Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Non a tutti è sfuggito il fatto che negli stessi giorni in cui tuonava e minacciava referendum contro la legge che elimina le intercettazioni giudiziarie e la libertà di stampa e di internet, Antonio Di Pietro correva in soccorso del governo Berlusconi votando in parlamento a favore del cosiddetto “Federalismo Demaniale”, cioè della legge che privatizza i beni del Demanio dello Stato tramite la mediazione degli enti locali. Di Pietro non è nuovo a questi atteggiamenti di sostegno al sistema degli affari, poiché già all’epoca dell’ultimo governo Prodi i suoi voti risultarono determinanti per salvare dallo scioglimento la Società per il Ponte sullo Stretto di Messina, una società creata per consentire alla multinazionale edilizia Impregilo di appropriarsi dei patrimoni immobiliari pubblici delle province di Reggio Calabria e di Messina.
Per quella scelta di quasi quattro anni fa, Di Pietro chiese pubblicamente scusa, ma oggi ci ricasca, ed ancora una volta il principale beneficiato è, manco a dirlo, la multinazionale Impregilo, che si aspetta dal cosiddetto “Federalismo Demaniale” di poter mettere le mani gratuitamente su altri beni del Demanio dello Stato. Pochi giorni dopo la prima approvazione a gennaio da parte del Consiglio dei Ministri di quel provvedimento - che porta il nome di Calderoli, ma che è stato voluto dal ministro dell’Economia Tremonti in prima persona -, numerosi immigrati, con regolare permesso di soggiorno, furono sloggiati di forza da alcuni terreni demaniali. Il provvedimento fu preso da Maroni - il miglior ministro degli Interni della Storia, secondo Roberto Saviano -, con il pretesto di un’emergenza di ordine pubblico, cioè una presunta “rivolta di immigrati” a Rosarno; vicenda dai contorni ancora oscuri, ma dai risultati molto chiari: quei terreni demaniali, su cui gli immigrati avevano acquisito dei diritti d’uso, sono tornati disponibili per il “Federalismo Demaniale”, cioè per la Impregilo.
Per l’approvazione del “Federalismo Demaniale” i voti di Di Pietro non sono risultati determinanti come nel caso del mancato scioglimento della Società per il Ponte sullo Stretto di Messina, ma è risultato ugualmente prezioso per il governo l’appoggio propagandistico fornito dall’ex magistrato nell’accreditare le menzogne governative, che presentano questo passaggio di patrimoni immobiliari come un modo per valorizzare beni abbandonati o “sfregiati”. In realtà affermare che questi beni abbiano bisogno di essere valorizzati, è solo un trucco per far credere che oggi essi non abbiano nessun valore, e che quindi possono essere “affidati” dalle Regioni ai privati senza che questi debbano sentirsi obbligati a sborsare un soldo. Non a caso l'attuale "manovra" finanziaria del governo non contempla alcuna entrata per le tante privatizzazioni in via di realizzazione; ciò in quanto le privatizzazioni non sono vendite e neppure svendite, ma furti che vanno sempre a pesare sulla spesa pubblica, poiché sono di solito accompagnate da sgravi fiscali, incentivi e tangenti. Quindi per pagare le nuove privatizzazioni occorrerà spremere ancora di più il contribuente già povero.
Di Pietro è risultato ancora più pateticamente bugiardo quando ha sostenuto che non c’è il pericolo di un ulteriore sacco edilizio, poiché i Comuni potranno adottare le opportune normative, come se le amministrazioni comunali non fossero complici da sempre delle speculazioni immobiliari private. La malafede di Di Pietro non potrebbe essere più evidente, poiché appare sfacciatamente contraddittorio agitare una questione di legalità violata ed, al tempo stesso, favorire delle privatizzazioni che potranno esercitarsi nella più totale illegalità/impunità grazie non solo all’impossibilità di indagare, ma soprattutto perché la depenalizzazione del falso in bilancio trasforma le SPA in associazioni a delinquere autorizzate. Se Di Pietro fosse davvero preoccupato per il dilagare della criminalità degli affari, la sua conseguente priorità sarebbe quella di opporsi a tutte le privatizzazioni, ed anche alla dispersione dell’amministrazione dei Beni del Demanio dello Stato tra una miriade di enti locali.
