Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La suscettibilità è una di quelle tecniche di sopraffazione che appartengono al novero del pre-politico e del pre-ideologico, attengono all’antropologia culturale e sono trasversali e riscontrabili in tutti i gruppi umani, anche i più insospettabili. Fare l’offeso ed invocare la “lesa Maestà”, sono facili espedienti per appellarsi al sostegno di seguaci e complici contro i disturbatori, però abusarne comporta degli inconvenienti. Le persone più serie cominceranno infatti a sgamare l’inconsistenza che si nasconde sotto la pretestuosità di certe indignazioni, mentre i soggetti della stessa specie di chi si atteggia a offeso, potranno a loro volta fare appello ai propri accoliti. Matteo Salvini ricorre a questo tipo di psicodrammi con sempre più frequenza e goffaggine; qualche anno fa gli era riuscito persino di miracolare una Giovanna d’Arco da strapazzo trasformandola in un’eroina mondiale. Ora Salvini ha messo su un altro gioco delle parti con un esponente della finta antimafia di establishment, don Luigi Ciotti.
Bisogna però riconoscere ai due contendenti della pantomima ed alle loro claque, di star svolgendo una funzione di distrazione non da poco, visto che l’attenzione si sta spostando, come al solito, sul ruolo delle mafie di rango inferiore, che, nella vicenda del fantomatico Ponte sullo Stretto di Messina, entreranno solo per ciò che riguarda i subappalti. Il primo mangiatore del grande affare è infatti la multinazionale Salini Impregilo, quella che oggi si fa chiamare Webuild, in modo da precostituirsi un’etichetta-alibi che celi la sua vera attività, cioè far soldi senza costruire nulla. C’era chi si preoccupava che, dopo la cessazione dell’incarico di presidente di Leonardo-ex Finmeccanica, l’ex poliziotto e agente segreto Gianni De Gennaro finisse ai giardinetti, invece è stato nominato presidente di Eurolink, il consorzio che rappresenta l’appaltatore del progetto del Ponte, di cui Webuild è il principale componente. L’affare del presunto Ponte quindi nasce con le “coperture” giuste.
Se Matteo Salvini fosse davvero convinto della realizzazione del Ponte, non avrebbe dato peso alle dichiarazioni di don Ciotti, invece nella circostanza gli è tornato utile qualcuno a cui attribuire il ruolo del disfattista. Come già si è visto in passato, il grande giro dei soldi non è legato alla costruzione dell’opera, bensì all’elaborazione del progetto ed alle speculazioni finanziarie e immobiliari che fanno da contorno. Il preventivo dell’opera è salito da dieci a quindici miliardi, ma già si ammette che neanche quelli basteranno; non è neppure prevista una copertura finanziaria, e sarebbe anche inutile, visto che i veri costi non si conoscono ancora. L’Unione Europea non dice di no al finanziamento, ma neanche di sì. Insomma, ci si spaccia il Ponte per un’altra Autostrada del Sole, che intercettava la motorizzazione di massa; mentre invece ci prospetta un doppione del caso TAV, cioè una dispendiosa finzione a vantaggio di imprese private specializzate non nel produrre ma nel prendere soldi pubblici.
Ormai il progetto del Ponte è legge e nessuna critica potrebbe mai fermarlo, se però ci fosse davvero l’intenzione di farlo. Al contrario, il tambureggiamento mediatico farà passare ogni perplessità come un attivo impedimento, come un atto di irresponsabile disfattismo, anzi di sabotaggio. Ma il campo nel quale la criminalizzazione preventiva del dubbio sta assumendo forme parossistiche, è certamente quello del riscaldamento globale da emissione di CO2. La proposta naif del deputato Angelo Bonelli di criminalizzare per legge il “negazionismo climatico”, ha svolto ancora una volta una funzione di distrazione, poiché certe operazioni di irreggimentazione dell’opinione non si fanno per legge, bensì attraverso il “principio del capo”, cioè imponendole attraverso il puro senso della gerarchia. Che dubitare non sia lecito l’ha detto l’ONU , soprattutto, l’ha detto Mattarella.
Secondo l’attuale vulgata, il ruolo di alfiere del negazionismo climatico sarebbe delle destre. Il governo Meloni però non nega un bel niente; anzi, ha approfittato del riscaldamento globale per bloccare i fondi stanziati per il riassetto idrogeologico, in quanto tutti i progetti a riguardo andrebbero riadattati alla nuova situazione climatica. Dato che, secondo la narrativa mediatica, l’emergenza climatica si aggrava con un’accelerazione esponenziale, anche i progetti di riassetto idrogeologico andranno nuovamente riadattati, perciò un pretesto per dirottarne i fondi si troverà sempre.
