Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Dopo le dichiarazioni del vicepresidente della Camera ed esponente del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, sulle responsabilità delle Organizzazioni Non Governative nel traffico di migranti, sono immediatamente cominciate sui media le esegesi alternative sul documento dell’agenzia europea Frontex che aveva dato origine a quelle stesse dichiarazioni. La parola d’ordine è “minimizzare”, ricondurre il rapporto Frontex al rango di lamentela per le inevitabili agevolazioni per il traffico di migranti che l’attività “umanitaria” delle ONG involontariamente determinerebbe. In questo senso si esprime, ad esempio, il quotidiano “La Repubblica”.
Nulla di più prevedibile di questa levata di scudi dei media a favore delle ONG, se si considera che le stesse ONG, le fondazioni ed in genere il settore del cosiddetto “non profit” (ovvero della non tassazione), con il loro imperialismo “umanitario” svolgono un ruolo decisivo, e complementare al ruolo delle multinazionali, sia nella circolazione internazionale dei capitali, sia nella destabilizzazione dei Paesi attraversati da quella circolazione. L’ultima “manovrina” del governo Gentiloni riconferma tra i suoi provvedimenti persino una “immunizzazione” dall’IVA già decisa lo scorso anno a beneficio delle ONG; ciò a riprova del potere lobbistico del “non profit” ad alibi umanitario.
La guerra è un effetto, una conseguenza diretta, della mobilità dei capitali, ma la povertà ne costituisce invece la precondizione essenziale. I capitali non possiedono alcuna vitalità economica intrinseca e la loro circolazione può esercitarsi soltanto in condizione di vantaggio assoluto nei territori che vanno a conquistare. Per questo motivo è così importante che esistano agenzie sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale che impongano ai governi politiche di austerità, di privatizzazione dei servizi pubblici e di vincolo di bilancio in nome di un illusorio “sviluppo” futuro: è la pauperizzazione forzata dei popoli a conferire potere contrattuale agli investimenti esteri.
L’analisi economica del capitalismo può arrivare solo sino ad un certo punto, oltre il quale diventa fuorviante, poiché il capitalismo va analizzato soprattutto come fenomeno criminale. Oggi il linguaggio moralistico è diventato pervasivo, perciò anche il termine “criminale” rischia di essere interpretato in questo senso morale. In realtà il capitalismo è criminale nel senso tecnico-giuridico del termine, in quanto si basa sulla svalutazione preventiva e fraudolenta di ciò che va a saccheggiare, sia il lavoro, sia i beni immobili, sia le attività produttive. La migrazione, ad esempio, viene presentata o come fuga dalle guerre (ed in parte è vero) o come fuga da condizioni economiche insopportabili. Questo quadro viene spesso corredato da ipocrite recriminazioni sui Paesi sviluppati che non aiuterebbero abbastanza i Paesi sottosviluppati.
Di fatto sono invece i vincoli imposti ai governi dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale ad imporre la disoccupazione; e questa stessa disoccupazione non serve solo ad abbassare i salari di chi ancora lavora, ma costituisce la materia prima per business finanziari come i prestiti in funzione della migrazione. In un Paese come il Bangladesh i “migration loans” costituiscono un business che avviene alla luce del sole, con agenzie come BRAC, specializzate nei prestiti ai lavoratori disoccupati per finanziare la loro migrazione. Popoli che vengono considerati ai margini dello sviluppo, risultano in effetti integrati pienamente nel circuito dei “servizi” finanziari. BRAC agisce non solo in Asia ma anche in Africa, dove evidentemente fa un buon lavoro, viste le masse africane che spinge alla migrazione. Non ci si sorprenderà infine di sapere che BRAC è una Organizzazione Non Governativa che ostenta finalità umanitarie. Il coinvolgimento delle ONG nella migrazione va quindi ben oltre la quisquilia segnalata da Frontex sulle relazioni illecite con i famigerati scafisti.
Il microcredito non è un “servizio” finanziario per chi vuole migrare, ma costituisce una vera spinta alla migrazione poiché per il disoccupato quel prestito rappresenta l’unica risorsa disponibile per coprire esigenze personali e familiari. Il microcredito ai migranti è uno di quei business “poveri” in cui sono coinvolte le grandi multinazionali finanziarie, a dimostrazione che la povertà è la fondamentale materia prima del capitalismo. Più si è poveri, più facilmente si diventa vittime del microcredito, cosicché la migrazione si rivela come uno dei comparti sociali più finanziarizzati. Si tratta di un business finanziario a basso rischio in quanto composto da milioni di piccoli prestiti; persino i casi di insolvenza rientrano nel business tramite il business collaterale delle agenzie di recupero crediti.
In uno studio del Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sulla Immigrazione (FIERI) del 2013 proprio sul tema del sovraindebitamento dei migranti, è stata concentrata la ricerca sulla comunità filippina in Italia, scoprendo così che la situazione è drammatica: dopo essersi indebitati per poter emigrare, si continua ad indebitarsi per coprire i debiti, all’infinito. Lo studio si conclude proponendo come “terapia” al sovraindebitamento dei migranti l’offrire loro prestiti in condizioni di “maggiore tutela”. Quindi si prospetta altro indebitamento.
Niente di strano se si considera che il FIERI è finanziato da fondazioni bancarie, prima di tutte la Compagnia di San Paolo. Ciò che poteva apparire come una ricerca finalizzata ad alleviare dei disagi sociali, era in effetti tutt’altro, cioè un’analisi di marketing per individuare un “target” per i propri servizi finanziari. Il “non profit” delle fondazioni private esiste solo in funzione di maggiore profit.
