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"Le decisioni del Congresso Generale saranno obbligatorie solo per le federazioni che le accettano."

Congresso Antiautoritario Internazionale di Ginevra, 1873
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.

Di comidad (del 07/03/2019 @ 00:10:08, in Commentario 2019, linkato 8428 volte)
I media ci narrano che il Partito Popolare Europeo è in agitazione per le posizioni xenofobe di uno dei suoi membri, il primo ministro ungherese Viktor Orban, resosi protagonista di un virulento attacco personale contro il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, accusato di voler distruggere l’identità europea con l’immigrazione. Alcuni esponenti del PPE hanno già chiesto l’espulsione del partito dello stesso Orban dal gruppo parlamentare europeo.
La sceneggiata in sé è poco appassionante, semmai risulta interessante il fatto che l’Ungheria non corra alcun rischio reale di invasione migratoria, ciò a causa della sua debolissima moneta, il fiorino. Quella stessa moneta debole che attira capitali e delocalizzazioni, non è infatti in grado di attirare migranti. Il lavoratore migrante può far fruttare i suoi magrissimi guadagni soltanto attraverso il cambio da una moneta forte ad una moneta debole, un cambio che moltiplica il potere d’acquisto. Se la moneta fosse già debole in partenza, il povero migrante non potrebbe spedire nulla a casa, non potrebbe mantenere la famiglia, non potrebbe nemmeno ripagare il debito contratto per sostenere la spesa della migrazione.
L’Ungheria possedeva già un “muro” invalicabile contro i migranti, cioè la sua debole moneta. Il muro vero e proprio quindi non serve all’Ungheria ma ai suoi Paesi limitrofi, come l’Austria e la Germania. Orban perciò si fa bello davanti al proprio elettorato spacciandosi per l’argine ad un’inesistente invasione e, al tempo stesso, si incarica del lavoro sporco di impedire il passaggio di migranti per conto dei suoi vicini.
La migrazione è solo un anello della finanziarizzazione, cioè della libera circolazione dei capitali, ma su quella Orban non apre bocca, dato che, per ora, è proprio lui uno dei miracolati dal sistema della mobilità dei capitali. La vera spada di Damocle sospesa sull’Ungheria è infatti che l’attuale afflusso di capitali esteri si trasformi improvvisamente in deflusso lasciando il deserto economico. Orban attira capitali esteri drogando il sistema con periodiche svalutazioni del fiorino e continue diminuzioni delle tasse, ma non è detto che il gioco possa riuscirgli all’infinito. L’Orban che cacciava il Fondo Monetario Internazionale dall’Ungheria è ormai un pallido ricordo ed ora invece c’è l’Orban che ha trasformato il proprio Paese in un ostaggio dei capitali stranieri.
Niente di strano nel fatto che Orban cerchi di coprire il proprio asservimento al capitale straniero con la solita propaganda contro gli stranieri deboli, cioè i migranti. Il vero problema è che il mito fasullo dell’invasione accomuna sia gli xenofobi che gli xenofili, sia gli “animabruttisti” come Orban e Salvini, sia gli “animabellisti” della sedicente “sinistra”. Spiegare ad uno di “sinistra” che non è in atto alcuna invasione migratoria, chiarirgli che il migrante non può permettersi di recidere il legame con la madre patria se non a costo di rinunciare all’effetto-cambio, significa deluderlo amaramente poiché gli si sottrae la preziosa occasione di dare sfogo alla propria nobiltà d’animo. Bisogna credere all’invasione perché ti mette alla prova, ti dà modo di dimostrare che non sei razzista e magari nemmeno sessista e specista.

