Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Da sempre la propaganda svolge la funzione di occultare i dati di fatto, facendo passare da "dietrologo" chi cerchi di riportarli in evidenza. Nella controversia nucleare il governo iraniano si gioca oggi un potere contrattuale che deve proprio agli Stati Uniti ed alla sua occupazione coloniale dell'Iraq. La collaborazione del governo iraniano è stata decisiva per consentire agli Stati Uniti una rapida occupazione del territorio, ma lo è anche adesso, per mediare con la comunità islamica sciita, maggioritaria nel sud dell'Iraq.
Ovviamente l'Iran si trova ad essere il bersaglio della propaganda araba e sunnita, che lo accusa di collaborazionismo con gli Stati Uniti. Ciò spiega le tante dichiarazioni "folli" del Presidente iraniano, il quale deve respingere davanti all'opinione pubblica araba questo marchio di alleato del colonialismo statunitense.
Anche gli Stati Uniti, a loro volta, devono dissimulare questa pur evidente alleanza tattica, e perciò sembrano porsi come i capofila dei sostenitori delle sanzioni, mentre alla Russia spetta il ruolo di chi frena la collera di Bush. La semplice voce di possibili sanzioni, o addirittura di una guerra, è sufficiente a spingere sempre più in alto il prezzo del petrolio, e ciò corrisponde all'interesse immediato sia degli Stati Uniti, che devono far fruttare al massimo il petrolio che stanno saccheggiando in Iraq, sia della Russia, che è uno dei principali Paesi produttori di materie prime.
Se si considera che anche l'Iran è uno dei maggiori produttori di petrolio, ci si rende conto che questo stato di artificiosa tensione corrisponde ad un suo interesse economico e non solo propagandistico.
Anche sull'Afganistan l'uccisione, pochi giorni fa, di soldati italiani in un attentato, è stata l'occasione per riciclare il solito quadro propagandistico dai toni allarmati e vittimistici, secondo il quale il potere reale del governo afgano sarebbe limitato alla sola capitale Kabul, mentre il resto del territorio sarebbe tornato sotto il controllo dei Talebani. Queste confessioni di impotenza sono sempre sospette e contraddicono il dato di fatto secondo il quale i poteri tribali afgani hanno accettato, almeno per il momento, l'occupazione e la tutela coloniale degli Stati Uniti in cambio della possibilità di cogestire il business del traffico d'oppio.
Il mito dello "scontro di civiltà" serve a celare che esistono una politica ed una economia sfacciatamente colonialistiche, rese possibili da un intreccio politico/affaristico con settori dei popoli colonizzati.
Comidad, 11 maggio 2006
Una delle regole fondamentali della propaganda è che quando la propria posizione sia diventata insostenibile, occorre inventare una contro-posizione fittizia, che risulti ancora più insostenibile, e che serva sia a distrarre l'attenzione, sia a far recuperare credito.
La seconda strage di Nassiriya è stata infatti accompagnata da polemiche sullo slogan che sarebbe stato lanciato mesi fa in alcune manifestazioni e, recentemente, persino in occasione del 25 aprile: "Dieci, cento, mille Nassiriya". Lo slogan sarebbe stato nuovamente gridato in altre manifestazioni avvenute dopo l'attentato in cui sono morti quattro militari, di cui tre italiani.
Additando i soliti cattivi al ludibrio della pubblica opinione, il governo Berlusconi ha cercato di mettere in secondo piano le proprie dirette responsabilità nell'accaduto. Era ovvio infatti che annunciare il ritiro delle truppe italiane per poi dilazionarlo nel tempo, non avrebbe potuto evitare altri attacchi, perché le variabili in campo erano troppe, e non riguardavano soltanto i rischi connessi alla competizione tra i vari gruppi della resistenza.
Le altre variabili riguardavano gli stessi "alleati" dell'Italia, i quali hanno oggettivamente tutto il vantaggio a mettere in difficoltà le ipotesi di ritiro, presentandole come una resa di fronte al terrorismo. Non a caso questa tesi è stata ripresa dai commentatori delle grandi testate giornalistiche, a dimostrare ancora una volta la verità di quanto sosteneva già ottant'anni fa Francesco Saverio Nitti, e cioè che la stampa italiana rappresenta la voce della subordinazione coloniale dell'Italia ad altre potenze.
Non che Stati Uniti e Gran Bretagna abbiano effettivamente bisogno sul campo della presenza dei soldati italiani, ma la loro eventuale partenza rischierebbe di isolarli ulteriormente. L'aspetto curioso della vicenda è che i soldati del contingente italiano, compresi i loro comandanti, sembrano essere i più ansiosi di andarsene. È da rilevare infatti che nel loro rapporto sull'attentato, le autorità militari non hanno fatto nulla per accreditare l'esistenza del fantomatico soggetto politico detto "terrorismo" e, con sommo dispiacere dei giornalisti, hanno sgombrato subito l'ipotesi kamikaze, parlando di un ordigno collocato sul tragitto, secondo i normali canoni della guerriglia. È chiaro che sarebbe bastato anche solo ventilare l'ipotesi dell'azione di un kamikaze perché l'attentato diventasse automaticamente simbolo dello scontro di civiltà.
Coloro che di fatto auspicano altre "dieci, cento, mille Nassiriya" sono quelli che lavorano per ritardare il ritiro dei soldati italiani. Era questo che si voleva mettere in ombra quando si sono mandati dei provocatori a gridare quello slogan nelle piazze.
Comidad, 4 maggio 2006
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