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"Le decisioni del Congresso Generale saranno obbligatorie solo per le federazioni che le accettano."

Congresso Antiautoritario Internazionale di Ginevra, 1873
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.

Di comidad (del 10/12/2007 @ 14:06:33, in Testi di riferimento, linkato 1604 volte)

Presentiamo un breve testo di Piercy Ravenstone, economista inglese, il cui vero nome era Richard Puller. Il testo è ancora valido per una serie di motivi: demolisce la mitologia del Capitale, rivela l'aspetto magico/religioso del concetto, mette in ridicolo i suoi profeti e cantori, lo pone in concreta relazione con la spesa pubblica e con la rendita, lo oppone al lavoro umano, dimostrando che non c'è capitalismo senza appropriazione e gestione a fini privati del pubblico denaro. Soprattutto, è un testo del 1821, quindi il carattere mistificatorio del capitalismo era già chiaro allora, per chi lo voleva vedere. Anche Marx conosceva Ravenstone, perché lo ha citato in nota nel "Capitale"(Libro I, sez. IV, cap. 13, nota n.° 196), però per questioni diverse, quindi è stata una precisa scelta di Marx quella di non tenere conto della sua denuncia del capitalismo, e della "scienza" economica che lo supporta, come fenomeni ideologici. Nell'attuale retorica ufficiale il dio Capitale è stato in parte soppiantato dal dio Mercato, un'altra astrazione mitologica, utile ad attribuire tutti i problemi ad una presunta necessità superiore e impersonale, contro la quale sarebbe vano opporsi, distraendo così l'attenzione dalla vera questione: gli interessi affaristici di precise oligarchie finanziarie e commerciali.
Comidad, dicembre 2007

Nel 1821 un certo Richard Puller aveva pubblicato con lo pseudonimo di P. Ravenstone un libro dal titolo "Qualche dubbio sull'esattezza di alcune opinioni generalmente accolte in materia di popolazione ed economia politica". Ecco quel che Ravenstone dice all'inizio del capitolo intitolato "Del capitale":

Ma arriveremmo a una visione molto imperfetta degli effetti della rendita e delle tasse, se dimenticassimo le conseguenze che derivano dalla creazione di capitale. Il capitale è figlio della rendita e delle tasse, il loro costante alleato, il loro confederato in tutte le intromissioni e usurpazioni che esse compiono nei confronti dell'operosità umana. Esso è per meglio dire, il pioniere che apre loro la strada. È la grande causa che opera a gonfiare il numero degli oziosi, e ad addossarne il fardello all'intera società. Tuttavia non è molto facile farsi un'idea precisa della natura del capitale. Esso è certamente un essere affatto diverso dai suoi associati. La rendita e le tasse hanno un'esistenza aperta e dichiarata: il modo in cui operano lo abbiamo sotto gli occhi. Calcolandone l'ammontare siamo in grado di fare una stima dei loro effetti; i loro movimenti avvengono alla luce del giorno, le loro pretese non sono dissimulate. Si tratta di sostanze visibili e tangibili. Le loro proprietà possono venire accertate nel crogiuolo dell'esperienza; possono venire sottoposte alla prova dei loro effetti pratici. Ma per il capitale non è così. Esso non ha che un'esistenza metafisica. Per quanto i suoi effetti possano essere ovunque toccati con mano, la sua presenza non può essere individuata da nessuna parte. La sua natura incorporea è per sempre al di fuori della nostra portata. Nessuno ha mai visto la sua forma; nessuno sa dove dimori. Il suo potere non sta in se stesso; non agisce se non con mezzi presi a prestito. I suoi tesori non sono una ricchezza reale, ma soltanto rappresentazioni della ricchezza. Possono venire accresciuti fino a ogni quantità immaginabile, senza aggiungere nulla alle reali ricchezze di una nazione. Il capitale è come l'etere sottile degli antichi filosofi: sta vicino a noi, attorno a noi, si mescola in tutte le cose che noi facciamo. Per quanto di per sé invisibile, i suoi effetti sono anche troppo evidenti. Il capitale non è meno utile ai nostri economisti di quanto lo fosse l'etere per i filosofi. Serve a dar conto di qualunque cosa non possa essere spiegata altrimenti. Dove la ragione viene meno, dove l'argomentare è insufficiente, esso opera come un talismano per mettere a tacere tutti i dubbi. Nelle loro teorie occupa lo stesso posto che era tenuto dalle tenebre nella mitologia degli antichi. È la radice di tutte le loro genealogie, la grande madre di tutte le cose, la causa di ogni evento che accade nel mondo. Il capitale, secondo loro, è il padre dell'operosità, il precursore di ogni processo. Esso costruisce le nostre città, coltiva i nostri campi, canalizza le acque vaganti dei nostri fiumi, ricopre di boschi le nostre aride montagne, trasforma i nostri deserti in giardini, decide che sorga la fertilità ovunque prima era la desolazione. Esso è la divinità della loro idolatria, che hanno innalzato al culto nei luoghi sacri del Signore; e se la sua potenza fosse quale essi la immaginano, non sarebbe certo indegno della loro adorazione.

