Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Nelle scorse settimane sono cominciate ad arrivare al governo Renzi le prime "critiche" per la mancata enfasi sul tema della lotta all'evasione fiscale. Più che di vere critiche si trattava però del consueto "porgere la battuta" su una questione che appare sempre al centro dell'attuale parodia di dibattito politico.
La lotta all'evasione fiscale sembrerebbe addirittura al centro dell'attenzione mondiale, con un diretto interessamento del G-20, imbeccato da alcuni rapporti stilati a riguardo dall'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) nello scorso anno, sulla questione della "concorrenza fiscale dannosa".
I costosissimi "rapporti" OCSE non erano altro che la solita rimasticatura di notizie già risapute, ma hanno ugualmente suscitato recriminazioni da parte di ambienti del sedicente "liberismo", che hanno persino paventato il pericolo di una omologazione delle legislazioni fiscali dei vari Stati, con la conseguenza di togliere quella presunta remora alla voracità del fisco costituita dall'esistenza di paradisi fiscali con cui doversi confrontare. La propaganda dei ricchi (anzi, il loro monopolio ideologico) tende sempre a presentarli come vittime di un fisco ingordo, posto al servizio delle esorbitanti pretese dei poveri. Ed ecco che anche una lobby delle privatizzazioni al servizio delle multinazionali, come è notoriamente l'OCSE, viene fatta apparire dal vittimismo dei ricchi come una insidiosa congrega di comunisti.
Si parla molto in questo periodo del caso della legislazione fiscale irlandese, che, sebbene leggermente modificata, consente ancora - anzi, meglio di prima - alle multinazionali del Web, come Google o Apple, di eludere la tassazione dei Paesi in cui fanno i loro affari.
D'altra parte l'Irlanda non può più essere spacciata come un caso di "libera concorrenza fiscale", dato che dal 2010 questo Paese è sotto il diretto controllo del Fondo Monetario Internazionale e dell'Unione Europea, un controllo che si esercita attraverso un "pacchetto" di misure economiche poste a condizione di un mega-prestito. Visto che il regime fiscale "paradisiaco" non aveva evitato all'Irlanda il tracollo finanziario - al contrario, lo aveva favorito -, appare ben strano che il "pacchetto" imposto dai "moralizzatori" non prevedesse un ritorno alla normalità fiscale.
L'OCSE ed il FMI non sono certo due estranei che parlano lingue differenti, dato che si tratta in pratica della stessa organizzazione. I rapporti del FMI e dell'OCSE a proposito dell'Italia sembrano infatti delle fotocopie, con le scontate e ricorrenti litanie sull'urgenza delle privatizzazioni e della diminuzione delle tutele sul lavoro. L'OCSE ha continuato ad insistere sulla necessità di privatizzare l'acqua anche dopo che l'esito referendario del 2011 sembrava aver chiuso definitivamente il discorso. Ma, ultimamente, le due organizzazioni internazionali hanno posto anche l'accento sull'aumento della base imponibile, da ottenere, manco a dirlo, con la "lotta all'evasione fiscale".
Che la lotta all'evasione ed all'elusione fiscale delle multinazionali vada oltre le dichiarazioni, è davvero molto irrealistico; perciò l'impressione è che si parli delle multinazionali, ma poi il capro espiatorio sarà al massimo il ceto medio, affidato alle cure del carnefice Equitalia. C'è da considerare però anche la possibilità che lo slogan della lotta all'evasione fiscale serva al FMI ed all'OCSE come contentino ed alibi mitologico per allontanare i riflettori dalle misure veramente concrete, e cioè le privatizzazioni. L'opinione pubblica progressista è stata addestrata a considerare le tasse come un culto laico, una sorta di religione civile, per la quale le tasse vanno pagate con un intimo godimento, poiché andrebbero a vantaggio del benessere della collettività. La chimera del ricco costretto a pagare le tasse, costituisce il sogno ricorrente dell'opinione progressista, costretta dalla propaganda a non soffermarsi mai a considerare l'ossimoro, la contraddizione in termini, contenuta nell'immagine del ricco che non evade il fisco. Alla fintosinistra piacciono gli ossimori, come dimostra anche la loro insistenza sul mettere insieme l'Europa e la "crescita".