Ci sarà sempre il tonto che si presterà, per convenienza o ingenuità, a svolgere il ruolo del “negazionista climatico” da mettere alla gogna nei talk show. Nella finto-sinistra politicorretta c’era anche chi si illudeva che la Meloni, in quanto fascista, potesse incarnare il male del negazionismo climatico. Ma proprio perché è fascista, la Meloni agisce da macchinetta gerarchica, infatti si è già conformata al diktat dei capi. Ospite di Biden a Washington, la Meloni ha affermato che il riscaldamento globale è una “minaccia letale”. Bonelli sperava di essere prescelto lui per fare il grande ispettore delle nostre coscienze, invece ci penserà la Meloni.
La “minaccia letale” di cui parla la Meloni, sicuramente si materializzerà nelle tasche dei contribuenti poveri, che dovranno pagare una montagna di ecotasse sui consumi energetici e sulla riconversione “green”. Ciò che invece non è ancora chiaro, è perché sia così fondamentale per gli emergenzialisti climatici criminalizzare i dubbi. Il punto è che la riconversione green e la rinuncia ai combustibili fossili, rimangono allo stadio di mito di chimera; mentre la realtà in atto è solo quella di una bolla mediatico-finanziaria, quella dei titoli ESG, cioè la cosiddetta finanza “sostenibile” e “green”. Tutte le grandi multinazionali finanziarie concorrono a gonfiare nelle Borse la bolla ESG, ma chi si sta adoperando più degli altri è il fondo BlackRock, che tempo fa aveva persino annunciato che si sarebbe specializzato in questo ramo della finanza “sostenibile”.
Sennonché si è scoperto che non era vero niente. BlackRock si comporta come se la riconversione ecosostenibile fosse una bolla finanziaria destinata a scoppiare, come altre bolle finanziarie in passato; perciò BlackRock sta continuando ad investire in carbone, petrolio e gas. Il fatto che le multinazionali finanziarie investano nel “sostenibile” ed anche in carbone e idrocarburi, smentisce totalmente le fake news secondo le quali dietro il “negazionismo climatico” ci sarebbero gli interessi della lobby dei combustibili fossili. Ma anche senza sapere del doppiogiochismo di BlackRock, sarebbe bastato considerare gli attuali extraprofitti delle aziende che vendono gas in seguito all’esplosione dei prezzi dal 2021. L’annuncio della transizione energetica al green ha infatti creato immediatamente il timore che non si investisse più in estrazione di combustibile fossile e quindi si determinasse una scarsità del prodotto. L’ovvia conseguenza è stata una lievitazione dei prezzi, soprattutto del gas. In tal modo, oltre la bolla dei titoli ESG, ora abbiamo anche una bolla finanziaria delle “commodity” e dei “future” sul gas. In base al codice penale l’emergenzialismo climatico è un reato di aggiotaggio e di manipolazione del mercato.
Qualcuno si ricorderà dell’arroganza della rappresentante di Pfizer davanti al parlamento europeo. La stessa arroganza è stata esibita da BlackRock quando i parlamentari britannici hanno chiesto spiegazioni a proposito degli investimenti nel combustibile fossile. La vera notizia non sta nella protervia di BlackRock, che fa i suoi affari, ma nell’atteggiamento rassegnato dei parlamentari, che accettano tranquillamente questa gerarchizzazione antropologica, per cui c’è chi può fare quello che gli pare, e chi invece viene disciplinato nel comportamento e nel pensiero. Ai poveri si impongono ecotasse, mentre per BlackRock non si osa neppure avanzare l’ipotesi di sovra-tassare i profitti ricavati dagli investimenti sul fossile. La legge e lo Stato sono finzioni, ciò che conta sono le gerarchie antropologiche. A rispondere dei fallimenti della riconversione al “sostenibile” infatti non saranno gli esseri superiori che stanno nelle multinazionali e nei governi, bensì i “negazionisti”.
