Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Il 17 dicembre ultimo scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato il cosiddetto “federalismo demaniale”, cioè il passaggio agli enti locali dei beni immobili attualmente di proprietà dello Stato. Si tratta dell’ennesimo espediente giuridico per consentire la privatizzazione di edifici e terreni del Demanio dello Stato. Il provvedimento porta la firma del ministro Calderoli, ma la “mente” (si fa per dire) del piano speculativo è sempre quella del ministro Tremonti, lo stesso ministro che due legislature fa aveva già provato, inutilmente, ad avviare una gigantesca privatizzazione dei beni demaniali dello Stato.
Il primo tentativo di Tremonti era stato bloccato per la sua evidente illegittimità, quindi il tentativo è stato ripetuto in questa legislatura seguendo strade diverse, cioè distraendo l‘attenzione con il trucco di finte riforme: le fondazioni universitarie, la gestione delle risorse idriche da parte di SPA, la trasformazione in SPA anche della gestione dei ministeri della Difesa e della Protezione Civile, ed ora persino il federalismo demaniale. Il filo conduttore di tutti questi provvedimenti è sempre lo stesso: i beni immobili dello Stato, delle Università, degli acquedotti, della Difesa, della Protezione Civile, passano di mano, non per essere venduti, e neppure svenduti, ma per essere semplicemente regalati ad affaristi privati.
Da quando Giulio Tremonti ha cominciato a vestire le penne del pavone “no global”, è riuscito a mettere a segno, nel silenzio quasi assoluto, la maggiore ondata di privatizzazioni della Storia italiana, strappando così a Giuliano Amato la palma di principe dei privatizzatori. Tremonti, in quest’opera di mistificazione/privatizzazione ha potuto avvalersi della complice omertà dei giornali di opposizione; infatti il lettore medio di “Repubblica” o del “Manifesto” non è a conoscenza della raffica di privatizzazioni attuata dal governo nel periodo natalizio.
Ovviamente il guinzaglio della mistificazione mediatica deve operare a vari gradi di lunghezza, poiché non tutta l'opinione pubblica è tanto distratta da non accorgersi di nulla; così "l'Espresso" è stato costretto a pubblicare alcuni articoli, in cui si è trattato sia del saccheggio dei patrimoni immobiliari della Difesa da parte del ministro La Russa, sia delle implicazioni affaristiche del ruolo di "manager" privato della Protezione Civile svolto da Guido Bertolaso. Il guaio è che lo stesso "Espresso" non si chiede come mai sia stato proprio il quotidiano del suo stesso gruppo editoriale, "La Repubblica", a fabbricare nei mesi scorsi l'icona santa di Bertolaso, rivelatosi ora uno squallido affarista.
A dispetto della complicità mediatica nei confronti del governo, non sono comunque mancate le denunce degli effetti delle privatizzazioni da parte delle associazioni ambientaliste, che hanno messo in particolare evidenza le reali implicazioni del sedicente “federalismo demaniale”, cioè la trasformazione di vasti terreni demaniali in aree edificabili, con una ulteriore cementificazione del territorio, e soprattutto delle coste. Quindi l’acquisizione delle aree demaniali da parte di Comuni e Regioni costituisce, a parere delle associazioni ambientaliste, solo la premessa di una privatizzazione a tappeto.
In questo quadro non è stato però considerato un altro effetto, che pure era scontato e implicito nel provvedimento del federalismo demaniale. Gli accampamenti di immigrati utilizzati come braccianti agricoli si trovano per la gran parte proprio su terreni demaniali; questi terreni, prima del provvedimento natalizio, non avevano alcun valore e, per questo motivo, la presenza degli immigrati era tollerata, anzi incentivata per avere a disposizione una massa di manodopera a bassissimo costo. Questi accampamenti ora compromettono il valore dei terreni e ne ostacolano la lottizzazione.
Ad appena venti giorni dal varo del federalismo demaniale, è stato preso di mira uno dei maggiori insediamenti di immigrati, quello vicino Rosarno, in Calabria. Una “provvidenziale” rivolta di immigrati a Rosarno ha consentito di sfollare in massa gli immigrati dai loro rifugi, situati per lo più in fabbriche abbandonate, come la ex Rognetta. A questo punto, il Comune di Rosarno - opportunamente e preventivamente commissariato per presunte infiltrazioni mafiose - non avrà alcuna difficoltà ad affidare i terreni demaniali in gestione alle ditte amiche del governo, come la famigerata Impregilo, insediatasi da tempo in Calabria con il pretesto della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina.