Piercy Ravenstone,

A few doubts as a correctness of some opinions generally entertained on subjects of population and political economy,
London, J. Andrews, 1821.


A proposito del testo qui sopra abbiamo ricevuto una replica e si è sviluppato un piccolo dibattito. Gli interessati lo trovano su questa pagina.

 
Di comidad (del 22/04/2007 @ 14:13:22, in Testi di riferimento, linkato 7664 volte)

"Questo è l'unico dei miei racconti di cui conosca la morale. Non è una morale meravigliosa, non credo; si dà soltanto che io sappia di quale morale si tratti: noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere.
… Suppongo che se fossi nato in Germania, sarei stato nazista, e avrei massacrato ebrei, zingari e polacchi, lasciando sporgere i loro stivali dai cumuli di neve, riscaldandomi all'idea della mia segreta virtù. Così è la vita."
Kurt Vonnegut (dall'Introduzione a "Madre notte")

 

La morte di Kurt Vonnegut ci costringe a rintracciare note e appunti e a deciderci a dire la nostra su questo scrittore, non per obbedire al, peraltro rispettabile, rituale delle celebrazioni; ma perché questo evento è diventato l'occasione per i media per riapplicare a Vonnegut l'etichetta di scrittore satirico.

"Satira" è una definizione al tempo stesso riduttiva e generica se applicata a Vonnegut. La satira può basarsi sia sulla demistificazione, sia al contrario sulla riaffermazione dei luoghi comuni. Vonnegut è stato invece un demistificatore, e spesso la sua demistificazione ha avuto un effetto satirico, ma si tratta appunto di un effetto secondario.

Vonnegut ha dimostrato che lo scetticismo antropologico costituisce un'arma contro la sopraffazione, che le pretese del dominio e le pretese dell'umanesimo spesso si identificano. Idealizzare l'uomo è diventata una delle principali tecniche per sottometterlo e umiliarlo. Vonnegut  persegue un umanitarismo senza umanesimo, una difesa degli esseri umani senza illusioni su di loro, comprendendo quanto sia labile la loro identità e la loro consapevolezza di sé.  

L'umanesimo dell'800 contrapponeva l'Uomo a Dio, proponeva una divinizzazione dell'Uomo per congedare Dio. Oggi si deve ammettere che la maggiore obiezione all'esistenza di Dio è costituita proprio dalla constatazione di quanto faccia schifo l'umanità. Non può più valere la pretesa cristiana di giustificare l'esistenza del Male con la libertà che Dio avrebbe concesso all'Uomo, perché l'entità del Male che gli esseri umani possono esprimere è tale, che la sua responsabilità non potrebbe non ricadere su chi li avesse creati.

L'idealizzazione dell'Uomo è sostenuta  soltanto tramite la continua creazione propagandistica di "nemici dell'umanità", di mostri inumani, che consentano all'opinione pubblica di continuare a sostenere la finzione di una propria inconsistente superiorità morale.

Vonnegut ha adoperato il romanzo per tracciare dei modelli particolareggiati - dei paradigmi - del funzionamento dei meccanismi di potere. In uno dei suoi romanzi meno noti, "Madre notte" del 1961,  Vonnegut  racconta una storia che ha come protagonista uno scrittore americano - un drammaturgo di talento - che, nel corso della seconda guerra mondiale, accetta di diventare un agente infiltrato nelle file dei nazisti.

Howard W. Campbell jr. come personaggio ricalca la vicenda di molti altri scrittori che, come lui, nel corso del '900 si sono lasciati affascinare dall'avventura di diventare agenti segreti. Campbell - come D'Annunzio, o il colonnello Lawrence, o Silone, o Malaparte - è il tipico intellettuale decadente che vuol fare della sua vita un'opera d'arte, ed è quindi il candidato ideale per farsi reclutare dai servizi segreti.

Come Lawrence d'Arabia, Campbell è più di un semplice infiltrato, è un colonizzatore del campo avverso, al quale fornisce idee e motivazioni. In effetti Campbell non sa nulla di preciso del suo vero ruolo di agente. Diventa uno dei principali esponenti della propaganda nazista, affabula milioni di ascoltatori con i suoi discorsi antisemiti alla radio, e crede di far tutto ciò per passare informazioni agli Stati Uniti attraverso un codice segreto.

Alla fine del romanzo, vediamo Campbell in Israele, in attesa di essere processato come criminale nazista. Suo accusatore, un altro criminale nazista, che egli scopre però essere stato un infiltrato come lui, addirittura un agente antinazista di origine ebraica, ora in forza ai servizi segreti israeliani.

