Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Tempi duri per chi si illudeva di impallinare questo governo fascio-nostalgico a colpi di politicamente corretto. Dopo la Meloni, che a Washington si è convertita al Greta-pensiero ed al mantra della minaccia da CO2, ora abbiamo anche il “politicamente Crosetto”, per cui il nostro supermacho ministro della Difesa si incarica di epurare l’esercito da quelli che dicono che gli omosessuali non sono normali, mentre i militari che la sera vanno a trans, invece sono normalissimi. D’altra parte da uno che ha come ideale della vita buttarsi da un aereo per andare ad ammazzare gente, non puoi aspettarti che dica cose sensate, perciò questa ricerca del “militarmente corretto” appare un po’ pretestuosa. Il punto è che oggi si rimuove uno che dice scempiaggini, in modo però da stabilire il precedente che ti consenta domani di zittire chi cerchi di riferire qualche dato di fatto che disturba la narrativa dominante.
Il politicamente corretto gradua la sua ipocrisia in modo da lasciare comunque un notevole margine di incertezza, dimostrandosi intercambiabile nei ruoli ed anche effimero e aleatorio nei contenuti. La principale regola della sottomissione sociale è di non darti mai modo di essere perfettamente in regola, per cui devi sentirti sempre sotto esame e pronto all’umiliazione adattandoti alla mutevole verità imposta dai media. L’immagine dei mussulmani è un esempio da manuale dell’estemporaneità del politicamente corretto, per cui i mussulmani sono buoni in Bosnia e Kosovo, ma sono terroristi in Mali; nel vicino Niger però il presidente mussulmano è il paladino della democrazia, mentre gli ufficiali cristiani che hanno fatto il golpe, sono invece amici di Putin. Non potremo mai sapere con certezza quando l’islamofobia sia politicorretta e quando no; e lo stesso vale per la questione dell’accoglienza dei migranti. A suo tempo il ministro Crosetto “rivelò” che i migranti ci venivano mandati dal Gruppo Wagner per farci guerra ibrida. Per aver detto questa scemenza Crosetto venne coperto di ridicolo; ma oggi la stessa cosa ce la dice il governo della “nuova superpotenza” della NATO, la Polonia, e per i media diventa sacrosanta. Anzi, veniamo a sapere che addirittura i miliziani Wagner in Bielorussia addestrano i migranti a fare atti di terrorismo.
L’attuale narrativa mediatica sulla Polonia è un altro esempio dell’ambiguità del politicamente corretto, del “doppio taglio” di certe affermazioni, un po’ come quando ti sfottono facendo finta di lodarti. Il messaggio che da qualche mese i media ci stanno propinando è appunto che la Polonia sarebbe la potenza emergente della NATO, che ha l’esercito più forte d’Europa, e che Putin ne ha tanta paura e non ci dorme la notte. In certi articoli però non ci si fa mai capire del tutto se il cronista che ci illustra tanta grandeur ci creda davvero, oppure ci stia soltanto raccontando un delirio con compassionevole accondiscendenza; quindi i polacchi potranno all’occorrenza essere spacciati come eroi oppure come gonzi, a seconda di come dovessero mettersi le cose sul campo di battaglia.
Tra i nuovi mestieri che sono nati in questi mesi c’è anche quello del “polaccologo”, dell’esperto di psicologia polacca, che ci spiega quali siano i pensieri profondi del polacco, le sue fobie ed i suoi sogni nel cassetto. Il giornalista Domenico Quirico si è già accreditato per la cattedra, ma ne vedremo proliferare degli altri, come è successo con i virologi. C’è anche qualcuno che risulta scettico sui “volksgeist” e ritiene che le classi dirigenti raramente siano espressione di un popolo ma, più facilmente, di una combinazione di affari e di media. Spesso ad assicurarsi il potere è una cosca di lobbisti dotata sia di agganci internazionali, sia della sponda di un settore interno di opinione pubblica; un settore magari molto minoritario, ma comunque abbastanza compatto e prevedibile da consentire un’agevole manipolazione mediatica, tanto da sconcertare ed allineare il resto della società. Non è affatto necessario essere maggioranza, basta dare l’impressione di esserlo, in modo da intimorire anche chi non sia d’accordo. Il quotidiano “il Messaggero” ultimamente si è concentrato sulla narrazione a proposito di Polonia, però con un taglio piuttosto capzioso, non lasciando mai intendere se stia descrivendo una realtà oppure una bolla affaristico-mediatica. Nel resoconto non manca qualche accenno ai debiti contratti dal governo polacco per riarmarsi, ma senza entrare troppo nei dettagli.
