un dogmatismo coloniale che sfruttasse sia la nostalgia della sinistra per il suo dogmatismo passato, sia il senso di colpa della stessa sinistra per gli esiti di quel suo dogmatismo. Di conseguenza anche il dibattito interno alla sinistra diventava una finzione. Qualunque linea venisse elaborata avrebbe dovuto infatti essere portata avanti e quindi rischiare di diventare un nuovo “dogma”, una nuova “verità in tasca”. Era quindi meno rischioso adattarsi alla corrente dei media mainstream già manipolati dalle pubbliche relazioni: dallo stalinismo all’eterostalinismo.
Il paradosso storico è che la sinistra si trova politicamente fuori gioco proprio in una fase storica nella quale sarebbe molto più facile pescare nel serbatoio elettorale di un ceto medio sotto il tiro dei grandi “investitori”. Se oggi l’Italia ha uno spread più alto di quello del Portogallo, è perché in Italia c’è un ceto medio proprietario molto più esteso, che si potrebbe spremere con le “piccole patrimoniali” sulla casa, così come raccomandano la UE ed il Fondo Monetario Internazionale. Ma proprio in questo periodo un PD ideologicamente colonizzato e colpevolizzato si schiera invece con i poveri “investitori istituzionali” che ci affidano i loro soldi e quindi vanno tutelati. All’assistenzialismo per ricchi voluto dal governo Conte, si contrappone l’assistenzialismo per soli ricchissimi predicato dal PD.
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