Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Agli inizi del 2016 la stampa diffuse la notizia che un
film biografico sul campione olimpico Jesse Owens, vincitore di quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino del 1936, ripristinava la verità storica sul famoso aneddoto secondo cui Hitler si sarebbe rifiutato di stringere la mano al “negro” Owens. Sulla base della testimonianza e dei documenti fotografici forniti dallo stesso Owens, si è potuto ricostruire che in realtà Hitler strinse la mano al campione olimpico statunitense; fu invece proprio il presidente USA Franklin Delano Roosevelt a rifiutarsi di ricevere Owens alla Casa Bianca.
Le anticipazioni di stampa sul film furono poi smentite dai fatti, poiché si vide che la trama di “Race” continuava ad attenersi alla vecchia e falsa versione ufficiale, e non faceva alcun cenno alla discriminazione da parte di Roosevelt. I produttori di “Race” avevano investito una montagna di soldi, per cui non potevano correre il rischio di ritrovarsi il film emarginato dalla distribuzione. Anche tutti i tentativi di Owens di convincere i giornalisti a pubblicare la vera versione dei fatti, avevano ottenuto solo comprensione umana, poiché nessun giornalista se l’era sentita di giocarsi la carriera narrando di un Roosevelt più razzista persino di Hitler.
Eppure quegli avvenimenti, se inquadrati storicamente, risultano del tutto logici. Hitler non aveva nulla da perdere a compiere quel gesto ipocrita di
stringere la mano ad Owens; anzi aveva tutto l’interesse a non sollevare incidenti diplomatici e ad accreditare l’immagine rassicurante che la Germania nazista voleva offrire di sé nel 1936. Al contrario, Roosevelt con quell’ipocrisia avrebbe irritato il suo elettorato democratico del Sud, che era rigidamente segregazionista. Oggi negli USA il Partito Democratico è il partito delle minoranze etniche, ma sino agli anni ‘50 era stato molto più zelante del Partito Repubblicano nel difendere le leggi segregazioniste. Ciò fa comprendere quanto sia ridicolo da parte dei commentatori europei attribuire le categorie ideologiche di destra e sinistra ai partiti statunitensi, che sono meri comitati elettorali.
L’intervento statunitense nella seconda guerra mondiale non assunse alcuna connotazione ideologica in senso antirazzista, e le regole segregazioniste rimasero in vigore all’interno delle forze armate. Quella connotazione ideologica antirazzista fu attribuita solo a posteriori in funzione della guerra fredda e del confronto ideologico con il comunismo sovietico. Alla vigilia di un intervento militare nel Sud-Est asiatico, gli USA non potevano più permettersi di concedere alla propaganda sovietica quell’argomento sul razzismo americano, che sarebbe stato molto efficace nei confronti di popoli di colore.
Kennedy e il suo successore Johnson formalizzarono l’abolizione delle leggi segregazioniste. Nonostante le resistenze violente da parte dei segregazionisti, il processo riuscì ad andare avanti, e non solo per gli interessi imperialistici in gioco, ma anche per un motivo interno alla società statunitense. Lo sviluppo economico consentiva infatti un aumento dei redditi ed un ascensore sociale agli americani “bianchi”, per cui le gerarchie erano comunque preservate e garantite dal divario nell’incremento del reddito, in media decisamente più basso per le minoranze etniche, che vedevano comunque anch’esse un certo miglioramento delle proprie condizioni.
Dal punto di vista delle oligarchie quella crescita del reddito dei ceti più bassi fu percepita però come un pericolo per l’assetto gerarchico, poiché per i ricchi il divario razziale non si focalizza sul colore della pelle ma soprattutto sulla ricchezza: sono i poveri ad essere considerati la razza inferiore, cioè la differenza di reddito segna la superiorità o l’inferiorità anche sul piano antropologico. Il “disagio” dei ricchi fu espresso in un documento della Commissione Trilaterale del 1975,
“La Crisi della Democrazia”, un vero e proprio manifesto del vittimismo padronale. Ad essere sotto accusa nel documento non era realmente la “democrazia”, che non è mai esistita, bensì quella mediazione politica che aveva consentito ai redditi più bassi di crescere. Era quindi lo sviluppo economico a dover essere frenato, in modo da impoverire le classi subalterne, mentre l’accumulo delle ricchezze dei pochi doveva essere assicurato dalla finanza.
Già alla fine degli anni ’70 l’incremento del reddito delle classi medie e lavoratrici si arrestò e, con la vittoria statunitense nella guerra fredda, si è avviato un processo inverso, addirittura di pauperizzazione. Da circa trenta anni il reddito degli americani “bianchi”, la cosiddetta “middle class”, che negli USA si identifica in gran parte con la classe lavoratrice, tende a precipitare e ad avvicinarsi pericolosamente a quello delle minoranze etniche. Ecco che allora rinasce prepotentemente il problema per i bianchi poveri di “essere almeno meglio dei negri e degli ispanici”.