Il filo conduttore della polaccologia sembra lo stesso che si è riscontrato nella virologia, cioè la spesa per prodotti mirabolanti che, quasi sempre, si rivelano dei bidoni. La virologia serve a spacciare sieri che costano troppo, mentre alla polaccologia corrispondono armi che costano troppo. L’analogia tra sieri e armi non è arbitraria, visto che l’emergenzialismo pandemico ci è stato venduto con metafore belliche. Il problema è che la spesa militare non comporta necessariamente la potenza militare. Il governo polacco si è indebitato per dotarsi dell’inefficace sistema antiaereo “Patriot”, ma non si è fatto mancare bidoni anche da altri fornitori. All’inizio della guerra i media ci avevano raccontato delle eccezionali performance dei droni “Bayraktar”, di fabbricazione turca, che avevano seminato il terrore nelle forze armate russe. Ognuno di questi droni turchi costa tra uno e due milioni di dollari, ed il governo polacco non ha voluto farseli mancare. Ora ci si fa sapere che la contraerea ucraina ha dovuto abbattere un proprio drone “Bayraktar” sfuggito al controllo. Ogni sistema d’arma, per quanto innovativo, può essere neutralizzato con qualche accorgimento; perciò, se per quel sistema d’arma si è speso troppo, tutto il sistema di difesa ne viene compromesso.
Se la spesa militare fosse veramente finalizzata alla difesa, allora terrebbe conto del fatto che ogni guerra accelera l’obsolescenza dei sistemi d’arma e soprattutto il loro consumo, quindi non avrebbe senso darsi la zappa sui piedi sprecando risorse per qualche costosa arma feticcio. Il quotidiano confindustriale ci fa sapere che il nostro governo avrebbe fatto un vero affarone commissionando quindici esemplari del nuovo Eurodrone da bombardamento, alla modica cifra di soli due miliardi; quindi, nonostante il super sconto ottenuto, si vanno a pagare oltre centotrenta milioni a drone; una bella fregatura se il nemico riesce ad interferire col sistema di guida del tuo drone e poi sei costretto tu stesso ad abbattertelo. Nessuno dei nostri alti ufficiali ha fatto obiezioni per una spesa di due miliardi per quindici droni che si rischia di consumare in mezza giornata di vera guerra, e dopo sei costretto a rubare la fionda al nipotino. Tutto si spiega se si tiene conto che nella produzione dell’Eurodrone è coinvolta anche la nostra Leonardo Finmeccanica, che è quella che decide le carriere militari.
Un risvolto involontariamente comico di questo modo di intendere le spese militari, ce lo propone un articolo del Washington Institute, un centro studi filoisraeliano, che parla degli effetti dei droni “Shahed” nel conflitto in Ucraina. Questi droni kamikaze, di produzione iraniana, vengono lanciati nella mischia a centinaia, perché costano poco, tra i sette ed i ventimila dollari l’uno. Per avere un raffronto, basti considerare che Lockheed Martin ha dichiarato che forse (forse!) riuscirà ad abbassare a ventimila dollari i costi di un’ora di volo del caccia F-35. Anche quando vengono abbattuti, quegli straccioni di “Shahed” ottengono lo scopo di fiaccare le difese nemiche, dato che il missile che li abbatte costa più del drone. Secondo l’articolo queste armi “low cost” rischiano di destabilizzare tutto il Medio Oriente e minacciano anche gli USA. Il tono dell’articolo è di indignata denuncia, poiché producendo queste armi che costano troppo poco, gli iraniani hanno barato al gioco. Questi comportamenti anomali rischiano infatti di degenerare: a furia di voler spendere poco in armi, si potrebbe arrivare a non spenderci affatto, magari rischiando persino di rinunciare del tutto a fare guerre.
