Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Obama ha sostituito Bush alla presidenza degli Stati Uniti, ma il suo consulente di politica estera continua a rimanere quello di prima, lo stesso che scrive anche le trame dei film di Chuck Norris.
Il capitano della nave mercantile americana rapito dai pirati somali, che pretendevano un riscatto, è stato infatti liberato da un eroico blitz degli uomini della U.S.Navy. Non poteva esserci altra soluzione alla vicenda, dato che la morale di tutto il film era appunto di sottolineare l’insostituibilità del ruolo di polizia svolto dalle forze armate statunitensi nel mondo, e, in questo specifico caso, nell’Oceano Indiano.
La Marina statunitense è presente in modo massiccio in quell’area poiché vi è impegnata da anni per compiere missioni aeree contro la Somalia, che, in base alle truci fiabe della propaganda ufficiale, rischia di cadere nelle mani di feroci e oscurantisti integralisti islamici, che preferiscono lapidare adultere invece di aprirsi allo sviluppo concedendo alle multinazionali lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi somali. I commentatori ufficiali ci spiegano che “nonostante” la presenza in forze della U.S.Navy, l’aggressività dei pirati somali ormai non conosce limiti.
Questa magica preposizione -“nonostante”- è stata largamente sperimentata dalla propaganda ufficiale, in modo da evitare spiegazioni circa la sospetta presenza di forze armate americane in prossimità di zone dove si commettono crimini. Ad esempio: dal 2002 l’Afghanistan è diventato il primo produttore mondiale di oppio, “nonostante” l’occupazione da parte della NATO; e ancora: la principale via dell’oppio è costituita dagli staterelli Balcanici, e ciò avviene “nonostante” il fatto che i Balcani siano disseminati di basi militari americane e NATO.
La fiaba ufficiale ha sempre pronta un’altra morale per dare senso al tutto: l’illegalità viene sempre presentata come l’arma dei poveri, i quali non esiterebbero a ricorrere al terrorismo, al narco-traffico e alla pirateria pur di opporsi alla civiltà “occidentale”. Alcuni commentatori, che si sentono particolarmente spregiudicati, arrivano ad usare questo luogo comune persino per rivolgere una benevola critica agli Stati Uniti, la cui eccessiva presenza militare nel mondo finirebbe proprio per alimentare quei fenomeni che si vorrebbero contrastare; insomma, è la vecchia storiella secondo cui gli Americani spesso combinano guai per eccesso di buone intenzioni.
Sta di fatto che, dopo centocinquanta anni, l’Oceano Indiano ritorna ad essere l’epicentro della pirateria. Sembrerebbe quasi di stare in un romanzo di Emilio Salgari, con il Raja bianco di Sarawak, James Brooke, che dà la caccia ai pirati della Malesia comandati da Sandokan. A differenza di Brooke, Sandokan era un personaggio di pura invenzione, e Salgari aveva ricavato persino il suo nome deformando quello di una località geografica. Se da una parte è da apprezzare il tentativo di Salgari di identificarsi con l’oppresso che si ribella, dall’altra parte anche nel suo caso particolare si può riscontrare quella generale dipendenza della letteratura “popolare” e di intrattenimento dagli schemi della propaganda ufficiale.
Vari storici hanno tentato di riabilitare Brooke e di liberarlo dall’alone famigerato creatogli dai romanzi salgariani; ma in realtà Salgari, se aveva torto, lo aveva per difetto, poiché considerava Brooke un criminale, e non per quello che realmente era, cioè un super-criminale.
James Brooke era, ufficialmente, un ex-dipendente della Compagnia Britannica delle Indie Orientali e, sempre ufficialmente, non aveva alcun incarico da parte della Gran Bretagna. Come “privato cittadino”, Brooke assunse il suo enorme potere personale offrendo i suoi servigi ai signori locali per sedare ribellioni e combattere la pirateria. Per qualche strana coincidenza, dovunque Brooke arrivasse i mari venivano misteriosamente infestati dai pirati, perciò tutti gli scambi commerciali erano minacciati. Ma, da vero uomo della provvidenza, Brooke aveva la soluzione al problema: arruolava milizie ed equipaggi e dava la caccia ai pirati, e tutto questo in cambio di qualche semplice favore, come la concessione di monopoli sia per il commercio che per lo sfruttamento agricolo del territorio di interi Stati. Per molti regnanti asiatici c’era poco da scegliere, poiché, in nome della lotta alla pirateria, Brooke si consentiva ogni genere di ingerenza e di aggressione nei confronti di chi non accettasse la sua altruistica protezione.
