Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Che l’Unione Europea non fosse solo una questione di “zero virgola” nei bilanci, di ottusità di Juncker o di arroganza della Germania, è stato dimostrato ancora una volta dalla sortita della settimana scorsa da parte del presidente Obama in presenza del primo ministro britannico Cameron. Obama ha praticamente ammonito il Regno Unito sulle nefaste conseguenze commerciali a cui andrebbe incontro nell’eventualità di un’uscita dall’Unione Europea. La Gran Bretagna è stata esplicitamente trattata come una colonia qualsiasi, e l’irritualità della presa di posizione di Obama, la sua palese ingerenza negli affari interni di un altro Paese alla vigilia di un voto referendario, è stata tanto più stridente poiché in passato alla stessa Gran Bretagna era stato riservato un riguardo da colonia di serie A.
In un primo momento la protervia di Obama ha provocato irritazione nel Regno Unito, tanto che alcuni commentatori hanno cercato di assumere posizioni cerchiobottiste: dar torto ad Obama nella forma delle dichiarazioni ma, al tempo stesso, dargli ragione nel contenuto.
Una collaboratrice di “Al Jazeera English” ha ricordato che non bisogna indebolire la coesione dell’Europa nel momento in cui ci sono la minaccia del terrorismo e, soprattutto, quella di Putin. Non si poteva essere più chiari di così: l’Unione Europea è organica alla NATO e quindi
i Britannici stiano attenti a come votano. C’è da sottolineare che “Al Jazeera” è un’emittente dell’emiro del Qatar, che è un ex (?) protettorato britannico, risulta attualmente il maggior finanziatore dell’ISIS, ed è anche un Paese coordinato con la NATO; perciò la parola di “Al Jazeera” vale come quella dell’MI6, il servizio segreto britannico.
Qualche giorno dopo arriva però l’agenzia “Reuters” ad annunciare che, secondo
un sondaggio, i sudditi britannici hanno gradito l’ingerenza di Obama e che le sue parole avrebbero addirittura spinto nel senso di aumentare i favorevoli a restare nella UE. Siamo all’operazione subliminale: dapprima Obama assume atteggiamenti da super-capo di Stato, poi i media cercano di convincere il pubblico che la maggioranza delle persone accetta con gioia la sua tutela. Chi aveva dubbi che il referendum britannico fosse una barzelletta, se li può togliere.
Una volta giunto ad Hannover in Germania, Obama ha accentuato le sue pose da tutor, distribuendo lodi e rimproveri, riaffermando il primato morale della Merkel in Europa e facendoci persino sapere come vuole che l’UE si comporti in futuro. L’Europa era già tutta una predica (da un po’ ci si è messo anche Draghi), ma i predicozzi elargiti da Obama sono veramente irresistibili per quella fintosinistra piddina o rifondacomunista, per la quale colonizzare ed educare sono la stessa cosa; e forse ha ragione a pensarlo. Il pensiero progressista è ormai degenerato in “animabellismo”, quindi si prova repulsione verso qualsiasi atteggiamento scettico e critico nei confronti del peloso umanitarismo ufficiale, perché se non pensi positivo sei cattivo.
Chi invece aveva sperato che la posizione statunitense sulla UE fosse di benevola neutralità, deve ora amaramente ricredersi. Non vi è dubbio che l’ingerenza di Obama getterà scompiglio e timori nelle correnti di opinione anti-euro, che non avevano preventivato di doversela vedere direttamente con l’alleato/padrone. Molti avversari dell’euro scopriranno improvvisamente nella moneta unica virtù recondite che inizialmente gli erano sfuggite. Probabilmente lo scopo dell’esibizione di Obama era proprio quello di mettere paura.
Come già Reagan, Obama svolge la funzione presidenziale come quella di un semplice addetto alle pubbliche relazioni, che possono diventare anche psicoguerra, cioè provocare frustrazione, avvilimento e terrore, e non solo tra gli avversari. Quando si dice “pubbliche relazioni” non bisogna però pensare che si tratti di una funzione marginale, poiché il cosiddetto capitalismo non è altro che crimine organizzato con in più un apparato pubblicitario di persuasione e distorsione della percezione della realtà. Lo stesso “liberismo” non è una dottrina economica, ma una sfacciata réclame delle privatizzazioni e della finanziarizzazione.
In Italia le dichiarazioni di Obama non hanno trovato nella comunicazione ufficiale un’eco adeguata alla gravità dell’umiliazione che queste comportano. Il “dibattito” interno è ora incentrato su dichiarazioni ben più consone al nostro uditorio, quelle del magistrato Piercamillo Davigo circa la corruzione dei nostri politici. Per il Movimento 5 Stelle è stata una boccata di ossigeno questa occasione di ritornare a parlare a tutto campo del tema autorazzistico preferito, la corruzione appunto. Il culto della magistratura è più vegeto che mai, nonostante che la repressione/provocazione giudiziaria contro i No-Tav avrebbe dovuto far capire che il lobbismo degli affari non è un’esclusiva dei politici, ma coinvolge anche i magistrati.
Nessun accenno al fatto che tutta questa corruzione potrebbe, almeno in parte, aver a che fare con la colonizzazione. Lo stesso crimine organizzato di tipo mafioso svolge di fatto in Sicilia, ma anche in Campania e altrove, il ruolo di milizia coloniale della NATO; ma sono quelle cose che inducono anche i magistrati antimafia, che prima di scoprirle sono aggressivi e baldanzosi, a diventare poi sempre più malinconici e fumosi.
