Nel 1968 Mario Capanna e soci andavano a contestare una Prima della Scala che rappresentava un rituale di autocelebrazione dell’establishment. Ai primi dell’800 la borghesia aveva già dimostrato la sua inconsistenza non solo come classe dirigente ma anche come classe sociale, perciò si era aggrappata prima al cesarismo napoleonico, poi alla Restaurazione, poi alla parodia del bonapartismo di Napoleone III. In Inghilterra, in Germania e nel resto d’Europa la mitica borghesia cercava i suoi punti di riferimento nei residui dell’aristocrazia, di cui imitava anche i rituali, dalle prime dell’Opera ai balli delle debuttanti. Nel ‘900 la cosiddetta borghesia avrebbe addirittura abbandonato la sua retorica liberale per gettarsi nelle braccia del fascismo e del nazismo, che vennero coltivati e vezzeggiati non solo in Italia e Germania ma da tutte le oligarchie del mondo. Fino a qualche decennio fa però il mito borghese permaneva e l’establishment italico andava a specchiarcisi ogni anno, fingendo di ascoltare un’opera di cui non fregava nulla a nessuno dei presenti.
Ma adesso alla Scala cosa celebra l’establishment?
I media ci fanno sapere che il pubblico della Scala ha riservato oltre dieci minuti di ovazione a Liliana Segre, una sopravvissuta di Auschwitz, che nel 1945 era stata liberata grazie all’arrivo dei russi, con i quali oggi siamo in guerra, alleandoci con dei nazisti. Durante l’ovazione qualcuno avrebbe gridato “viva l’Italia antifascista”, prendendosela con un governo guidato da nostalgici fascisti, di cui fa parte un Matteo Salvini che fa il raccattanazisti in giro per l’Europa a fini elettorali, ma poi a Roma è la star della manifestazione contro l’antisemitismo, e plaude ad un genocidio di palestinesi commesso sempre in nome della lotta all’antisemitismo; un genocidio supportato e finanziato da armi, copertura diplomatica e soprattutto soldi degli Stati Uniti, il cui Congresso è dominato da una “Israel lobby”, composta in stragrande maggioranza non da ebrei ma da cristiani evangelici, antisemiti ma sionisti. L’attuale establishment va quindi alla Scala a celebrare la propria confusione, il proprio caos.
C’è stata una recentissima occasione (finora mancata) per riproporre la questione sulla fondatezza della mitologia borghese. La scorsa settimana a Trieste è morto Alfredo Maria Bonanno, la figura più nota dell’anarchismo italiano del dopoguerra, considerato dai media l’ideologo della cosiddetta “galassia” anarco-insurrezionalista. I media non hanno neanche parlato male di Bonanno, solo che, come prevedibile, tutto si è ridotto alle solite questioni: lotta armata, violenza, eccetera. L’attenzione mediatica si è concentrata soprattutto su un suo
opuscolo del 1977, “La gioia armata”; un testo che è diventato un best-seller internazionale, e pare che faccia parte dei testi d’esame per entrare a lavorare alla Digos. Bonanno aveva intuito, molto prima di tutti gli altri, che la questione della violenza sarebbe diventata la forca caudina nella quale ogni opposizione sarebbe andata a strisciare e sottomettersi. Il mantra ricattatorio del politicamente corretto ormai è risaputo; sì, hai rinunciato alla violenza ma non l’hai condannata del tutto; sì, forse l’hai condannata ma non come dovevi condannarla; per cui si è sotto esame all’infinito. A furia di condanne della violenza anche la nozione di terrorismo si è dilatata, basta un’invettiva o una semplice critica ai potenti sui social, per ritrovarsi la Digos alle calcagna. La strategia di Bonanno per non cadere nella trappola è stata quella di andarci allo scontro, di scandalizzare i politicorretti: non solo non condanno la lotta armata, ma ne faccio pure un percorso edonistico ad uso degli oppressi. Il problema però è che nella teoria di Bonanno il tema della lotta armata non è affatto quello centrale. Fare citazioni si presta all’obiezione di aver operato una decontestualizzazione; ma fare una citazione precisa è pur sempre meglio dell’andazzo attuale, che è quello di attribuire a qualcuno frasi che non ha mai detto, perciò è il caso di rileggere due piccoli brani tratti da “La gioia armata”.