A volte Brooke non chiedeva niente per sé, ma, da vero patriota, si accontentava di mediare con i sultani locali la concessione di basi navali e di colonie per la Gran Bretagna, o di vantaggiosi contratti per la Compagnia delle Indie.
All’epoca alcuni - forse i soliti seguaci di teorie cospirazionistiche - sospettarono che in realtà Brooke incamerasse profitti da due lati, sia con la pirateria, sia con il pretesto di combattere la pirateria; anzi, secondo i sospettosi, Brooke aveva potuto disporre dei capitali iniziali per avviare la sua attività di cacciatore di pirati, proprio grazie alla pirateria da lui praticata.
Anche nella ingrata patria, Brooke fu oggetto di una indagine, da cui uscì ovviamente scagionato, “nonostante” le prove raccolte contro di lui.
Brooke fu particolarmente abile nel gestire questo intreccio - riscontrabile in ogni fase del capitalismo - tra illegalità sostanziale e legalità ufficiale, e a combinare la sua attività di affarista criminale con la facciata di “uomo d’ordine”; Brooke però non aveva inventato nulla.
La Compagnia delle Indie si regolava così già da due secoli, quando aveva suscitato le invidie e l’emulazione delle colonie inglesi nel Nord-America. Quando quelle colonie divennero indipendenti nel 1776, adottando il nome di Stati Uniti d’America, si scelsero una bandiera che imitava sfacciatamente quella della Compagnia delle Indie, a strisce rosse orizzontali, però con le stelle al posto della Union Jack britannica. Gli allievi americani divennero più bravi del maestro britannico, tanto da condannare la Compagnia al declino, e da costringere la Gran Bretagna a difendere le proprie posizioni formalizzando la loro presenza imperiale in Asia.
Agli inizi del ‘900, nel pieno dell’offensiva imperiale del presidente statunitense Theodore Roosevelt, lo scrittore americano Mark Twain suggerì al proprio governo di sostituire le stelle della bandiera con dei teschietti da pirata, in quanto ciò avrebbe conferito agli USA un’immagine più consona alla loro realtà.
Ciò che il G-20 di Londra ha omesso per pudore, è stato invece solennemente, e sfacciatamente, sancito dal vertice NATO di Strasburgo. Se non fossero stati distratti dalle gaffe (o dalle gag?) di Berlusconi, persino i giornalisti si sarebbero accorti che, finalmente, la linea di politica estera e di politica economica del neopresidente statunitense Obama si è chiarita e ufficializzata: sarà l’oppio afgano a farci uscire dalla crisi economica.
Il vertice del 4 aprile ultimo scorso - sessantesimo anniversario della fondazione della NATO - ha infatti stabilito di rafforzare la presenza in Afghanistan sia in termini di truppe che di mezzi. Inoltre, altri due staterelli fantoccio, Croazia e Albania, sono stati ammessi formalmente nella NATO, mentre Macedonia e Montenegro ne fanno già parte in via ufficiosa, attraverso l’espediente giuridico delle procedure di ammissione. A ciò si aggiunga il che il neonato Kosovo - il primo Stato al mondo creato ex novo dalla NATO - costituisce da anni un territorio statunitense d’oltremare, dato che ospita Camp Bondsteel, la più grande base militare USA del mondo.
Camp Bondsteel non è una “cattedrale nel deserto”, ma è un grande santuario circondato da una miriade di altri luoghi di devozione, dato che le basi militari statunitensi e NATO nell’area balcanica sono ormai decine. I Balcani sono diventati oggi una sicura ed efficiente “Opium way” per la materia prima ed il semilavorato provenienti dall’Afghanistan. L’oppio paga non solo le basi militari, ma anche la rete di oleodotti che attraversano i Balcani e trasporteranno il petrolio e il gas dal Mar Caspio e dal resto dell’Asia. Nel momento in cui il sistema bancario mondiale è in crisi, l’area balcanica vede, grazie all’oppio, anche tutto un proliferare di nuove banche, e il Kosovo ha quasi più banche che abitanti.