Su una piccola approssimazione si possono costruire enormi edifici di mistificazioni, quindi bisogna essere precisi. Quando qualcuno bara un po’ sui dati e sulle date, allora i nostri media mainstream corrono immediatamente ai ripari, però nel modo che gli è congeniale, cioè sparando ancora più scemenze. Il giornalista Paolo Mieli ha ottenuto, chissà come, una patente di storico, e ciò gli consente di entrare a gamba tesa su tutti gli argomenti; perciò laddove prima c’era solo confusione, egli può prontamente seminare il caos. Pare che in Russia un testo scolastico abbia offerto un’immagine negativa di Michail Gorbaciov, attribuendogli un’ingenua fiducia nei confronti degli USA e, indirettamente, persino la responsabilità dell’attuale conflitto con l’Ucraina. Di fronte a queste ingenerose valutazioni, Mieli, come un novello Giove Pluvio, manifesta la propria indignazione scatenando un diluvio di puttanate a proposito di Stalin, dei confini polacchi e così via; insomma, tutta roba che non c’entra niente.
Nel curriculum di Gorbaciov purtroppo ci sono davvero documentati dei crimini orrendi, come la sua partecipazione al Festival di Sanremo nel 1999; per quanto riguarda altri aspetti però la sua figura è tirata spesso in ballo a sproposito, a fare da capro espiatorio per situazioni che in realtà non dipendevano da lui. Si può cercare di rimettere ordine attingendo ad una fonte che il mainstream considera particolarmente attendibile, come l’archivio del “Washington Post”. Nel settembre del 1985 il prestigioso quotidiano della capitale degli USA dava la notizia che il capo del governo polacco dell’epoca, il generale golpista Jaruzelski, sarebbe arrivato a New York, insieme col primate cattolico polacco Glemp, per conferire con alcuni banchieri, tra cui David Rockefeller. Nella memoria polacca questo episodio dell’incontro del 1985 tra Jaruzelski e Rockefeller è un po’ come per noi italiani l’aneddoto del panfilo “Britannia” del 1992, cioè l’avvio della svendita della Polonia ai privati. Gorbaciov era diventato Segretario del PCUS nel marzo del 1985, sei mesi prima di quell’incontro; quindi, in base alle date, il colpevole per aver ispirato quella svendita della Polonia sembrerebbe proprio lui. Sennonché nel corpo dell’articolo c’è un dettaglio che è ancora più interessante dell’incontro tra Rockefeller e Jaruzelski, e cioè che nel 1985 la Polonia era già soffocata dai debiti con banche occidentali.
Da un articolo del “Washington Post” del 1982 scopriamo anche che l’indebitamento con le banche occidentali riguardava tutti gli Stati dell’Europa dell’Est sotto il controllo sovietico, ed anche un paese socialista classificato come “non allineato”, come la Jugoslavia si trovava carico di debiti. Nell’articolo c’è un dettaglio persino più importante, e cioè che quell’indebitamento dei paesi dell’Est Europa era cominciato negli anni ’70, quindi ben prima dell’arrivo di Gorbaciov alla guida del PCUS. Negli anni ’70 Mosca aveva già elargito ai suoi Stati satelliti del Patto di Varsavia la “libertà” di indebitarsi con l’estero, quindi di diventare sudditi delle banche occidentali.
Questi dettagli delimitano di molto le responsabilità di Gorbaciov per la smobilitazione del Patto di Varsavia, visto che Mosca non avrebbe mai potuto farsi carico dei debiti dei suoi Stati satelliti; anzi, il fatto che quei debiti fossero stati contratti, costituiva il segno che da tempo l’occupazione sovietica dell’Europa dell’Est era economicamente insostenibile. Per quanto riguarda invece la questione ucraina, Gorbaciov ha veramente un alibi di ferro, in quanto nelle modalità dell’indipendenza ucraina egli non risulta aver avuto alcun ruolo, semplicemente perché ormai non contava più nulla. Dal “Washington Post” del dicembre 1991 veniamo a sapere che la smobilitazione dell’Unione Sovietica era avvenuta per accordi diretti da parte dei governi della Federazione Russa, dell’Ucraina e della Bielorussia. Gorbaciov, sebbene formalmente ancora alla presidenza dell’URSS e contrario alla sua dissoluzione, era stato ignorato e scavalcato. Tra l’altro il presidente russo Eltsin nell’agosto del 1991 si era affrettato a riconoscere l’indipendenza ucraina. Se c’era qualcuno che doveva chiedere garanzie di non adesione dell’Ucraina alla NATO prima di riconoscerne l’indipendenza, questo era proprio Eltsin.