“Questa idealizzazione del lavoro ha ucciso, fino ad oggi, la rivoluzione. Il movimento degli sfruttati è stato corrotto tramite l’immissione della morale borghese della produzione, cioè di qualcosa che non è solo estranea al movimento, ma gli è anche contraria. Non è un caso che la parte a corrompersi per prima sia stata quella sindacale, proprio perché più vicina alla gestione dello spettacolo produttivo” … “In sostanza, il capitale, nella sua estensione fisica attuale, è vulnerabile da parte di una struttura rivoluzionaria che può decidere i tempi e i modi dell’attacco. Il capitale sa perfettamente questa debolezza e corre ai ripari. La polizia non gli basta. Nemmeno l’esercito. Ha bisogno di una vigilanza continua da parte della gente. Anche della più umile parte del proletariato. Per far ciò deve dividere il fronte di classe. Deve diffondere tra la povera gente il mito della pericolosità delle organizzazioni armate, il mito della santità dello Stato, il mito della moralità, della legge e così via.”
Bonanno ci parlava dunque di “morale borghese della produzione” e di un “capitale” che si difende dagli attacchi non soltanto con eserciti e polizie ma anche con i miti imposti alla povera gente, come la santità della legge e dello Stato. E se invece il principale mito fosse proprio il “capitale”? Siamo sicuri di essere davvero dominati da questo meccanismo razionale, quantitativo ed economicistico? Esiste davvero questa “morale borghese della produzione”, oppure se l’è sognata Max Weber? Lo stesso concetto di borghesia sarebbe tutto da verificare, dato che l‘osmosi con la delinquenza comune è un elemento costitutivo di qualsiasi establishment. Il rischio è infatti quello di
analizzare e contrastare un sistema di potere in base ai suoi spot pubblicitari, per cui la rivoluzione finisce per idealizzare il sistema che dovrebbe combattere.
Su una cosa Bonanno aveva sicuramente ragione: il lavoro non ha mai “liberato” nessuno. D’altro canto nella società industriale le grandi concentrazioni di centinaia di migliaia di operai in uno stesso territorio erano comunque un contrappeso sociale, un fattore di riequilibrio dei rapporti di forza tra le classi; quindi si è avuto un po’ di ascensore sociale ed un po’ di redistribuzione del reddito; tutto ciò poteva comportare l’apparenza di una società tendente ad un ordine e ad un “progresso”. Ma dietro queste apparenze rassicuranti covava nelle oligarchie l’ombrosa gelosia del privilegio e
un desiderio di vendetta sociale, che in Italia già all’inizio degli anni ’60 era leggibile nelle relazioni del governatore della Banca d’Italia. Dalla fine degli anni ’70 infatti si è assistito nelle società occidentali ad una deindustrializzazione ed una finanziarizzazione dell’economia. E perché mai le lobby finanziarie dovrebbero temere gli “attacchi” e i disordini?
Guerre, terrorismo, pandemie, cioè tutte le combinazioni dell’allarmismo e dell’emergenzialismo, fanno lievitare gli indici di Borsa, indirizzano la spesa pubblica verso il business delle armi, il business della sicurezza e il business farmaceutico. In altri termini, il business della confusione e del caos. E tutto è regolato da trattative dirette tra le multinazionali ed i loro politici di riferimento, mentre il “libero mercato” lo si lascia ai gonzi che ci credono.
Il bello dell’essere criminali, come la Ursula von der Leyen e Robert Bourla, è che non c’è bisogno di complottare per comportarsi da criminali; viene naturale, tanto poi le complicità scattano in automatico. Per capire come funziona la cleptocrazia del capitalismo reale forse è meglio lasciar perdere il manuale di economia e consultare invece il codice penale, quando si parla di reati finanziari come l’aggiotaggio e la manipolazione del mercato. Tutte le bolle mediatico-finanziarie rientrano in quelle categorie di reato. Nessun sistema finanziario può funzionare senza il suo risvolto illegale, come nessuna banca può sottrarsi al ruolo “istituzionale” di lavanderia del denaro sporco. La legge non è fatta per essere rispettata, bensì per creare uno spazio vantaggioso di illegalità, riservato però ai privilegiati. Le cosiddette teorie cospirative presuppongono una visione ultra-ottimistica del potere, per la quale compiere abusi ed illegalità non rappresenterebbe la consueta routine del sistema di dominio, bensì una deroga che richiederebbe una congiura preventiva. Va anche detto però che molto spesso l’etichetta mediatica di “teoria della cospirazione” viene applicata apposta per ridicolizzare coloro che in realtà stanno parlando di pratica della corruzione.
La magistratura è costretta a garantire l’impunità ai privilegiati perché purtroppo deve occuparsi di pericoli ben più seri, come la “galassia” anarco-insurrezionalista. Il fatto di sottovalutare il loro grado di criminalità non è l’unico torto che si fa alle nostre oligarchie, in quanto non si apprezza a sufficienza quanto si curino persino della nostra vena ludica, proprio come gli animatori nei villaggi turistici. Siamo infatti comandati da criminali che offrono ai propri sudditi un “luna park” in cui divertirsi, giocando a farsi da poliziotti gli uni con gli altri, come si è visto durante la psicopandemia.