Nella società gerarchica il non discriminare le minoranze diventa così un lusso, o un vezzo, di chi sta ai vertici della gerarchia sociale, mentre il “popolo” non può più permettersi di non discriminare, se non a prezzo di declassarsi nella scala gerarchica. Il politicamente corretto affronta il dramma della “middle class” con un analogo schema gerarchico, ma ci aggiunge anche un tocco simile a quello della infelice battuta ingiustamente attribuita alla ignara e inconsapevole Maria Antonietta: “Se non hanno pane, perché non mangiano brioche?”. Dalla “middle class” che vede sprofondare le sue aspettative di benessere, il politicorretto pretenderebbe infatti che non rimanga attaccata al proprio passato, che non sia nazionalista e “reazionaria”, bensì che diventi aperta, progressista come i miliardari filantropi.
All’animabellismo dei politicorretti si è falsamente “contrapposto” l’animabruttismo del cialtrone Trump, che però, guarda caso, è anche lui un miliardario e un oligarca, quindi un “santo” della religione politicorretta; perciò anche il suo “rimedio” è consistito nel beneficare i ricchi, perché potessero, bontà loro, dar lavoro ai poveri.
Si è detto che i fatti di Capitol Hill avrebbero messo in crisi il “soft power” statunitense. Può darsi. In compenso agli USA rimane l’hard power, e non c’è potere più “hard” di quello di creare emergenze. Adesso infatti ci sarebbe una nuova emergenza: il “trumpismo”, che non è finito con il tramonto della presidenza del cialtrone Trump. Anzi, saremmo solo all’inizio dell’emergenza “trumpismo”. Minacciosamente ci si ricorda che Trump ha un seguito di settantaquattro milioni di elettori, ovviamente tutti armati, compresi i vecchietti. Lo scorso anno
un “futurologo” americano, George Friedman, aveva già previsto che gli USA sarebbero precipitati in una sorta di nuova guerra civile, da cui però l’America risorgerà, per citare Petrolini, “più bella e più superba che pria”.
La nuova emergenza americana ha immediatamente contagiato (o suggestionato?) l’Europa, che sarebbe piena anch’essa di “trumpiani”, i “sovranisti”. Come anche altri “opinion leader”, Massimo Giannini lancia l’allarme ed individua
un primo pericolo in Giorgia Meloni, troppo tiepida nel prendere le distanze dall’assalto al Congresso USA. La Meloni è fascista e bulletta, e in più ha lo sguardo cupo, tipico di chi vuole assaltare i parlamenti, perciò è facile da incastrare. Ben pochi però potranno essere considerati immuni dal sospetto di contagio: faranno i tamponi e, se ti troveranno positivo al “trumpismo”, saranno cavoli.
Tutto questo viene spacciato per antifascismo, mentre in realtà è apologia di fascismo (che in Italia sarebbe pure un reato), poiché si accredita l’idea che un movimento di estrema destra possa affermarsi contro l’establishment, per pura spinta dal basso, esclusivamente in base alla relazione del popolo con un leader carismatico. In tal modo non solo si mitizza il fascismo, ma soprattutto si dà un'assoluzione a tutte quelle oligarchie che hanno appoggiato e foraggiato la nascita del fascismo e del nazismo e gli hanno permesso di costituirsi in regimi. In realtà dal basso possono nascere solo rivendicazioni salariali e spinte alla redistribuzione del reddito: esattamente ciò che le oligarchie vogliono evitare; ed è questo uno dei principali motivi per cui si sta sempre in emergenza. Non è affatto vero che le lotte salariali affosserebbero l’economia, ma è invece verissimo che scardinano le gerarchie sociali; ed è questo il motivo per cui nel 1969 si rispose alle rivendicazioni salariali con le bombe e le stragi, cioè con l’emergenzialismo.
Il livello di redistribuzione del reddito (la quota salari) è l’indicatore, la lancetta, del grado di gerarchizzazione di una società. Ma le vere gerarchie non sono quelle istituzionali e statuali, bensì quelle antropologiche: la super-razza eletta di “quelli che contano”. Il razzismo non è una semplice questione di bianchi e di neri.
Il presunto aspirante autocrate Donald Trump si è fatto umiliare e isolare per mesi da Twitter, e nessuno si è chiesto che senso avesse per un presidente in carica andarsi a calare le brache davanti ai social network, invece di comunicare esclusivamente attraverso canali istituzionali, come ad esempio i siti web governativi. In tal modo il cialtrone Trump ha fatto la figura dello sfigato e, con ciò, ha riscosso la simpatia di altri sfigati, a cui però non ha offerto un messaggio di liberazione, semmai di ulteriore frustrazione. Questa massa frustrata, imbevuta di mitologia americana, è andata ad esprimere la sua rabbia impotente di fronte ad un’altra istituzione che non conta più niente, il Congresso; riscuotendo così il disprezzo inorridito delle “sinistre” politicorrette e, soprattutto, facendosi spacciare come una minaccia per la “democrazia”; ed eccoti pronta una nuova “emergenza” ad uso dei media.