Di Pietro il “giustizialista” si è rivelato perciò un complice dell’affarismo, per di più recidivo, e con un mandante ben individuabile, la solita Impregilo. Che l’antiberlusconismo di Di Pietro sia finto, non implica che egli sia d’accordo con Berlusconi e che le loro liti siano una recita; significa solo che sono liti fra servi che obbediscono al medesimo padrone, cioè il Fondo Monetario Internazionale, l’ente assistenziale per le multinazionali che presiede alle privatizzazioni su scala planetaria. I media hanno costruito un mito sul "Di Pietro giustizialista" che probabilmente riuscirà a sopravvivere anche a quest’ultima clamorosa smentita; allo stesso modo in cui, ad esempio, il mito di Roberto Saviano è uscito indenne dalle sue apologie di Israele e dalle sue calunnie contro l’ETA basca.
La propaganda ufficiale crea un mondo fittizio da cui è difficile prescindere, poiché, come spiegava Goebbels, se una cosa viene detta e ridetta in continuazione, conta poco che sia palesemente falsa: diventa la “verità”, cioè un’ideologia che finisce per sostituire totalmente l’esperienza reale. Per il senso comune può essere facile supporre che la propaganda ufficiale dica anche il falso, o che pretenda di presentare come diritti divini e verità eterne quelli che sono soltanto rapporti di forza del momento; ma risulta ostico per il senso comune accettare che questa propaganda eserciti un puro e semplice rovesciamento dei fatti, per cui ogni cosa viene presentata come il suo opposto.
Eppure è proprio col rovesciamento totale dei fatti che la propaganda può esercitare quella violenza psicologica che i militari chiamano "psywar". In tal modo la propaganda va oltre la semplice giustificazione dei rapporti di dominio esistenti, diventando un'arma di distruzione di massa che va direttamente a colpire le facoltà mentali del bersaglio. Come le armi batteriologiche e virologiche, allo stesso modo anche le armi psicologiche vogliono provocare artificialmente delle malattie, e specificamente la schizofrenia.
Ci si parla così di “liberismo”, di “libero mercato”, di “libera concorrenza” per coprire una realtà esattamente opposta, quella dell’assistenzialismo per ricchi a colpi di denaro estorto al contribuente. Analogamente, il furto costituito dalle privatizzazioni ci viene spacciato come il salvataggio di un bene pubblico in dissesto.
Spesso la propaganda ufficiale assume le sembianze della critica sociale. Alla fine degli anni ‘70 il Fondo Monetario Internazionale riusciva ad assumere il ruolo di unico centro direttivo dell’economia mondiale, venendo a determinare una situazione di totalitarismo affaristico del tutto inedita nella Storia; ma, a fronte di questa semplificazione effettiva nella mappa del potere, nello stesso periodo il sociologo Edgar Morin partoriva la dottrina della “complessità” sollevando una nube di fumo sui rapporti di dominio.
Proprio nello stesso periodo in cui i ricchi iniziavano lo smantellamento sistematico dello Stato sociale, il sociologo Ralf Dahrendorf ci ammoniva che la democrazia è minacciata dalle “aspettative crescenti” delle masse che pretendono sempre più garanzie e protezioni; così gli aggrediti potevano essere fatti passare come gli aggressori.
All’inizio degli anni ’80 veniva scatenata la più feroce guerra dei ricchi contro i poveri degli ultimi due secoli, ma contemporaneamente da “sinistra” si levarono i teorici della "fine della lotta di classe". Mentre la spesa pubblica finanziava i padroni per attuare i licenziamenti e le delocalizzazioni delle grandi fabbriche, i teorici della sinistra se la prendevano con il “tramonto della fabbrica fordista”, senza notare che in Cina ed in Indonesia nascevano fabbriche che, nonostante l’automazione, conservavano le modalità fordiste di divisione del lavoro.