Anche Campbell avrebbe l'occasione di essere "riabilitato", poiché l'agente americano che lo ha reclutato sarebbe disposto, disobbedendo agli ordini dei suoi superiori, a testimoniare a suo favore. Campbell però si suicida prima. Il finale è ambivalente: Campbell ha preferito la morte perché tormentato dal rimorso, o perché non  ha sopportato la ulteriore vergogna della rivelazione di essere stato un simulatore?

Il suicidio di Campbell è una protesta contro la sua umana condizione di manipolatore rivelatosi a sua volta manipolabile, sino ad aver perduto qualsiasi traccia di una presunta identità originale.

Campbell ha fatto qualcosa di più che fornire informazioni ai suoi reclutatori: ha lavorato per confezionare per loro un avversario su misura, ha contributo cioè a creare quel mostro nazista che era funzionale all'intervento militare statunitense in Europa. Per passare semplicemente informazioni non occorreva un drammaturgo, ma per creare i personaggi di una rappresentazione serviva proprio un drammaturgo.   

Vonnegut vuol dimostrare che l'informazione è solo un'attività secondaria dei servizi segreti, la loro principale funzione è l'invenzione. Il colonnello Lawrence inventò la nazione araba, cosi come altri agenti anglo-americani riuscirono dal 1917 in poi ad inventare l'antisemitismo tedesco. Curzio Malaparte, nel romanzo "La pelle", rappresentò una Napoli corrotta che non era ancora reale, ma era però nei programmi dei colonizzatori americani per cui lavorava.

Il vero agente segreto non è un automa, ma è un creativo. Anche se il suo ruolo  non è del tutto consapevole, e si fraziona  all'interno di una catena di montaggio della mistificazione, l'agente segreto non si limita mai al riportare i fatti, egli determina i fatti. L' "Intelligence" è l'alibi degli apparati adibiti alla provocazione.   

Il prototipo dell'agente segreto viene comunemente riconosciuto in James Bond, mentre in effetti dovrebbe essere individuato nel suo autore Ian Fleming, che fu effettivamente agente dell'Intelligence Service britannico e consulente della Cia. Come un "creativo" della pubblicità, Fleming ci ispira falsi bisogni instillandoci false paure.

Quando un pubblicitario ci vende una scatoletta di tonno, non svolge davvero la sua funzione, perché fa leva su un'utilità e non fa altro che ricordarci che per quello scopo utile c'è anche quel prodotto oltre che quell'altro. Quando invece il pubblicitario ci fa provare terrore per gli acari, allora può indurci a comprare qualcosa che altrimenti non avremmo mai comprato.

Gli acari sono esseri minacciosi quanto invisibili che allignano fra noi, così come gli Ebrei negli anni '30 o i terroristi islamici oggi. Al Qaeda è come la Spectre dei romanzi di Fleming - così come Bin Laden è ricalcato sul dottor No o su Goldfinger -, non  è qualcosa di visibile come uno Stato, ma  è solo un fantasma che può essere evocato a piacimento.

Gli anni '60 furono gli anni del boom di James Bond e, mentre tutti erano impegnati a guardare la luna, Vonnegut, contrariamente al saggio cinese, ci suggeriva con "Madre Notte" di osservare invece il dito che la indicava. Attenti non a Bond, ma a Fleming.

Umberto Eco, nel suo saggio su Ian Fleming - che si trova nel libro "Il superuomo di massa" - attribuisce a questo autore una mera motivazione di intrattenimento. Fleming ricorrerebbe, secondo Eco, ad un'ideologia manichea per costruire fiabe in cui il Bene ed il Male, il bianco ed il nero siano evidenti.

Qui sembra che Eco voglia sottrarsi all'accusa di essere un ideologo del complottismo, un'accusa che, per un intellettuale accademico come lui, rappresenterebbe la morte civile. In realtà Eco sa benissimo che le fiabe non sono manichee, sono ambigue. Lo sapeva anche Walt Disney che si preoccupò di rendere la Regina Cattiva più attraente per i bambini di quanto non risultasse Biancaneve.

Inoltre James Bond non rappresenta il Bene, è solo il supercriminale idoneo a far fuori dei criminali. La dimensione fantastica ed iperbolica dei romanzi di Fleming serve a coprire il vero messaggio, che si insinua con naturalezza nella mente dei lettori e degli spettatori: Bond è la soluzione drastica ad un problema urgente, ad un'emergenza. Ciò che Fleming vuole ottenere è di convincerci che l'agente segreto affronta le emergenze, mentre invece nella realtà è egli stesso a crearle.

Howard W. Campbell jr. non fa parte di un generico "complotto", ma è lo strumento di una guerra coloniale. Anche Fleming è un colonizzatore, poiché abitua i popoli colonizzati a non ragionare in base alle minacce concrete ai propri interessi, ma gli insegna a temere oscure minacce verso categorie astratte, come il Mondo, l'Occidente o l'Umanità, categorie che coprono ovviamente gli interessi dei colonizzatori.


Comidad 22 aprile 2007

 
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


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