Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Una notizia della prima settimana di maggio ha avuto uno scarso rilievo mediatico, sebbene fosse direttamente attinente all'attuale progetto governativo di "riforma" della Scuola. Il TAR del Lazio ha accolto un ricorso del sindacato SNALS contro la riduzione delle ore di laboratorio negli Istituti tecnici e professionali decisi dalla "riforma" Gelmini di sei anni fa. Il TAR ha riconfermato una sentenza di condanna dell'operato del Ministero dell'Istruzione già emessa nel 2013 e, constatando che il MIUR non aveva dato seguito alle decisioni della magistratura amministrativa, ha commissariato lo stesso MIUR con un commissario ad acta.
Gli effetti pratici della sentenza sono tutti da verificare; anzi, dati i precedenti, c'è da dubitare che gli effetti vi siano. Il TAR ha preso atto del controsenso di un'istruzione tecnica che non assicura l'istruzione tecnica, e quindi ha salvato ufficialmente la faccia; ma, con gli opportuni tempi giudiziari, ha anche consentito che il nuovo sistema previsto dalla "riforma" Gelmini andasse a regime. La notizia è comunque istruttiva, poiché dimostra che la "riforma" Gelmini non aveva affatto delineato un nuovo modello di Scuola, ma si era limitata a svuotare il modello precedente frodando famiglie e studenti, e obbligandoli a rivolgersi all'Università per accedere ad un'istruzione tecnica, ovviamente a pagamento.
Non si trattava quindi di una riforma, ma di una semplice operazione di lobbying universitario, e anche del lobbying bancario connesso al business dei prestiti agli studenti. Mentre lo spazio mediatico era a suo tempo occupato da diversivi come il grembiulino o il "seppellimento del '68", silenziosamente il governo liquidava uno dei capisaldi del modello di istruzione italiana - l'istruzione tecnica - che risaliva ai tempi post-unitari, e persino pre-unitari. Persino il termine "riforma" costituiva esso stesso un diversivo rispetto ai veri obiettivi, dato che la cosiddetta riforma non proponeva alcuna nuova forma. Si tratta di una logica da pubbliche relazioni caratteristica del lobbying, per la quale un business sordido viene ammantato di motivazioni ideali, spesso contenenti altri risvolti di possibile distrazione rispetto al quadro reale.
Non sussiste un serio motivo per ritenere che le cose stiano diversamente per ciò che riguarda la "Buona Scuola" di Renzi, il quale, tra i politici degli ultimi anni, è quello che denota più chiaramente le caratteristiche antropologiche del lobbista puro. I media sono occupati dalle discussioni sulla figura del cosiddetto "preside sceriffo", un epiteto che costituisce un vero nonsenso, dato che non corrisponde minimamente al testo del DDL, né al contesto in cui tale tipo di dirigente scolastico dovrebbe operare. Viene il sospetto che l'espressione "preside sceriffo" sia stata un'imbeccata mediatica organizzata per intossicare la comunicazione delle opposizioni, ed anche per compiacere gli istinti vendicativi contro gli insegnanti che si annidano nella parte peggiore dell'opinione pubblica, quella che va in euforia ogni volta che avverte il tanfo di macelleria sociale.
In base al DDL di Renzi, la figura di preside che viene fuori, appare più come quella di un prosseneta, di un magnaccia che può usare il ricatto del posto di lavoro per avviare alla prostituzione il personale della Scuola a pro delle gerarchie ministeriali desiderose di finanziare a spese del contribuente i propri vizi privati. Visti i precedenti, ci sarà sicuramente anche questo; ma potrebbe anche darsi che questa figura di dirigente scolastico sia stata creata a scopi di distrazione e depistaggio rispetto ad altri obiettivi affaristici. Si commette un delitto per coprirne un altro, come nel film "Match Point" di Woody Allen. Una "Scuola-Azienda" che si dimostri una Scuola-lupanare, può dare anche vita a tanti scandali giudiziari e mediatici che distoglieranno negli anni a venire l'attenzione dell'opinione pubblica da quanto accade effettivamente nella Scuola. Quando si tratta di distrarre, nulla funziona bene come il sesso.