Ma ciò che è pensabile non necessariamente è possibile; anzi, spesso non lo è. L'imporre legalità al privilegio è un controsenso, poiché il privilegio consiste appunto nella superiorità rispetto alle regole comuni. Sarebbe molto più facile e sensato abolire la ricchezza privata che imporle dei limiti. Del resto non sarebbe necessaria neppure una particolare ingegneria sociale, dato che non esiste una ricchezza privata che non sia legata in qualche modo ai flussi di denaro pubblico. La privatizzazione costituisce, da sempre, lo strumento principale dell'arricchimento privato, e le privatizzazioni comportano per la comunità un doppio impoverimento poiché non consistono soltanto nella perdita di un bene pubblico, ma devono essere finanziate dalla spesa pubblica in ogni loro fase.
Uno degli attuali bersagli della lobby delle privatizzazioni riguarda il settore dei beni culturali, lasciati decadere nell'incuria per presentare i privati come i salvatori della patria. Nelle rappresentazioni mitologiche della propaganda sedicente "liberista", ci si prospetta un mondo in cui tutto - proprio tutto - sia affidato ai privati; ma si tratta appunto di una millanteria propagandistica. Il privato infatti non può sopravvivere senza un settore pubblico da parassitare in continuazione. Se, ad esempio, il settore previdenziale venisse interamente privatizzato e finanziarizzato, non potrebbe più sussistere il business privato dei prestiti ai pensionati, poiché, per poterne prelevare una quota, la pensione deve esserci davvero. Si spiega così il provvedimento del Medicare (o Obamacare) negli Stati Uniti, dove ormai la gente non era più disposta a contrarre assicurazioni sanitarie presso un privato che non garantiva nulla; a questo punto è intervenuto il governo, che ha fiscalizzato i contributi sanitari, per poterli poi versare alle solite assicurazioni private.
La religione civile delle tasse non tiene conto del fatto che il principale destinatario-beneficiario dei proventi del fisco non è il bene pubblico, ma il lucro privato. Le tasse, pagate soprattutto dai poveri, vanno a finanziare principalmente i ricchi. La spesa pubblica si accolla non solo i costi delle privatizzazioni, ma anche i costi del lobbying delle privatizzazioni, che ha la sua centrale proprio nelle organizzazioni internazionali come l'OCSE ed il FMI. Ciò è dimostrabile con esempi precisi: nel settembre del 2011, in piena tempesta finanziaria, l'Italia è stata costretta a raddoppiare la sua quota di partecipazione al FMI, con un conseguente ulteriore aggravio a carico della spesa pubblica.
Ciò accadeva mentre in parlamento già ci si accingeva ad inserire l'obbligo del pareggio di bilancio nella Costituzione, che sarebbe stato approvato definitivamente nell'aprile successivo. Ma forse per ottenere il pareggio di bilancio basterebbe non accollarsi almeno il costo del lobbying delle multinazionali, uscendo dalle esose organizzazioni internazionali.
La campagna elettorale per il parlamento europeo è stata l'occasione per inflazionare nuovamente il termine "populismo", come accusa di facile presa, a causa dell'incertezza ed ambiguità della parola. Per il Fondo Monetario Internazionale sono "populisti" tutti coloro che rifiutano le sue politiche economiche tendenti a creare disoccupazione, a comprimere i consumi ed a privatizzare i servizi pubblici. In questo senso, una espressione che fa da sinonimo di populismo, e che risulta frequente nel lessico di fede fondomonetarista, è quello di "resistenza corporativa".