Il sistema mediatico schiaccia l’acceleratore della guerra civile tra buonisti e cattivisti e, a questo scopo, combina la prospettiva dell’apocalisse migratoria con il catastrofismo ecologico più spinto. Il lobbying finanziario si affida infatti ad esperti pubblicitari che conoscono i propri polli e sanno come manipolarli facendo leva sulle loro stesse convinzioni ideologiche. Non a caso uno dei mantra che vanno per la maggiore è quello di spacciare la migrazione come una conseguenza non del cambio delle valute ma del cambio climatico, cioè del riscaldamento globale.
Tutto l’attuale rapporto della “sinistra” con l’opinione pubblica consiste quindi nel pretendere dalle persone di essere migliori di quelle che sono, con il sicuro risultato di renderle peggiori. La politica così rinuncia ancora una volta a far politica. Un programma politico infatti non è un elenco di desiderata ma anzitutto una rappresentazione della realtà. Se la rappresentazione della realtà rimane quella del mainstream, è sempre e solo il mainstream a dettare il programma politico.
Domenica scorsa il principale partito della “sinistra”, il PD, ha celebrato le “primarie” per l’elezione del segretario. I quasi due milioni di votanti rappresentano un successo personale del candidato eletto, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Il plebiscito che gli è stato tributato è probabilmente dovuto al fatto che gli elettori del PD hanno creduto di aver trovato finalmente in lui la persona di normale buonsenso in grado di tirare fuori il PD dalle pastoie delle follie renziane.
Ma anche Zingaretti dovrà vedersela soprattutto col mainstream che non lo riconosce come nuovo leader del partito. Se infatti Zingaretti è il nuovo segretario a livello formale, i media continuano imperterriti a considerare Renzi il vero padrone del partito, per cui la questione in evidenza nel mainstream non è ciò che vuol fare Zingaretti, bensì quali saranno le mosse di Renzi.
 
Di comidad (del 28/02/2019 @ 00:00:32, in Commentario 2019, linkato 9163 volte)
Molti commentatori si sono chiesti quale necessità vi fosse di affibbiare gli arresti domiciliari ai genitori di Matteo Renzi. Forse non c’erano necessità giudiziarie, ma sicuramente vi era opportunità dal punto di vista comunicativo. Una semplice incriminazione, dati i trascorsi dei due soggetti, non avrebbe fatto notizia e sarebbe passata quasi inosservata. Grazie all’arresto c’è stato invece lo scoop. Il risultato comunicativo è il discredito ulteriore del PD attraverso la persona del suo principale boss, perciò un’eventuale caduta del governicchio Conte non potrebbe vedere candidarsi il PD come guida o componente della successione. Oggettivamente l’operato della magistratura costituisce ancora una volta un tirare la volata ad un governo “tecnico” a guida di Carlo Cottarelli.
L’amarezza dimostrata da Renzi è sembrata andare oltre l’ovvio dramma personale, come se egli in questa circostanza si fosse sentito fregato. La linea del “popcorn”, il sabotaggio dell’accordo di governo tra il PD e i 5 Stelle, è stata probabilmente suggerita a Renzi facendogli credere che in tal modo sarebbe stato lasciato in pace dal punto di vista giudiziario; invece così non è stato ed a Renzi non resta altra opzione che continuare a recitare la stessa parte.
Con la pesante condanna inflitta a Roberto Formigoni tramonta anche ogni prospettiva di un cambio di dirigenza in Forza Italia, un partito ancora legato ai resti mummificati del Buffone di Arcore. Formigoni era infatti l’uomo della “Compagnia delle Opere”, cioè la sola cosca industrial-finanziaria in grado di rilevare Forza Italia dalla dipendenza da Mediaset. Una volta che i “populisti” saranno stati fatti fuori dall’accumularsi dei dati economici negativi, la strada sarà spianata per Cottarelli.
Ormai è lecito dubitare di tutto, anche dei dati Istat che parlano di recessione in atto e di emergenza incombente. Tutto appare sin troppo provvidenziale ai fini di un commissariamento del Paese.
Che vi sia un lobbying mediatico e giudiziario, nemmeno tanto occulto, che grida “Cottarelli”, dovrebbe essere chiaro agli oppositori parlamentari del governo Conte; oppositori condannati invece a continuare la loro messinscena dell’additare un governo di bassissimo profilo come una minaccia per la sopravvivenza della specie umana. Dovrebbe anche risultare evidente che non è previsto spazio per la tradizionale mediazione politica nell’attuale piano di diretta colonizzazione dell’Italia da parte delle istituzioni sovranazionali come la BCE ed il FMI. Qui si dimostra la cronica incapacità della “politica” di far politica, cioè di uscire dai giochi di ruolo e di affrontare il vero nemico, quello non dichiarato, quello che anzi si presenta come l’operatore del “salvataggio” del Paese attraverso l’asettica chirurgia dei conti pubblici.