Oggi il territorio risulta sempre più militarizzato, e il segreto militare e le servitù militari irreggimentano anche le attività civili, comprese le discariche di rifiuti; ma arriva il sociologo Zygmunt Bauman a parlarci di “modernità liquida”, con tutti i suoi addentellati della “società liquida”e del “potere liquido”, ecc.; in modo che riferirsi a cose solide come le sempre più numerose basi militari USA e NATO appaia come una volgarità da persone maleducate.
Di fronte a mistificatori così illustri, il povero mistificatore Di Pietro rischia di apparire rozzo e primitivo, ma ciò non vuol dire che sia meno insidioso.
Come era prevedibile, e come era stato in effetti previsto da alcuni ambientalisti, una volta passate le elezioni è cominciata nel Partito Democratico la “revisione” della posizione contraria al ritorno del nucleare in Italia. L’occasione per “rivedere” è consistita in una lettera che la stampa ha presentato come “firmata da un gruppo di “scienziati e tecnici”, anche se il gruppo è infoltito soprattutto da imprenditori e manager. Il primo dei firmatari è l’oncologo Umberto Veronesi, la cui nota sensibilità umanitaria si esprime soprattutto nell’ambito di quel fenomeno, tipicamente ed esclusivamente umano, che sono gli affari. Veronesi dovrebbe essere infatti il capo dell’agenzia per la sicurezza nucleare, quindi la sua posizione filo-nucleare non è apparsa del tutto immune da interesse personale. Fra i firmatari non poteva mancare il professor Pietro Ichino, addetto ufficiale alla criminalizzazione del lavoro nell’ambito della campagna per la privatizzazione del Pubblico Impiego; una presenza che basterebbe da sola a garantire che questa sortita filo-nucleare è dettata da un autentico umanesimo degli affari.
Fra gli ambientalisti ha suscitato irritazione il fatto che la lettera filo-nucleare che pretendeva di aprire un dibattito, si sia poi limitata alle solite accuse ed ai soliti luoghi comuni, e non abbia minimamente preso in considerazione i due argomenti principali della posizione contraria al ritorno al nucleare, e cioè l’insostenibilità degli altissimi costi delle centrali ed il problema irrisolto dello smaltimento delle scorie radioattive. Ma chi si aspetta che un “dibattito democratico” possa chiarire le rispettive posizioni, pecca evidentemente di ingenuità, poiché nel “dibattito democratico” non conta ciò che viene detto, ma solo ciò che viene nascosto.
In effetti gli argomenti che gli ambientalisti presentano contro l’ipotesi nucleare, costituiscono proprio le vere motivazioni dei filo-nuclearisti. Sono infatti i costi stratosferici del nucleare a renderlo un business assolutamente irrinunciabile, ed in questo ambito lo smaltimento delle scorie radioattive rappresenta la miniera di appalti più ricca e più esente da rischi giudiziari che esista, poiché è coperta in ogni sua fase dal segreto di Stato o dal segreto militare, o da entrambi. Quindi il nucleare assicura affari giganteschi, potendo in più mascherare ogni illegalità sotto la copertura legale del segreto.
Il governo ha affermato che non saranno stanziati fondi pubblici per la costruzione delle centrali, ma la menzogna è basata su un gioco di parole, dato che risultano a carico della spesa pubblica sia gli oneri per le infrastrutture di supporto, a cominciare dagli acquedotti, sia gli oneri per la sicurezza, che includono la custodia ed il trasporto del materiale radioattivo. E sono proprio queste le spese maggiori, non quelle per la edificazione delle centrali in quanto tali. A questo punto, poco importerebbe che le risorse finanziarie per completare il progetto nucleare possano venire a mancare e che le centrali possano rimanere incompiute, dato che intanto le ditte private avrebbero comunque incassato quanto loro dovuto, ed inoltre occorrerebbe comunque effettuare il "decommissioning" di quanto già costruito.
