Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Le sortite del Super-Buffone di Francoforte (in arte Mario Draghi) esibiscono sempre quell’eccesso di stupidità che le rende molto più rivelatorie rispetto alle intenzioni dell’autore. Nella sua ultima relazione al Consiglio Europeo Draghi se l’è presa con i sindacati, rei, a suo parere, di preferire la stabilità del posto di lavoro agli aumenti salariali.
Storicamente i sindacati sono strutture il cui effettivo peso non corrisponde affatto alla sovraesposizione di cui sono oggetto. Ciò rende gli stessi sindacati dei facili bersagli di pretestuose recriminazioni, il cui modello è la famosa frase “i sindacati hanno rovinato l’Italia”. Nonsenso per nonsenso, con altrettanta attendibilità si potrebbe dire che l’Italia ha rovinato i sindacati.
Draghi ha fatto ricorso a questi mezzucci perché doveva spiegare al suo uditorio come mai, nonostante la liquidità con cui ha inondato il sistema, non vi sia stata una ripresa dei consumi. Ma i consumi non potevano ripartire proprio perché la ripresa dell’occupazione è stata di scarsa qualità, a base di precariato; e i precari non hanno né il potere contrattuale per ottenere aumenti salariali, né la tranquillità che consenta loro di pianificare consumi di una certa consistenza.
Nel 1976 i sindacati furono indicati come responsabili degli attacchi speculativi alla lira, ciò a causa dell’accordo sulla scala mobile ottenuto l’anno prima. L’altro colpevole additato dai media fu il segretario del partito Socialista, Francesco De Martino, il quale aveva scritto un articolo che sembrava anticipare una crisi di governo. Quaranta anni fa i media non si regolavano diversamente da adesso. In realtà il crollo della lira fu dovuto alla politica di credito facile alle esportazioni operata dal Tesoro: i finanziamenti alle esportazioni di merci diventarono in effetti finanziamenti all’esportazione dei capitali, mettendo in crisi la bilancia dei pagamenti. Nel 1976 la circolazione internazionale dei capitali non era affatto libera, anzi, in Italia era considerata addirittura reato. Sta di fatto che l’import-export di merci è sempre stato un canale di esportazione di capitali più o meno occulto.
Il dominio ideologico del “neoliberismo” (in effetti paleo-liberismo) fa sì che venga liquidata come complottismo qualsiasi attenzione agli squilibri strutturali del capitalismo. Sarebbe perciò interessante se qualche storico dell’economia rileggesse finalmente la storia italiana, compresa la meno recente, dall’angolazione dell’esportazione di capitali. Si spiegherebbero forse tante cose, a cominciare dal mito dell’Italia Paese senza materie prime; dato che l’importazione di materie prime costituisce un canale surrettizio di esportazione dei capitali.
La finanziarizzazione è stata una tendenza preminente persino quando la circolazione dei capitali non era libera come adesso. Figuriamoci quindi quanto possano prevalere le considerazioni produttive oggi che non c’è nessun ostacolo alla mobilità dei capitali.
Draghi quindi sapeva bene che aprire i rubinetti della liquidità a banche e imprese non si è mai risolto in aumento della produzione e dei consumi, bensì in speculazioni finanziarie. Se i tassi più attraenti sono all’estero, ciò comporta fuga dei capitali. La banalità del capitale sta tutta qui: se si può fare profitto facendo a meno di produrre, è tutto grasso che cola.
Il ministro per lo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, ha detto che è il caso di sorvolare sullo sgravio dell’Irpef per diminuire invece le tasse alle imprese. Calenda ignora, o finge di ignorare, che questi sgravi fiscali, ad eccezione di qualche raro imprenditore innamorato del suo prodotto, non comporteranno affatto aumento degli investimenti, bensì delle speculazioni finanziarie, con tutti i rischi che ciò comporta in termini di fuga di capitali.
Anche in questo caso “conforta” l’esempio del 1976-1977, quando in Italia i governi di Unità Nazionale ricoprirono le imprese di sgravi fiscali e sussidi. Quel denaro pubblico non pagò affatto la reindustrializzazione, bensì la prima grande deindustrializzazione italiana. La FIAT utilizzò i sessantamila miliardi di lire ricevuti dal governo per attuare la prima grande ondata di licenziamenti e tagli produttivi a Mirafiori. Il potere contrattuale dei sindacati era ridotto a zero perché la FIAT aveva investito le sue nuove risorse finanziarie in titoli del Tesoro. Lo Stato aveva elargito denaro pubblico alle imprese per farselo poi riprestare, ad interesse, dalle stesse imprese. Sino a quel momento la fabbrica era stata considerata il vero luogo dello scontro di potere. Si constatò invece che non era così, che il conflitto sul luogo di produzione poteva essere aggirato con manovre finanziarie. Così si concluse malinconicamente la fiaba, in voga negli anni ’60 e ’70, sul “potere dei sindacati”.
In questi mesi dagli USA sono giunte molte chiacchiere sul rilancio dell’economia reale. CialTrump ha riconosciuto però che il valore del dollaro è troppo alto per favorire le esportazioni americane. CialTrump ha detto che è “colpa sua”, poiché la stima internazionale di cui gode (sic!) avrebbe spinto molti investitori stranieri a rifugiarsi nei titoli USA. Queste pagliacciate sono servite al nuovo buffone della Casa Bianca per cercare di coprire il fatto che la politica monetaria USA è interamente gestita dalla Federal Reserve. La Fed sta aumentando i tassi di interesse dei titoli del Tesoro e ciò dovrebbe provocare una ulteriore rivalutazione del dollaro.