Non che i politici in blocco non sappiano che esiste una lobby della deflazione. A metà degli anni ’70 l’allora segretario del Partito Socialista, Francesco De Martino, dichiarò che la lotta all’inflazione non doveva diventare un pretesto per avviare politiche deflazionistiche, cioè falcidia della domanda interna attraverso il taglio dei salari, la deindustrializzazione e la disoccupazione. Il povero De Martino però fu lasciato solo davanti al ludibrio mediatico ed alle provocazioni del missino Giorgio Almirante.
Da un discorso parlamentare del 1978 contro l’ingresso nel sistema Monetario Europeo, pronunciato da Giorgio Napolitano ma scritto da Luciano Barca, risultava chiaro che anche il vecchio PCI era consapevole dell’esistenza di una lobby della deflazione. Eppure tale consapevolezza non ebbe alcun seguito nella linea del partito. In particolare non vi fu alcuna volontà di chiarire al proprio elettorato che la “crisi” è l’astrazione, o lo slogan, con cui si giustificano le misure deflattive.
Occorre ricordare che neppure a sinistra del PCI si fece nulla per uscire dalla consueta rappresentazione edulcorata del capitalismo. Le riviste “rivoluzionarie” continuarono imperterrite a proporre una concezione “sviluppista” del capitalismo e ad ignorare che il creare povertà può essere un obbiettivo in sé, poiché la povertà abbassa il livello dei salari e dell’inflazione e quindi impedisce che possa essere scalfito il valore dei crediti dei grandi “investitori istituzionali” nei confronti degli Stati.

Non si può ridurre il problema ad insipienza, codardia, opportunismo o tradimento di questo o quel gruppo dirigente di partito. È la stessa “arte” della politica a dimostrare la propria strutturale inferiorità nei confronti del lobbying. I politici vivono nel dubbio del da farsi, devono mettersi d’accordo tra loro, trovarsi dei leader e delle linee politiche. I politici si invischiano nelle proprie stesse dichiarazioni e si espongono continuamente al vedersi rinfacciate le proprie contraddizioni.
Mentre la politica vive nell’alea dell’incertezza e nel logorio della perenne competizione interna, i lobbisti hanno uno scopo preciso, sempre e solo quello. Il lobbying non ha bisogno di competere, di coordinarsi, di complottare e neppure di pensare, poiché tutto è già stabilito una volta per tutte, per cui si procede in modo automatico. Non c’è bisogno di strategia o di tattica ma solo di tecniche di pubblicità e di pubbliche relazioni. Il lobbista vive la beata serenità dell'automa, come Terminator.
La politica è intrinsecamente vulnerabile al lobbying, perché ogni politico ha bisogno di legarsi ai potentati del proprio territorio per assicurarsi finanziamenti e l’appoggio delle baronie elettorali e dei media. Ogni politico è costretto così a diventare un mezzo lobbista, mentre i lobbisti possono esserlo a tempo pieno.
Le lobby possiedono i media ma al tempo stesso non sono esposte al clamore mediatico che si concentra sempre sul politico di turno da osannare e poi affossare. Le lobby possono invadere l’apparato dello Stato e trasformare i funzionari pubblici in lobbisti inconsapevoli attraverso i corsi di formazione e di management. Ai funzionari pubblici più solerti, le lobby possono anche offrire porte girevoli per carriere folgoranti nel settore privato.
Vista la sproporzione di forze in campo, la vera domanda e perché mai si insista a tenere in “vita” il fantasma della politica, come se ancora vivessimo nelle Polis greche di venti o trentamila abitanti. La risposta è ovvia: il lobbying non ha interesse ad occupare il centro della scena ed è buona norma delle pubbliche relazioni lasciare ad altri il compito di rimediare le brutte figure. La politica deve rappresentare la dimensione del caos al quale soltanto l’intervento provvidenziale della “tecnica” può porre ciclicamente rimedio.
 
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


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