È probabile che il governo cinese non provi un particolare affetto per il regime nord-coreano. Sta di fatto però che la Cina non può permettersi che la “democrazia occidentale” (cioè i missili e i soldati USA) arrivino ai propri confini. I toni miti che la dirigenza cinese sta usando in questa ennesima crisi tra Stati Uniti e Corea del Nord non devono ingannare. Quando si tratta dell’integrità del proprio territorio i dirigenti cinesi sono inflessibili e possono diventare anche imprevedibili, dato che capiscono benissimo che il vero bersaglio dell’attivismo militare statunitense non è la Corea del Nord ma la Cina stessa. Che si tratti di intimidazione o di diretta minaccia al territorio, non è dato ancora capirlo; ma il confine tra l’intimidazione e la minaccia diretta è molto labile.
Dal 1972 sembrava che gli USA avessero compreso di non poter fronteggiare contemporaneamente Russia e Cina; anzi, l’alleanza commerciale con la Cina, inaugurata dal famoso viaggio di Nixon, era stata una delle chiavi della vittoria nella guerra fredda. Sembrava anche che la lobby commerciale che ha spinto CialTrump alla presidenza USA fosse intenzionata a riallacciare i rapporti con la Russia per concentrare il fuoco sulla concorrenza commerciale cinese; invece le ultime mosse dell’Amministrazione americana scompaginano questo quadro. Cos’è accaduto?
Una notizia del marzo scorso avrebbe potuto spiegare molte cose; una notizia che, sebbene anticipata dal “Financial Times”, è stata invece poco rilevata dai media. Il fatto riguarda l’arrivo negli USA di duecento miliardi di dollari di investimenti dall’Arabia Saudita; duecento miliardi nei prossimi quattro anni: guarda caso proprio il periodo del primo mandato presidenziale di CialTrump.
Si ha un bel dire che questi duecento miliardi saranno investiti nell’economia reale e rilanceranno produzione e consumi, ma sono belle chiacchiere e il dato vero è che, ancora una volta, la mobilità dei capitali ha sconfitto l’economia reale. Per re-industrializzare gli Stati Uniti occorrerebbero anzitutto sbocchi commerciali, sia interni che esterni, un obiettivo che si raggiungerebbe anzitutto ridimensionando la concorrenza cinese. Che allo scopo si ricorra ai dazi o ad una drastica svalutazione del dollaro, poco importa, ma l’una o l’altra soluzione disturberebbero la finanza globale, la quale non gradisce che si frappongano ostacoli alla circolazione delle merci, perché per ogni merce che si importa c’è come corrispettivo un capitale esportato; e la finanza globale tantomeno gradisce che i debiti si svalutino. Prima di tutti ovviamente la pensano così i grandi detentori del debito USA, come i Sauditi.
Uno sbocco commerciale all’industria statunitense comunque i Sauditi lo garantiscono: le armi, di cui la monarchia saudita è il principale cliente. La guerra anti-sciita condotta con crescente e genocida ferocia dall’Arabia Saudita nello Yemen (nel silenzio dei media) è una vera manna per il traffico di armi USA ed infatti gli stessi USA la sostengono con le incursioni aree a base di droni. Ma la guerra non va tanto bene: i primi a defilarsi dall’alleanza con l’Arabia Saudita sono stati gli Emirati Arabi Uniti, poi si è defilato l’Egitto. Se non fosse per l’appoggio di Stati Uniti e Regno Unito, le cose per la petro-monarchia saudita si metterebbero davvero male.
Qualche settimana fa i cultori della parodia del politicamente corretto sono andati in brodo di giuggiole per il fatto che il Primo Ministro britannico Theresa May sia andata in visita in Arabia Saudita senza il velo islamico, dimenticando che la petro-monarchia saudita costituisce storicamente una creatura dei servizi segreti britannici. La stessa setta islamica dei Wahabiti (peraltro di dottrina molto incerta) di cui la monarchia saudita è leader, rappresentava sin dal XVIII secolo uno strumento dell’imperialismo britannico, dapprima in funzione anti-turco ottomana, poi in funzione di destabilizzazione dei regimi arabi laici. Nonostante l’appoggio di USA e UK, l’Arabia Saudita in queste ultime settimane è diventata persino bersaglio dei missili dei guerriglieri sciiti; guerriglieri armati dall’Iran, anch’esso sciita, ma, soprattutto, maggiore avversario geopolitico dell’Arabia Saudita nell’area del Vicino Oriente.
Si comprende quindi che gli USA in Siria siano andati in soccorso della santa alleanza sunnita in funzione anti-sciita (cioè anti-iraniana), un’alleanza di cui il principale attore e finanziatore, nonostante il crescente protagonismo del Qatar, è ancora l’Arabia Saudita. Da decenni la petro-monarchia di Riad è il principale reclutatore e finanziatore di guerriglieri islamici, che la stessa petro-monarchia sparge per il mondo. Che il cosiddetto “fanatismo religioso” costituisca un prodotto della mobilità dei capitali dell’Arabia Saudita e del Qatar non deve risultare strano: il denaro è suggestivo e carismatico, spesso si ha l’illusione di seguire un’idea mentre in realtà si sta seguendo solo il denaro che la sostiene.
Al denaro saudita si deve anche la destabilizzazione della Jugoslavia. Oggi persino i quotidiani occidentalisti come “Il Foglio” ammettono che negli anni ‘90 in Bosnia agirono, e furono determinanti, i jihadisti stranieri pagati da Riad, quindi non si trattò di una semplice guerra civile, come ci era stato narrato. All’epoca invece la propaganda “occidentale” diede tutta la colpa ai Serbi ed al “nuovo Hitler” di turno, Milosevic.
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