Il Fondo Monetario Internazionale ha già previsto che queste scelte della Fed comporteranno una fuga di capitali dai Paesi più poveri verso gli USA, a causa dei più alti rendimenti dei titoli del Tesoro americano. Lo stesso FMI ha annunciato delle “contromisure”, non per limitare i movimenti di capitali ma i danni collaterali. Anche queste presunte contromisure rappresentano una ulteriore frode ai danni dei Paesi più poveri, in quanto consisterebbero nell’agevolare la possibilità per i Paesi in difficoltà di approvvigionarsi di dollari rivolgendosi ai prestiti del FMI. Insomma, un bel cappio al collo.
La settimana scorsa è morto Helmut Kohl, l’ex cancelliere tedesco salutato come il padre dell’attuale Unione Europea. Nelle celebrazioni si sono messe da parte le modalità della fine politica di Kohl, segnata nel 1999 da un mega-scandalo per finanziamenti illegali al suo partito. Si trattava di un giro di tangenti legato ad affari di vendita di armi alla solita Arabia Saudita.
Pochi giorni fa Pierluigi Bersani ancora osava indicare come un modello i partiti tedeschi, secondo lui “interamente” finanziati dallo Stato e quindi abilitati a selezionare una vera classe dirigente. In realtà in democrazia è diventato impossibile fare distinzione tra la politica ed i suoi flussi di finanziamento, nei quali i fondi pubblici rivestono un ruolo marginale. E la situazione, dai tempi di Kohl, si è persino aggravata, dato che è aumentata la mobilità internazionale dei capitali. Se la forza delle cose ha un peso, è evidente che ricevere finanziamenti da questo o da quello condiziona e restringe i margini di manovra, specialmente se il denaro arriva da tangenti su operazioni di import-export, cioè di mobilità dei capitali.
Il denaro non è solo un movente ma una condizione esistenziale e rappresenta un percorso già tracciato per qualsiasi organizzazione complessa. Per questo motivo alcuni commentatori italiani guardano come ad un paradiso perduto i tempi in cui i nostri partiti erano finanziati principalmente dall’ENI.
Più aumenta la mobilità dei capitali, più questa riesce a farsi dare per scontata come un dato di natura, quindi diventa sempre meno percepibile dal pensiero e dal linguaggio, che tendono a rifugiarsi in categorie astratte e fumose. Il “Financial Times” ci spiega come funziona la “idraulica” della mobilità dei capitali: i capitali affluiscono dalle aree finanziariamente forti verso Paesi più deboli, alimentano bolle speculative e, quando le bolle scoppiano, i capitali defluiscono verso i sicuri lidi di partenza, lasciando la politica del Paese così destabilizzato a parlare di risanamento dei conti e di corruzione, cioè di nulla.
Categoria del tutto astratta è la “politica”, ma anche la “scienza”. La recente polemica sui vaccini ha visto molti commentatori ufficiali attestarsi sullo slogan: “io scienza, tu complottista”; una banalità al cui confronto “io Tarzan, tu Jane” sembra un dialogo platonico. È ovvio infatti che non si può più parlare di “scienza” come se fossimo ancora ai tempi di Robert Koch, che ai suoi inizi attuava le sue ricerche batteriologiche a casa propria e a proprie spese, quindi poteva elaborare il suo metodo senza un condizionamento esterno.
Dai tempi di Koch persino il termine “denaro” ha modificato il suo senso. Non si può concepire l’attuale rapporto col denaro nei termini di un Arpagone o di un papà Grandet, cioè come un oggetto del desiderio percepito chiaramente come altro da sé. Non è un problema ontologico ma di velocità di circolazione dei capitali.
Nel basso medioevo le lettere di cambio aumentarono enormemente la velocità di circolazione dei capitali, ma viaggiavano comunque alla stessa velocità di un essere umano. In epoca di comunicazioni telematiche uno spostamento di capitali è avvenuto ed ha già realizzato i suoi effetti a catena prima ancora che si sia in grado di percepirlo. Oggi il movimento di capitali è più veloce del pensiero e della possibilità di percepirsi rispetto ad un contesto che cambia in base ai flussi di capitale. Pensare ai soldi è roba persino desueta, dato che oggi è il denaro a pensare al posto tuo. L’orrore quasi religioso che molti provano per i cosiddetti “complottisti” (categoria ormai dilatata all’estremo, sino a comprendere qualsiasi timido critico dell’establishment) costituisce appunto il sintomo di questa rassegnata accettazione della condizione di inconsapevolezza.
Le case farmaceutiche intanto non hanno neppure il tempo di complottare, dato che queste sono società per azioni e nelle Borse i capitali rincorrono automaticamente le prospettive di business più remunerativo. I vaccini si producono in milioni di unità e si consumano (o scadono) in tempi brevi; anzi, devono essere pagati dalle autorità sanitarie persino se rimangono nei depositi, come si è constatato nel 2010. È sufficiente perciò la parola “vaccino” per gasare le Borse e far schizzare in alto i titoli di una casa farmaceutica. In queste condizioni come può esistere un’autorità sanitaria “indipendente” in grado di accertare da un lato ciò che è utile e dall’altro ciò che non lo è? Quale istituzione può essere oggi indipendente dal denaro?
A proposito di “vaccini”, vi è ormai un loro uso anche da parte degli “spin doctor” nella propaganda politica, dove si confezionano fake news da “debunkizzare” rapidamente in modo da prevenire e screditare eventuali notizie più fondate. Insomma, l’opinione pubblica viene “vaccinata” contro le notizie pericolose riguardanti qualche candidato. È capitato con Macron, nei confronti del quale si è costruita una falsa notizia circa finanziamenti per la sua campagna elettorale provenienti dalla solita Arabia Saudita. La pronta smentita ha messo in ombra il dato oggettivo che lo stesso Macron, come ministro, fosse casualmente al centro di tutti gli affari di vendita di armi francesi a Riad.
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