L’espansione della NATO ad est è stata un atto ostile e aggressivo nei confronti della Russia, ma non comunque tale da configurare la famosa “minaccia esistenziale”. Più la NATO si espande, più diventa vulnerabile, perché le nuove adesioni non possono compensare in termini di potenza la dilatazione del territorio da difendere. Persino i missili collocati in Polonia, che sono certamente un segno di irresponsabilità della NATO, oggi di per sé non comportano uno squilibrio di forze, perché dal 1962 la tecnologia è cambiata. Nel 1962 l’Unione Sovietica era minacciata dai missili nucleari installati dalla NATO in Turchia; missili talmente vicini da non lasciare il tempo di reazione. Per restituire il favore, il Cremlino installò a sua volta missili a Cuba; ne sortì una famosa crisi che si concluse con il contestuale ritiro dei missili sia da Cuba, sia dalla Turchia. La propaganda occidentale ha sempre messo in ombra il dettaglio del ritiro dei missili dalla Turchia, facendo passare la vicenda come una mera ritirata di Mosca; ma queste omissioni fanno parte del gioco. Il punto è che con i nuovi sistemi automatizzati come il “Perimeter” russo, il problema del tempo di reazione non esiste più; anche se si piazzano i missili nucleari sotto il naso del nemico, ciò non ti salva comunque dal colpo di rappresaglia.
L’Ucraina è una cosa diversa, perché significa controllare la Crimea ed il Mar d’Azov, cioè il Mar Nero, verso il quale si era attuata la proiezione dell’impero moscovita per secoli. Non per nulla, le zone limitrofe al Mar Nero (Crimea e Donbass) erano state meticolosamente “russificate” dal XVIII secolo in poi. Lo sviluppo tecnologico ha cambiato molte cose ma non la dipendenza dal mare come principale via di trasporto; a meno che non s’inventi il teletrasporto come in Star Trek. La responsabilità di non aver reclamato i territori russi prima di riconoscere l’indipendenza ucraina, ricade quindi su Eltsin o, più precisamente, sulla sua cosca d’affari. La cosca evidentemente doveva avere un motivo per agire con tanta fretta, al punto da ignorare secoli di storia russa. Il motivo della fretta è più chiaro se si seguono i soldi. Sempre secondo la fonte del Washington Post, nonostante diatribe e cause legali, l’Ucraina è stata per decenni il cliente di Gazprom più importante dopo la Germania. Per Eltsin e Gazprom si trattava di trasformare gli ex sudditi in clienti paganti, perciò si sono preferiti i soldi alla Santa Madre Russia. Nei fattacci ucraini Gazprom non ha un alibi, in compenso ha un movente.
L’attuale conflitto tra la NATO e la Russia viene spacciato dai media come uno scontro ideologico tra democrazia e autocrazia, oppure tra globalismo e nazionalismo. In realtà chi lo dice è il primo a non crederci ed a sapere che le ideologie non c’entrano niente, in quanto l’impero russo ha cercato di evolversi in un imperialismo puramente commerciale. Allo scopo le oligarchie russe non hanno esitato a scatenare un attacco alle proprie classi subalterne ai limiti del genocidio (solo che non l’ha fatto Stalin, quindi da noi si è fatto finta di non accorgersene). È stata l’aggressività della lobby delle armi statunitense a bloccare la transizione dell’imperialismo russo al livello affaristico/commerciale. La lobby delle armi ha portato il suo azzardo ad un livello di ludopatia, contagiando una parte di opinione pubblica che ora assiste alla guerra come se fosse un videogioco. Tanta irresponsabilità è dovuta al fatto che la Russia, a differenza dell’URSS, non è percepita davvero come una minaccia; e ciò non perché si creda che la Russia sia debole, ma perché si coglie la sostanziale affinità col suo sistema d’affari. Il paradosso sta nel fatto che la falsa coscienza delle classi dominanti nel sistema capitalistico non è assolutamente in grado di percepire il pericolo se questo non si esprime come sfida ideologica. È proprio questa falsa coscienza a rendere i conflitti intercapitalistici molto più pericolosi e distruttivi dei conflitti ideologici.
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