Qualunque giornalista esperto non avrà potuto fare a meno di notare la stranezza della coincidenza tra il varo del federalismo demaniale e la fretta sospetta con cui le ruspe sono andate ad abbattere i rifugi degli immigrati. Il punto è però che il giornalismo non ha la funzione di informare, ma quella di mistificare, cioè di diffondere fiabe utili a coprire le manovre affaristiche. I media si sono messi perciò a regalare agli immigrati la loro pelosa comprensione, cercando scusanti e attenuanti alla loro presunta rivolta, intrattenendoci su tutti i soprusi che hanno dovuto subire, che spiegherebbero la loro “rabbia”. Alcuni giornalisti si sono anche vendicati delle bocciature subite in gioventù agli esami di Storia Romana, lanciandosi in improbabili paragoni tra la presunta rivolta di Rosarno e le Guerre Servili della Roma antica. Il tutto è stato condito con una buona dose di razzismo contro i Calabresi, accusati disinvoltamente di essere xenofobi e mafiosi, dato che il razzismo antimeridionale non solo è ammesso, ma è considerato persino “politically correct”.
In realtà i dubbi sulla autenticità della rivolta sono più che fondati. Persino l’ipotesi che gli immigrati abbiano potuto reagire ad una serie di provocazioni, appare piuttosto aleatoria. Una vera difesa dei deboli non si fa accampando presunte giustificazioni alla “rabbia” degli oppressi, ma pretendendo prove per le accuse che sono state lanciate loro; altrimenti si fa come quei Pubblici Ministeri che, quando non hanno prove, puntellano le loro requisitorie trasformando le presunte attenuanti in presunti moventi, cosa che alla fine non gli impedisce neppure di chiedere l’ergastolo per l’imputato. Infatti, al di là delle espressioni di generica comprensione, nessun commentatore mediatico ha chiesto che gli sfollamenti venissero bloccati o, almeno, sospesi in attesa dell’accertamento delle effettive responsabilità.
I testimoni hanno visto infatti semplicemente degli uomini di colore che attuavano delle incursioni: il fatto che fossero delle persone di colore non implica che si trattasse effettivamente di immigrati africani. Avrebbero potuto anche essere dei militari, o dei mercenari di agenzie private di servizi militari, come la Blackwater. Una multinazionale edilizia come l’Impregilo non avrebbe nessuna difficoltà a reclutare personale del genere, dato che se ne serve abitualmente in varie parti del mondo.
In questa situazione ha giocato ancora una volta il pregiudizio favorevole ai ricchi, un pregiudizio che scorge la minaccia all’ordine sempre nei poveri e nei disperati, mentre i “ricchi soddisfatti” sarebbero al massimo colpevoli di egoismo e indifferenza. In realtà è proprio l’affarismo a costituire, da sempre, il principale fattore di destabilizzazione e sedizione. Il problema è che non si può privatizzare rispettando la legalità.
Nel caso del cosiddetto federalismo demaniale, tutto il provvedimento è basato sull'ipotesi inesistente di beni demaniali inutilizzati, quando invece, in un territorio ristretto come quello italiano, attorno ad ogni bene demaniale si stratificano una serie di diritti derivanti dall'uso. Insediandosi sui terreni demaniali, gli immigrati - che poi non sono nemmeno tutti clandestini - hanno acquisito di fatto dei diritti, per i quali non potevano più essere sfrattati così alla leggera. Ecco che allora lo sfratto degli immigrati, e la privatizzazione dei terreni, potevano effettuarsi soltanto inventandosi un'emergenza di ordine pubblico.
Nel corso dell’ultimo anno in molti si sono chiesti quale potesse essere il motivo della santificazione mediatica operata nei confronti di Guido Bertolaso, attuale boss della Protezione Civile. La risposta è arrivata dalla riunione del Consiglio dei Ministri del 17 dicembre ultimo scorso, quando il governo ha istituito una società per azioni per la gestione dei servizi della Protezione Civile, attuando quindi una vera e propria privatizzazione del settore. È da notare il fatto che negli stessi giorni in cui la privatizzazione veniva introdotta, Bertolaso intratteneva, e distraeva, l’opinione pubblica discettando con toni moralistici sull’opportunità o meno di darsi da fare per il salvataggio degli escursionisti più spericolati.
Sarà un caso, ma manco a farlo apposta, anche il ministro della Difesa Ignazio La Russa, qualche giorno dopo, rilasciava ai media analoghi commenti sulla sconsideratezza degli italiani fattisi rapire in Mauritania; e questo proprio mentre il ministero della Difesa veniva sottoposto anch’esso ad una privatizzazione, col solito trucco della SPA, in base all’articolo 2 comma 23 della Legge Finanziaria. In tal modo La Russa, da ministro della Difesa, è divenuto il padrone della Difesa.