Questa tattica della confusione da parte del governo mette in ombra il fatto che il DDL di Renzi, all'articolo 21, contenga una delega in bianco al governo per decidere delle sorti della Scuola nei prossimi mesi e nei prossimi anni, lasciando spazio ad operazioni inconfessabili di lobbying bancario. Era accaduto anche con il cosiddetto "Jobs Act". La "libertà di licenziare", ed anche la libertà di mobbing (cioè il "demansiomanento", la possibilità di spostare il lavoratore ad incarichi meno qualificati) appaiono come crimini tanto mostruosi da distrarre dallo scopo principale del "Jobs Act", quello di aprire al business delle agenzie di lavoro interinale, oggi ribattezzate pomposamente come "agenzie di somministrazione del lavoro", cioè il parassitismo di un caporalato istituzionalizzato.
Le agenzie di somministrazione del lavoro sono inoltre abilitate a loro volta a mediare l'indebitamento dei lavoratori con banche ed agenzie finanziarie. La condizione di precarietà rende i lavoratori particolarmente vulnerabili alla seduzione dei "servizi finanziari", cioè della schiavitù per debiti.
Ma anche nella Scuola si registra un'invasione del lobbying bancario. Dietro l'alibi della sedicente "alternanza Scuola-lavoro", i governi nell'ultimo decennio hanno riservato una pioggia di denaro pubblico ad imprese private, soprattutto banche. La banca che pare più attiva in questo momento è Unicredit, la quale, a spese del contribuente, sta usando le scuole per pubblicizzare e vendere i suoi prodotti finanziari a famiglie e studenti, abbindolati con la promessa di un'inesistente professionalizzazione.
Ha suscitato molta impressione l'ondata di riprovazione che nei social network ha investito i tafferuglisti che si sono scontrati con la polizia in occasione dell'Expo milanese. Occorre però domandarsi se questa ondata esprima davvero un'opinione diffusa, oppure sia soltanto un effetto della manipolabilità degli stessi social network.
In questo periodo è di moda irridere alla "rivoluzione da tastiera"; d'altra parte la tastiera ha costituito davvero una rivoluzione, anche se nello stretto ambito dell'informazione. Nel 1999 internet era ancora poco diffuso, perciò l'aggressione della NATO contro la Serbia poté avvalersi di un supporto propagandistico assolutamente incontrastato. Molte riviste di opposizione, in nome del libero dibattito, diedero inoltre largo spazio alle tesi anti-Milosevic, in modo che alla fine gli spazi si chiusero per quei pochi che avrebbero voluto esprimere un dissenso. Se si confronta quanto accaduto negli anni della guerra nella ex Jugoslavia con la vicenda della Libia prima e della Siria poi, si può valutare quanto la possibilità di usare internet abbia inciso nel formare un'opinione contraria alla guerra; un'opinione certamente minoritaria, ma comunque documentata, e spesso tale da mettere in crisi la propaganda ufficiale. Lo stesso accadde per l'Iran, con le mistificazioni legate ai nomi di Neda e Sakineh, lanciate sì su internet, ma sulla stessa rete poi demistificate. Gli interessi affaristici legati ad Internet hanno reso sinora poco praticabili i piani di irreggimentazione della rete, perciò, per ora, questa nicchia di informazione sopravvive. L'aspetto molto più manipolabile della rete riguarda invece i commenti, che possono essere lanciati a centinaia e migliaia, senza però che ci sia la reale possibilità di un controllo delle fonti; quindi pochi operatori di professione possono creare l'impressione di un'ondata di opinione.
C'è quindi da dubitare dell'ipotesi che gli scontri di Milano abbiano davvero suscitato tanto sdegno. Si possono anche avanzare tutti i sospetti possibili e immaginabili sull'effettiva natura dei cosiddetti Black Bloc. Ma la questione delle infiltrazioni e delle provocazioni da parte della polizia e dei servizi segreti può costituire un valido motivo per demistificare le emergenze di ordine pubblico e di terrorismo, ed anche per screditare ipotesi di lotta armata; ma certo non potrebbe essere usata a sostegno di una "condanna della violenza". Un sistema di potere che irride alle manifestazioni pacifiche e spesso le aggredisce, che equipara le critiche a sabotaggi, che concepisce ogni "riforma" come un atto di guerra civile contro una categoria, che etichetta inoltre come "populismo" qualsiasi espressione elettorale contraria allo strapotere degli organismi sovranazionali, è di fatto un potere che chiude la strada ad ogni mediazione sociale.
Tra l'altro le democrazie non rinunciano all'assassinio come normale strumento di lotta politica; anzi lo praticano con maggiore disinvoltura sotto la finzione dello Stato di Diritto. L'attuale Presidente della Repubblica aveva un fratello che è stato ucciso in circostanze rimaste ancora misteriose, ed inoltre tutta la storia della fine della cosiddetta Prima Repubblica è costellata di strani suicidi e di provvidenziali incidenti.