Obama - o chi lo manovra - dimostra di sapere quello che fa e di conoscere la Storia.
Senza l’oppio, e senza le due grandi guerre dell’oppio dichiarate dalla Gran Bretagna contro la Cina, non sarebbero esistiti l’Impero Britannico e neppure il capitalismo. Ciò non perché l’oppio sia l’unico affare o il principale affare in termini assoluti, ma perché costituisce la locomotiva trainante di tutto il convoglio affaristico, una fonte inesauribile di denaro fresco, tenuta viva grazie ad un limitatissimo investimento iniziale.
L’oppio non solo ti fornisce un grande affare, ma ti rende competitivo per entrare in qualsiasi altro affare, ti finanzia l’investimento e ti consente di abbassare i prezzi eliminando la concorrenza. L’oppio è quindi una droga per tutti gli affari, compreso quello dell’edilizia.
L’oppio nell’800 finanziava anche la pirateria che era promossa e organizzata da compagnie britanniche e olandesi, che poi promuovevano anche trattati militari e guerre col pretesto di contrastarla. Oggi la pirateria è tornata in auge e, non a caso, la NATO rivendica un ruolo anche in questa presunta “lotta” alla pirateria.
Agli inizi del ‘900, mentre il business dell’oppio furoreggiava e l’indistinguibilità tra capitalismo e criminalità comune risultava particolarmente clamorosa, un grande sociologo, Max Weber, scriveva due importanti saggi storici, poi raccolti sotto il titolo “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”. La tesi di fondo di questi saggi è che il protestantesimo, e soprattutto il calvinismo, sono stati la base etica del capitalismo, poiché hanno dato valore al lavoro e alla parsimonia. Olanda e Inghilterra, secondo Weber, sono state le culle del capitalismo, proprio perché influenzate maggiormente dal calvinismo.
La tesi di Weber è diventata senso comune, tanto che, nel linguaggio delle persone di cultura medio-alta, il termine “calvinista” è utilizzato per indicare un lavoratore sobrio e zelante. La tesi di Weber ha qualche fondamento storico, anche se per un senso del tutto diverso da quello proposto dal suo autore.
La Riforma Protestante ha costituito il paravento propagandistico per il più grande saccheggio della Storia. Agli inizi del XVI secolo le curie vescovili ed i conventi erano i più grandi proprietari di terre e edifici, ma nel giro di pochi decenni in Germania, Olanda e Inghilterra gli sterminati patrimoni immobiliari della Chiesa Cattolica erano passati in altre mani.
Può costituire un’attenuante il fatto che la rapina attuata col pretesto della Riforma Protestante avvenisse ai danni di altri ladri, come gli esponenti del clero cattolico; ma comunque non si trattò assolutamente di un rubare ai ricchi per dare ai poveri. Quando i poveri contadini tedeschi cercarono di partecipare in qualche modo ai benefici della spartizione dei beni che erano appartenuti alla Chiesa Cattolica, allora Lutero tuonò contro di loro chiamandoli blasfemi ed incitando i Signori della Germania a sterminarli. Eppure anche “luterano” è un aggettivo usato nel linguaggio colto per indicare serietà e rigore nell’argomentazione polemica.
Il capitalismo è un fenomeno che da sempre risulta del tutto riconducibile alle espressioni della pirateria, del saccheggio e della criminalità comune, però il capitalismo è anche riuscito a creare una falsa coscienza che usa tutte le smentite del mito per riconfermare il mito stesso: se il capitalismo che vediamo è solo criminalità, allora vuol dire che da qualche altra parte deve esserci un capitalismo “vero” che si ispira ai suoi valori autentici e originari, anche se nessuno l’ha mai visto.
Il problema del capitalismo attuale è però che come propagandisti non ha più a disposizione Lutero, Calvino o Max Weber, ma dei pubblicitari di infimo livello come i Neocon americo-sionisti, perciò l’evidenza comincia a strappare un po’ di spazio alla falsa coscienza.
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