C’è quindi un’affinità tra il Ponte sullo Stretto di Messina e la riconversione energetica senza emissione di CO2. Nessuno di questi progetti è infatti in grado di prospettare neppure lontanamente un quadro dei costi ed un percorso di realizzabilità, perciò il tutto si risolve in una speculazione finanziaria fine a se stessa ed in una colpevolizzazione preventiva di chi fa domande. L’inconcludenza produttiva di quei progetti deve però assolutamente trovare un alibi, un capro espiatorio, un mostro contro cui indirizzare l’odio dell’opinione pubblica ed al quale attribuire la colpa del ritardo e del fallimento. La colpa del “sabotaggio” se la prenderanno i disfattisti nel caso del Ponte, e i negazionisti nel caso dell’emergenza climatica.
Da circa due anni i media mainstream stanno cercando di riciclare il mito della “stagflazione”, che già tanta fortuna riscosse negli anni ’70. Oggi il termine “stagflazione” viene però rivenduto in accoppiata semantica col termine “spettro”, come nel famoso incipit del “Manifesto dei Comunisti” di Marx ed Engels. La parola “spettro” consente infatti di immergere il tutto in un’atmosfera gotica e notturna per rendere meno evidenti le contraddizioni narrative. Un articolo di “Lavoce.info” dell’ottobre del 2021 (prima della guerra e delle supersanzioni alla Russia) si nascondeva dietro lo “spettro” della stagflazione per non spiegarci a cosa fosse dovuta un’inflazione dei prezzi delle materie prime che non corrispondeva ad alcun aumento della domanda.
I creduloni affezionati alla fiaba edulcorata del capitalismo produttivo e “sviluppista” ci sono sempre. Ma oggi è meno facile vendere il mito della stagflazione a tutti, perché si sa che a Chicago e Amsterdam ci sono mercati finanziari di titoli sulle materie prime (le “commodity”); titoli la cui funzionalità dovrebbe consistere nell’ottenere la merce sottostante indipendente dal luogo o dal produttore. Sulle “commodity” ci sono anche dei titoli derivati, i ”future”, che dovrebbero essere delle assicurazioni a scadenza sulla materia prima in questione. In astratto tutto questo mercato di titoli dovrebbe garantire compratori e venditori dall’alea del mercato; di fatto è l’opposto, perché consente di scommettere sui prezzi futuri delle materie prime. Si crea così l’effetto bisca, fatto di scommesse e di rilanci sulle scommesse. Il prezzo di un “future” può lievitare al punto di superare di molte volte il valore del bene assicurato; sennonché tra il titolo ed il suo sottostante si crea un effetto di rimbalzo, per cui l’uno insegue il prezzo dell’altro.
Queste cose è già difficile capirle oggi; anzi, non si è mai sicuri di averle proprio capite. Ma negli anni ’70 certi fatti non li potevamo neppure sapere, perché non c’era internet, quindi non era possibile accedere agli archivi del “New York Times”. Chi avesse letto il NYT del 4 aprile del 1972 avrebbe saputo che a Chicago e New York il mercato delle “commodity” stava registrando un boom senza precedenti; si stava cioè creando una bolla finanziaria che non corrispondeva alla domanda ed all’offerta di beni reali, bensì alla speculazione su titoli derivati. In base a quell’articolo era facile prevedere ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, cioè l’esplosione dei prezzi delle materie prime, ed in particolare del petrolio. Come si potevano dissimulare gli effetti depressivi delle bolle finanziarie sull’economia reale? Venne chiamato qualche pubblicitario con talento di poetastro, e gli si fece confezionare un bell’ossimoro che confondesse le menti: “stagflazione”.
Il capitalismo non è quello che ci hanno raccontato; anzi, il capitalismo, e persino lo Stato, sono astrazioni giuridiche, mentre i soggetti concreti in campo sono le lobby d’affari, trasversali al pubblico ed al privato, al legale ed all’illegale. Nel cosiddetto capitalismo il ruolo del lobbying finanziario è sempre stato prevalente rispetto alle esigenze produttive. Oggi qualche sospetto comincia a diffondersi, ma negli anni ’70 fu molto facile scaricare la colpa sui “salari troppo alti” e convincere i dirigenti sindacali a calarsi le brache. Di questi tempi è un po’ ostico parlare di salari troppo alti, però l’Italietta, con la sua finta aria frivola e svagata da Paese dei Campanelli, riesce sempre ad eccellere in campo internazionale quando si tratta di crudeltà e avarizia; perciò ci vengono negati anche i palliativi diffusi quasi ovunque, come il salario minimo ed i sussidi di disoccupazione. L’imbecille professionista riesce sempre a travisare certe notizie come se riguardassero teorie cospirative, mentre in effetti si tratta di automatismi mentali e comportamentali. I potenti non cospirano: sono cospirati dal loro status e dai loro interessi di lobby.