Santificazioni e moralismo a vuoto sono serviti a distrarre la pubblica opinione dal vero scopo di queste SPA, che è quello di alienare a favore di società private, anche se a capitale pubblico, gli enormi patrimoni immobiliari della Protezione Civile e della Difesa. Ciò vuol dire che i proventi delle tasse spremute ai cittadini andranno a finanziare il furto di proprietà pubbliche, quindi un furto per finanziarne un altro.
Il trucco è sempre lo stesso: visto che non si può privatizzare un ministero, allora se ne privatizza la “gestione”, quindi i soldi sono pubblici, ma i profitti sono privati. Ma tutto ciò non costituisce un artificio legale, bensì una vera e propria illegalità, e per questo motivo era importante mettere tutti davanti al fatto compiuto il più velocemente possibile, in modo da creare un blocco di interessi e complicità che renda vani i tentativi di tornare alla legalità.
“Nelle correnti corrotte di questo mondo la mano dorata del delitto può scansare dalla giustizia, e spesso si vede il ricavato stesso del crimine servire a comprare la legge.” (Amleto, atto III, scena III).
È significativo che questa frase di Shakespeare sia stata scritta tra il 1600 ed il 1602, cioè nel periodo in cui nascevano in Inghilterra le prime Compagnie Commerciali, come la Compagnia delle Indie Orientali, antenata delle attuali multinazionali, istituita formalmente il 31 dicembre del 1600. Nel teatro inglese dell'inizio del '600 - definito con tipico falso storiografico come "elisabettiano", quando invece la regina Elisabetta non ebbe assolutamente nulla a che vederci -, era frequente lanciare denunce sociali camuffandole con gli espedienti dell'arte retorica barocca. L’espressione poetica “correnti corrotte” ("corrupted currents" nell'originale di Shakespeare) sembra infatti alludere proprio ai percorsi delle navi della Compagnia delle Indie.
Le Compagnie Commerciali erano organizzazioni criminali specializzate in traffico di merci ottenute attraverso la pirateria, organizzazioni talmente redditizie da potersi permettere di comprare a posteriori la loro legalizzazione, anzi, tutta una serie di privilegi legali. Le Compagnie Commerciali non solo ottennero il privilegio di esercitare i loro commerci in regime di monopolio, ma anche quelli dell'esenzione da qualsiasi imposta, beneficiando in più di regolari sussidi statali, in modo da potersi permettere di fare concorrenza da posizioni di vantaggio anche nei confronti dei produttori locali inglesi. Insomma, nulla di diverso dal repertorio delle attuali multinazionali.
Per giustificare i privilegi delle Compagnie Commerciali, nacque nel corso del ‘700 e dell’800 anche una “scienza economica”, che chiamò tutto questo “libertà di commercio” o “libero scambio”. La sedicente “scienza” economica si incaricava perciò di sovvertire le evidenze della realtà, avvolgendole nel fumo del mito. Il cosiddetto “capitalismo” - in realtà affarismo criminale assistito dallo Stato - consiste infatti nella fusione della delinquenza comune legalizzata con la tecnica pubblicitaria, per cui, ad esempio, il rubare viene oggi presentato con lo slogan: “introdurre criteri di efficienza e meritocrazia”.
A questo punto non c’è più bisogno neanche di complotti, basta il conformismo, per il quale chi voglia far carriera nel mondo della comunicazione sa istintivamente ciò che deve raccontare al popolo. In una recente intervista rilasciata a "Repubblica Radio-TV", Roberto Saviano ha avuto la faccia tosta di affermare che, per salvare la Campania dal potere delle organizzazioni criminali, è necessario un intervento della “parte sana dell’imprenditoria”, cioè la Confindustria. Come a dire che per combattere delle organizzazioni criminali occorre affidarsi ad un’altra organizzazione criminale, quella stessa organizzazione criminale - Confindustria, appunto - che ha ottenuto la legalizzazione e santificazione dell’asservimento più avvilente del lavoro attraverso la Legge 30; asservimento ribattezzato dai pubblicitari dell’affarismo criminale come “flessibilità”. Ed è la stessa Confindustria che pretende e ottiene quotidianamente dal governo “soldi veri” per finanziare appalti e privatizzazioni.
Il filo di continuità di queste carriere giornalistiche che cominciano in testate come " Il manifesto", proseguono a "La Repubblica", e finiscono alla Mondadori, sta appunto in questa mitizzazione del cosiddetto capitalismo, celebrato dapprima sotto le parvenze di una finta critica, e poi glorificato spudoratamente come salvezza del mondo.
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