Ma con il termine "populismo" viene spesso etichettata anche una politica tendente a screditare e delegittimare l'ordine costituzionale vigente in nome di un presunto rapporto diretto con la volontà popolare. Giocando sui due significati della parola "populismo", si può praticare un vero e proprio opportunismo acrobatico, facendo contemporaneamente il tifo per il Fondo Monetario Internazionale e per la "nostra bellissima Costituzione".
Per questo secondo significato del termine "populismo" già esisterebbe in effetti una definizione molto meno equivoca e più precisa: golpismo strisciante. Tale definizione pare però adattarsi perfettamente all'attuale esperienza di governo. Si era detto che Bersani non poteva governare poiché non aveva ricevuto abbastanza voti; in compenso oggi governa Renzi, che di voti non ne ha avuto nessuno. Renzi vorrebbe abolire l'attuale senato, sempre in nome di una volontà popolare di cui lui sarebbe il depositario, in base a quelle mirabilie di attendibilità che sono i sondaggi ed i post su twitter. Il golpista ovviamente non è Renzi in persona, ma la lobby che lo controlla, e non c'è molto da indagare per scoprire quale sia.
Il "Jobs Act" del governo Renzi costituisce un buon esempio di come l'assistenzialismo a favore dei ricchi riesca a camuffarsi di intenti sociali. L'espressione "Jobs Act" è stata rubata alla propaganda di Obama, che nel 2011 spacciò come legge a favore dell'occupazione la solita fumosa serie di provvedimenti un po' patetici, che servono a nascondere il vero nocciolo della questione.
In questi "Jobs Act" l'unico aspetto apparentemente concreto, riguarda le indennità di disoccupazione che dovrebbero fare da filo conduttore tra un lavoro precario e l'altro. Si tratta della vecchia idea lanciata dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro - una agenzia ONU - già da una decina d'anni, cioè la "flexsecurity". In Italia la "flexsecurity" è stata spacciata come ponzata di questo o quel giuslavorista, mentre in realtà si tratta di veline delle solite organizzazioni internazionali, a loro volta controllate dalle note lobby.
Anche Renzi ha lanciato questo sussidio di disoccupazione, con l'acronimo di NASPI, che dovrebbe sostituire la vecchia cassa integrazione in deroga, e che si spaccia come salvagente del lavoratore nel suo percorso da un'occupazione all'altra.
Le banche statunitensi sono state le prime a capire quale gigantesco business finanziario potessero costituire queste indennità di disoccupazione. Infatti vari Stati americani hanno da tempo sostituito il tradizionale assegno con delle carte di credito prepagate (carta di debito), dietro la giustificazione ufficiale che sarebbero più pratiche.
In realtà dopo un po' cominciano ad uscire i problemi, cioè le esose commissioni riscosse dalle banche su tutti i movimenti della carta di credito; ovviamente vi sono commissioni particolarmente alte sugli scoperti, ma anche il lasciare la carta inutilizzata per un po' di tempo comporta dei costi gravosi per l'utente. Il disoccupato finisce così per versare la gran parte del proprio sussidio alle banche. Così sono i ricchi a riscuotere l'elemosina dai poveri.
Quando si parla di finanziarizzazione si pensa automaticamente alle Borse ed alle grandi speculazioni sui titoli azionari e del debito pubblico. Ma in effetti la finanziarizzazione va a coprire ogni aspetto della vita sociale, dalla sanità, alla previdenza, ai consumi, sino allo stesso rapporto di lavoro, nel quale la continuità non è assicurata più dalla stabilità dell'occupazione, ma dalla carta di credito che segue - e munge - il lavoratore in ogni suo movimento. Ormai è evidente da più di dieci anni che la cosiddetta "flessibilità", cioè la precarizzazione, non aumenta la produttività, ma, al contrario, tende drasticamente a diminuirla. In compenso, la precarizzazione costituisce il principale veicolo della finanziarizzazione del rapporto di lavoro. L'impoverimento crescente del lavoratore aumenta infatti la sua dipendenza dagli strumenti finanziari. La povertà non è un malaugurato effetto collaterale, ma costituisce essa stessa un business.
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