In un sistema ormai drogato di emergenza basta il suono del campanello per far salivare tutti gli affaristi, i politici e i giornalisti all’unisono, come i cani di Pavlov; con una compattezza tale che nessuna cospirazione potrebbe mai assicurare. Tutto diventa emergenza, anche e soprattutto i presunti rimedi all’emergenza. La campagna di vaccinazione di massa sta già diventando una nuova emergenza.
Come era prevedibilissimo, la Pfizer non rispetta le consegne ed ora c’è il rischio che non ci siano le dosi per fare il richiamo ai primi vaccinati, sottoponendoli quindi ad una grave condizione di stress e di ansia. In più c’è chi propone che
il vaccino sia distribuito prioritariamente alle Regioni più produttive, perciò c’è chi reagisce indignato, protestando che il vaccino debba essere distribuito senza discriminare i poveri. Ci si accapiglia come se in Italia non ci fossero milioni di persone dispostissime a cedere ad altri il privilegio di vaccinarsi per primi: e non perché si tratti di no-vax, ma semplicemente perché va contro il buonsenso fidarsi di un vaccino prodotto a miliardi di dosi. Se Pfizer non è in grado nemmeno di garantire la regolarità delle consegne, perché dovrebbe essere capace di assicurare uno standard qualitativo nella produzione? Quindi il vero messaggio che risulta da tutta questa storia è che vaccinarsi non è una misura sanitaria, bensì un rituale di sottomissione ad un potere bizzoso che ci sovrasta.
Lo stesso Recovery Fund, quello che avrebbe dovuto “salvarci”, è diventato anch’esso un’emergenza, innescando addirittura una crisi di governo. Ci avevano raccontato che sarebbe arrivata dall’Europa una massa di soldi incredibile, come non l’abbiamo mai vista. Il bengodi si è invece trasformato in caos: non ci sono i “progetti”, e fate presto a fare i “progetti”, e così via. Fioccano assurdi paragoni tra il Recovery Fund ed il Piano Marshall. Ci si dimentica che nel dopoguerra l’Italia aveva un apparato produttivo semidistrutto, mentre ora è integro e solo sottoutilizzato. L’unica analogia è che oggi, come nel dopoguerra, si vorrebbe utilizzare la parte non a debito dei fondi per metterli in attivo di bilancio, in modo da ridurre il debito pubblico. Nel dopoguerra il ministro del Tesoro di allora, Luigi Einaudi, fu costretto dagli USA a spendere i fondi, perché c’era il pericolo comunista. Oggi che questo pericolo non c’è, l’italica avarizia dovrebbe trionfare.
In realtà l’Italia non avrebbe bisogno né del Recovery Fund, né del MES. L’uno e l’altro sono comunque nuovi debiti, perciò per affrontare la situazione sarebbe sufficiente il normale debito pubblico, che, peraltro, è richiestissimo. In Asia sia la Cina, sia il Giappone, sono
compratori di debito pubblico italiano, poiché è noto che l’Italia è ancora una potenza industriale e i debiti potrà ripagarli.
Il meccanismo emergenziale però non si fa scalfire dall’evidenza. L’allarmismo deve trionfare, poiché l’allarmismo genera business e, soprattutto, l’allarmismo rafforza le gerarchie sociali ed internazionali. Ciò significa ulteriore compressione dei salari ed ulteriori spinte autocoloniali, invocando la tutela della Germania, chiamata a far da garante contro le possibili pretese delle classi subalterne.
Altre emergenze si stanno preparando. L’Interpol ci fa sapere che il crimine organizzato sta già partecipando al banchetto dell’emergenza Covid. Milioni di attività imprenditoriali e commerciali stanno passando sotto il controllo delle varie mafie.
Secondo l’Interpol ci sarebbe persino il rischio che dosi di vaccino vengano sottratte dalle organizzazioni malavitose. Per farne che? Non importa. L’importante è non fare nulla adesso per impedire che migliaia di attività falliscano, anzi, far di tutto perché siano fagocitate dal circuito delle mafie. Al di là dell’ipocrisia delle denunce e delle condanne ufficiali, il crimine organizzato ha pur sempre un suo ruolo nella “gerarchia reale” della società, in quanto rappresenta un collettore che immette le microimprese nel circuito globale della finanza.
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Ringraziamo Claudio Mazzolani e Mario C. “Passatempo” per la collaborazione.