Ma nemmeno in questo settore l'Italia è più all'avanguardia. Il primo atto della rinata democrazia cecoslovacca fu l'assassinio nel 1992 dell'eroe nazionale Alexander Dubcek, contrario alla separazione del Paese e leader di un partito socialdemocratico considerato non abbastanza favorevole alle privatizzazioni. Quell'eroe della "Primavera di Praga" del 1968, che per venti anni il KGB non aveva osato toccare, fu eliminato sbrigativamente in "democrazia". Dubcek fu dapprima "incidentato", poi trasportato in un ospedale ceco incredibilmente lontano dal luogo dell'incidente, e successivamente privato delle necessarie cure. La magistratura ceca ignorò le proteste della famiglia di Dubcek ed affossò ogni indagine. Se le stesse circostanze si verificassero nell'attuale Russia, i media occidentali non esiterebbero ad incolpare Putin.
La democrazia elettorale viene sistematicamente irrisa dagli organismi internazionali e considerata un orpello del passato nei documenti della multinazionale JP Morgan. Il sedicente "neoliberismo" (in realtà assistenzialismo per ricchi) ha diffuso e consolidato una concezione astratta e idealizzata della politica, alla quale si nega ogni funzione di gestione dell'economia, in nome dell'unico compito di "dettare le regole". Una politica "povera", perciò incapace di contrastare lo strapotere delle multinazionali.
La democrazia viene però resuscitata come mito ogni volta che possa andare a sostegno delle tesi ufficiali. La vittoria elettorale del conservatore Cameron nel Regno Unito è stata presentata come un sostegno popolare e democratico alle "politiche di austerità", cioè ai progetti di privatizzazione della sanità e della previdenza cari alle banche ed alle compagnie assicurative. Non sono però mancate letture più articolate. Il giornale "Il Fatto Quotidiano" ha lanciato un'interpretazione del voto britannico basata sulle analisi dell'economista Paul Krugman, che ha accusato Cameron di aver truccato i dati economici per legittimare i suoi tagli allo Stato sociale. L'articolista fa il resto, suggerendo che la colpa sia in definitiva degli astensionisti, che, pur non credendo a Cameron, poi non sono andati a votare. Insomma, anche se la percentuale del 66% dei votanti è considerata un record nel Regno Unito, quando si perdono le elezioni la colpa è comunque di chi non crede nella democrazia.
In realtà le interpretazioni potrebbero anche essere diverse. La Gran Bretagna ha vissuto per mesi uno psicodramma mediatico sulla possibile secessione della Scozia, una secessione poi respinta nel solito referendum "democratico". Che il Regno Unito fosse disposto davvero a lasciar andare via la Scozia, fa parte delle ipotesi irrealistiche a puro diletto dei media. Certo è che il clima nazionalista ha danneggiato il Labour Party in una delle sue roccaforti elettorali, cioè proprio la Scozia. Anche il decennio del regime thatcheriano si fondò su espedienti analoghi, come il favorire la secessione socialdemocratica nel Partito Laburista.
La cosiddetta democrazia difficilmente si sostanzia in una politica precisa, ma si esprime attraverso speranze e nostalgie. Le speranze giocano sempre più al ribasso, mentre le nostalgie tendono a diventare sempre più scadenti. Il riciclaggio mediatico del Buffone di Arcore può essere considerato un tipico esempio di operazione-nostalgia. Alla voce dello stesso Buffone è stato affidato un messaggio di buonsenso, come la condanna dell'assenza dei leader occidentali alle manifestazioni russe per la vittoria nella seconda guerra mondiale. Una posizione di buonsenso viene però automaticamente screditata se identificata con il Buffone, ed è proprio questo lo scopo che si voleva raggiungere.
Il rischio è che le opposizioni si abituino a vedere nella sua figura l'ultimo baluardo di un potere elettoralmente legittimato. In nome di un "almenismo" sempre più diffuso, si può argomentare che "almeno" il Buffone era eletto dal popolo. Una memoria annebbiata potrebbe inoltre far smarrire gli aspetti di continuità dei governi degli ultimi venticinque anni ed alimentare nostalgismi.
Ma se oggi non c'è più il Buffone di Arcore, c'è comunque un nuovo Buffone. Non vale nemmeno più la pena di chiamarli per nome. Tanto vale denominarli in blocco come il "Buffone di Turno".
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