Un altro business, dai costi sconosciuti, consiste appunto nel cosiddetto "decommissioning", cioè lo smantellamento e la decontaminazione delle centrali non più operative. In Italia gli utenti continuano a pagare sulle bollette Enel una quota per le vecchie centrali che furono "chiuse" a suo tempo con il pretesto del referendum anti-nucleare del 1987, e che però oggi continuano a svolgere la funzione di siti "temporanei" per la custodia delle scorie radioattive. Quanto sia costato il "decommissioning" di quelle centrali, permane a tutt'oggi un segreto.
Inoltre, in base ai quesiti dei referendum del 1987, non si sarebbe più potuto costruire nuove centrali nucleari (ed invece l'attuale governo ha deciso diversamente), ma assolutamente nulla avrebbe obbligato a smantellare quelle già operative, e invece ciò fu fatto in tutta fretta dal governo di allora. Infatti c'erano già pronti i mega-appalti per il decommissioning delle vecchie centrali. Insomma, il fascino nel nucleare consiste nel fatto che continua a produrre mega-appalti prima, durante e dopo la sua esistenza, anche nel caso che non abbia mai prodotto davvero energia elettrica; ciò a dimostrazione dell'assunto che la miscela tra appalti e segreto militare/segreto di Stato risulta molto più esplosiva di qualsiasi isotopo dell'uranio.
In questi giorni è scoppiato in Sardegna uno scandalo giudiziario connesso a megaimpianti ad energia eolica, ma un analogo scandalo non potrebbe mai verificarsi relativamente ad impianti nucleari, in quanto il segreto militare o di Stato impedirebbe l’accesso delle Procure a qualsiasi fase o livello dell’affare nucleare. Anche chi non nutra illusioni legalitarie è costretto perciò a constatare che, con l’allargamento della sfera del segreto, viene a ridursi anche quella funzione di contrappeso che viene determinata dai conflitti interni alle istituzioni dello Stato.
All’ombra del segreto di Stato e del segreto militare, nulla può infatti impedire che l’Italia venga usata come luogo di smaltimento anche di scorie radioattive di provenienza estera. Per decenni la Francia ha venduto sottocosto all'Enel la sua energia elettrica di origine nucleare, ma, a causa del segreto di Stato, non si può essere certi che l'Enel non abbia in effetti ripagato la Francia prendendosi in deposito le scorie radioattive delle centrali nucleari francesi. Inoltre nulla ci assicura che le "nuove centrali", come già è avvenuto per quelle vecchie, non siano costruite allo scopo esclusivo di servire da deposito per scorie radioattive.
A conferma della volontà di trasparenza sia dell’attuale governo che di quello che l’ha preceduto, c’è da registrare che il Decreto dell’8 aprile 2008 (uno degli ultimi atti del governo Prodi) estende il segreto di Stato anche agli impianti di produzione di energia, ivi compresi gli inceneritori di rifiuti; mentre il governo Berlusconi, con la Legge123/2008, all’articolo 2 commi 4 e 5, ha imposto il segreto militare persino sulle discariche civili di rifiuti in Campania. La nostra sicurezza viene perciò affidata esclusivamente alla buona fede ed agli scrupoli morali di chi ci comanda, il che vuol dire che siamo ridotti proprio male.