A proposito di corruzione, il “Fatto Quotidiano” ora scopre persino che
Renzi è al centro di una rete di lobbismo internazionale. Siamo al culto della personalità in negativo. Sarebbe più realistico sostenere che esiste un colonialismo delle multinazionali e che Renzi è solo uno dei tanti lobbisti in circolazione; anzi, uno dei tanti addetti alle pubbliche relazioni.
Come alcuni ogni tanto ricordano, anche Mussolini ebbe il suo “euro”. Nel 1926 il Duce lanciò lo slogan della “Quota 90”, che indicava il tasso di cambio della lira con la sterlina inglese che il regime intendeva perseguire in nome dell’orgoglio italico. Quella rivalutazione massiccia della lira comportò il massacro delle esportazioni italiane e dei consumi interni, ma in compenso rese l’Italia degna di accedere ai prestiti statunitensi.
Non a caso in quel periodo Mussolini era santificato dalla stampa estera, ed anglosassone in particolare, come il più grande italiano dai tempi del Rinascimento. Per riscuotere celebrazioni di questo calibro basta farsi benvolere dalle banche multinazionali. L’Italia arrivò così già stremata da cinque anni di deflazione all’appuntamento della grande crisi degli anni ‘30. Solo allora ci si orientò verso un’altra politica economica, lasciando un po’ da parte gli economisti “liberisti”, per rivolgersi invece a personale formatosi nella cerchia dell’ex Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Uno dei risultati di quella nuova politica economica fu la nascita dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, il più grande colosso industriale italiano fino a quando Romano Prodi non ne avviò lo smantellamento.
La liquidazione delle critiche anti-euro in termini di manifestazioni di nazionalismo o “sovranismo” non corrisponde quindi alla realtà storica, dato che l’ingerenza imperialistica è stata sempre trasversale alle ideologie ed alle forme di governo dei Paesi sudditi. “Democrazia” o dittatura, nazionalismo o sovranazionalismo, per la lobby imperialistica della deflazione sono solo orpelli retorici intercambiabili. Nei meccanismi di potere vi sono perciò delle costanti che si ripresentano al di là dell’esteriorità dei regimi, e non c’è solo la deflazione, così cara alle multinazionali finanziarie, che temono che i loro crediti possano essere erosi dall’inflazione.
Un’altra invarianza del potere consiste nella sua tendenza alla infantilizzazione delle masse, soggette ad un educazionismo incessante, strette nella forbice del rimprovero pretestuoso e della lode umiliante. Ma l’infantilizzazione funziona a due sensi, poiché il potere finisce per infantilizzare anche se stesso reclutando quel personale più disponibile ad una comunicazione che fa dell’irresponsabile malafede il proprio esclusivo punto di forza.
Mentre l’Italia si trova sotto la simultanea aggressione del cannibalismo bancario della Germania e della guerra commerciale dell’asse franco-britannico - che dal 2011 non fa mistero di voler estromettere le aziende italiane dal circuito degli affari col mondo arabo -, il governo Renzi si arrocca ancora sulla fiaba dell’aver salvato l’Italia dagli Italiani. Finché queste buffonate le fa uno come Renzi, ciò rientra nel ruolo e nei compiti dei fantocci coloniali incaricati di intrattenere il grosso pubblico. Ma quando è anche il vero capo del governo, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, a rilasciare certe dichiarazioni auto-screditanti, allora ciò vuol dire che la pratica dell’infantilizzazione ha sortito i suoi effetti di ritorno con un generale rincretinimento. All’ultima riunione del Fondo Monetario Internazionale, Padoan non ha esitato a rendersi ridicolo, insistendo sulla
litania del “come siamo stati virtuosi” e del “come ci apprezzano”, sebbene avrebbe dovuto sapere che le sue parole sarebbero giunte ad un uditorio tutt’altro che disposto a prenderlo sul serio.
Una conferma del feedback del rincretinimento ce l’ha fornita lo stesso uomo dell’euro, Romano Prodi. Da parecchi anni l’ex primo ministro spagnolo, José Maria Aznar, diffonde per l’Europa un aneddoto secondo cui Prodi nel 1992 gli avrebbe chiesto di concertare un ingresso ritardato nell’euro da parte dei Paesi del Sud-Europa. A quella proposta di Prodi, Aznar avrebbe reagito con l’orgogliosa determinazione di essere più bravo degli Italiani e di entrare prima di loro nel paradiso dell’euro. Questa “accusa” di Aznar, per quanto puerile, avrebbe potuto comunque andare a conforto dell’ipotesi di un barlume di buonsenso e di sana esitazione da parte di Prodi nel momento in cui ci si andava a precipitare nell’abisso dell’euro. In un periodo come questo servirebbe persino a rilanciare la sua immagine, parecchio deteriorata proprio dal disastro dell’euro. Macché. Prodi non perde occasione per
smentire indignato quell’aneddoto: non sia mai che si pensi che non abbia voluto essere il primo della classe quando si è trattato di entrare nell’euro. Il marchio dei collaborazionisti è il senso della competizione fine a se stessa, anche quando questa competizione va contro l’istinto di conservazione. Insomma, ci si tiene a passare a tutti i costi per “virtuosi”. Ma la “virtù”, in questo caso, consiste in una dolosa stupidità.