Nel 1962 l’Italietta era in pieno boom economico, il PIL si era raddoppiato in pochi anni; eppure anche allora si aggirava uno “spettro”. Di che spettro si trattasse, ce lo spiegò l’anno dopo la relazione della Banca d’Italia relativa all’anno1962, redatta dall’allora Governatore Guido Carli. Lo spettro apparso a Carli era quello dei “salari troppo alti”; in quanto, secondo lui, i salari italiani non corrispondevano alla “produttività”. Ovviamente non si forniva alcun riscontro empirico di tale affermazione, che veniva data per scontata. Ciò perché i lavoratori guadagnano sempre troppo; anzi, è pure troppo che vengano pagati, dato che, come si dice comunemente: “si stanno imparando un mestiere”. In quella relazione del 1963, Carli lanciava un’espressione che avrebbe incontrato sempre più successo negli anni successivi: “politica dei redditi”.
Insomma, secondo Carli la priorità non era lo sviluppo economico; anzi, troppo sviluppo consentiva ai lavoratori di approfittarne per allargarsi ed avanzare pretese, facendo saltare le gerarchie sociali, dove il rango è indicato dal reddito. I poveri ci devono essere per forza, altrimenti si creerebbe una sgradevole sensazione di uguaglianza. La Banca d’Italia è l’ente assistenziale per creditori, perciò Carli indicava la priorità di tutelare la lobby dei creditori (le “aziende di credito”, alias le banche), quindi occorreva evitare il rischio di svalutazioni della lira con l’eccessivo acquisto di materie prime, anche a costo di comprimere la domanda interna e di sacrificare un po’ di industrie. Alla politica si intimava di adeguarsi; infatti negli anni successivi il segretario del Partito Repubblicano, Ugo la Malfa, si incaricò di rendere popolare l’espressione “politica dei redditi”, un eufemismo per dire “compressione dei salari”. Più di vent’anni prima del best seller “Donne che amano troppo”, Guido Carli aveva già scritto il grande libro-guida, la bibbia dell’Italietta: “operai che guadagnano troppo”.
La politica si adeguò immediatamente ai consigli di Carli. Nel 1964 avvenne una fuga di capitali all’estero, attratti da titoli con interessi più alti, a dimostrazione che i soldi seguono i soldi e non lo sviluppo economico. Niente di irreparabile, ma l’evento avverso divenne il pretesto per il primo grande esperimento di austerità, cioè il raffreddamento forzato dell’economia, ovviamente a partire dal Meridione, che da sempre funziona da valvola quando si vuole sgonfiare l’economia. I media sintetizzarono questi eventi con un appellativo di origine astrologica: “congiuntura”. Ma si seppe fare anche di meglio che semplici provvedimenti di austerità, infatti il 1964 fu l’anno del “Piano Solo”, il colpo di Stato allestito dal generale De Lorenzo e dal Presidente Segni. Il golpe si fermò a metà, ma ottenne ugualmente l’effetto intimidatorio; infatti il Partito Socialista, da poco entrato nell’area di governo, si affrettò, quasi al completo, a sottomettersi al Carli-pensiero; con l’unica eccezione dell’ultimo dei grandi sindacalisti, Giacomo Brodolini. Un giornale che aveva denunciato il golpe, “l’Espresso”, fece addirittura ammenda, ospitando articoli che Carli firmava con lo pseudonimo di Bancor.
Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, il “Piano Solo” avrebbe inaugurato la “Strategia della Tensione”, che poi sarebbe letteralmente esplosa cinque anni dopo a Piazza Fontana. In effetti non era “Strategia della Tensione”, ma “Politica dei Redditi”. Gli aumenti salariali ostacolano la riproduzione delle gerarchie sociali, perciò i salari vanno contenuti con ogni mezzo, anche con i colpi di Stato e con le bombe. Un sistema che ha come ragione sociale la disuguaglianza percepirà ogni rivendicazione salariale come un atto sovversivo, e come tale lo tratterà. Lo stesso Carli, in un dibattito televisivo, sbatté questa verità in faccia al segretario della UIL, Giorgio Benvenuto, facendolo quasi scoppiare in lacrime. Coloro che oggi si atteggiano ad amici del salario potranno reggere il ruolo finché l’avversario è la Meloni; ma quando bisognerà vedersela con le Procure, l’illusione crollerà.
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