Un anno fa l’aeroporto di Malpensa veniva declassato, cessando di svolgere la funzione di scalo per i voli internazionali, ciò che nel gergo dei trasporti aerei viene denominato un “hub”. La decisione era stata seguita da spiegazioni e polemiche, senza che però venisse fatta notare l’impossibilità di sopravvivenza non di un aeroporto civile qualsiasi, ma di un “hub”, che aveva due basi militari praticamente a ridosso, quelle di Solbiate Olona e di Cameri, e altre due basi a poca distanza, quelle di Vicenza e Aviano. In Sicilia anche un aeroporto civile di modesta portata, come Fontanarossa, è costretto a subire il costante disturbo degli innumerevoli voli militari in partenza o in scalo all’aeroporto militare di Sigonella, e questi disagi sono stati in passato oggetto di cronaca. Strano che, con questi noti precedenti, nessuno sui media ufficiali si sia posto il problema di quale avrebbe potuto essere il destino di Malpensa, il cui volume di traffico era incomparabilmente superiore a quello di Fontanarossa. Quando Fontanarossa fu sottratta al controllo aereo civile e sottoposta alla servitù del radar militare, la notizia non venne diffusa, e lo si è saputo solo anni dopo, e di straforo. Avverrà altrettanto con Malpensa?
Tutto ciò che è coperto dal segreto militare per la comunicazione ufficiale cessa semplicemente di esistere, perciò non esiste nemmeno un’opinione pubblica che possa prendere in considerazione la questione. L'opinione pubblica rappresenta un meccanismo sociale che non sempre si esprime in modo acritico e passivo, anzi in taluni casi ha contribuito a mettere in crisi le versioni ufficiali; ma l'opinione pubblica risulta in definitiva sempre dipendente dagli argomenti imposti dai media, e se i media tacciono, anche su qualcosa di evidente, allora l'opinione pubblica non si fa proprio viva.
L’11 maggio ultimo scorso il quotidiano napoletano “Il Mattino” riportava la notizia del possibile smantellamento della base militare della U.S. Navy nell’aeroporto civile di Capodichino. La notizia era collegata alle riduzioni di spesa militare prospettate dall’amministrazione Obama, ma è stata prontamente smentita dal Pentagono. Quindi la base militare USA a Capodichino - che conta tremilacinquecento addetti tra personale militare e civile - resterà al suo posto. Risulta strano notare che ai cittadini napoletani sia pervenuta la notizia del possibile smantellamento della base militare, ma non fosse mai arrivata diciassette anni fa la notizia del suo insediamento. In effetti la data precisa dell’installazione di quella base era rimasta sino ad oggi un mistero, cioè un segreto militare.
“Il Mattino” ci ha fatto però sapere che il personale addetto alla base USA di Capodichino risiede in un "sito di supporto" collocato nel comune di Grigignano d’Aversa, in provincia di Caserta, e che la presenza di quel "sito di supporto" impedisce ogni attività economica ai cittadini della zona. “Il Mattino“ non si è però spinto sino al domandare se anche la presenza di quella base militare della U.S. Navy possa avere qualcosa a che fare con la costante ed inesorabile erosione del traffico civile nell’aeroporto di Capodichino. Una volta fatta questa prima domanda, ci si sarebbe anche potuto chiedere se la presenza di un’altra base U.S. Navy nel porto di Napoli - una base che occupa più della metà delle banchine - possa spiegare la costante riduzione del traffico civile di merci nello stesso porto di Napoli; e si sarebbe potuto domandare persino se il segreto militare che avvolge la maggioranza delle banchine del porto napoletano, possa a sua volta spiegare il massiccio ingresso illegale di armi, droga e immigrati clandestini nel territorio napoletano. L'opinione pubblica non potrà farsi spontaneamente di queste domande, dato che, dopo un giorno, l'argomento basi militari USA è già sparito dal quotidiano napoletano.
Quando il porto e l'aeroporto di una città sono controllati da una forza armata straniera, dal punto di vista tecnico-militare significa che quella città è militarmente occupata. Ma siamo in "Occidente", e quindi basta pronunciare la magica parola "alleato" perché l'occupazione militare straniera non ci sia più. In una “democrazia occidentale” tutte le domande che possano riguardare gli eventuali abusi che avvengono all’ombra del segreto militare non hanno alcun diritto di cittadinanza, poiché è lecito esercitare la cultura del sospetto soltanto nei confronti di coloro che lo stesso Occidente considera suoi nemici.
|
|
|