Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il povero Paolo Mieli diventa sempre più impopolare ed è fatto oggetto di commenti insofferenti; eppure il personaggio può svolgere una funzione socialmente utile, in quanto rappresenta un caso tipico di autointossicazione con la propria stessa propaganda. In un recente battibecco televisivo Mieli ha ripreso il tema dell’invasione russa dell’Afghanistan del 1979-1989 come esempio della possibilità di sconfiggere militarmente la Russia quando opera al di fuori dei propri confini. Qui non si tratta affatto di entrare nella questione se la Russia possa essere sconfitta o meno, ma semplicemente di osservare che l’esempio invocato da Mieli ha un senso esattamente opposto a quello da lui desiderato. Ci viene venduto uno dei più frequenti schemi di autointossicazione: si prende un episodio storico, lo si raffigura in termini approssimativi, imprecisi, o addirittura deformati, per poi assumerlo come mito di supporto per una serie di scelte spacciate come strategiche.
Si può accusare Gorbaciov di essere stato incauto a consentire la riunificazione della Germania, e infatti gli sarebbe dovuto bastare il modo in cui erano stati trucidati Ceausescu e sua moglie per smettere di fidarsi. La decisione di Gorbaciov di ritirare le truppe sovietiche dall’Afghanistan era invece basata su una valutazione oggettiva delle posizioni di forza acquisite sul campo, cioè sulla ragionata convinzione che l’esercito del governo comunista di Kabul fosse in grado di reggere autonomamente all’attacco della guerriglia islamica; convinzione che fu confermata dagli eventi successivi. Agli inizi di marzo del 1989, neanche un mese dopo il ritiro delle truppe sovietiche, i guerriglieri islamici sferrarono una grande offensiva nell’area della città di Jalalabad. In un articolo del “Washington Post” di quel periodo si osservava che già dalle prime battute l’offensiva dei ribelli si dimostrava ispirata da una serie di errori di valutazione e che le truppe governative reggevano benissimo. Di fatto, dopo tre mesi di battaglia, l’esercito governativo conseguì una vittoria sul campo, che consentì al regime filosovietico di Kabul di sopravvivere altri tre anni. Il governo di Kabul riuscì addirittura a reggere ancora un anno dopo la fine dell’URSS e dei suoi finanziamenti, anche se gli ultimi mesi furono agitati da inutili tentativi di negoziato con i ribelli e da improbabili metamorfosi ideologiche. L’impresa dei comunisti afgani non fu da poco, se si considera che dovevano affrontare non dei semplici “ribelli”; infatti questi erano armati dagli USA, finanziati dall’Arabia Saudita e assistiti dal retroterra logistico del Pakistan, che in realtà forniva persino i combattenti, data l’affinità etnica tra i due paesi.
Queste precisazioni non tolgono nulla al fatto che l’avventura afgana sia stata un disastro economico e politico per l’Unione Sovietica, e che abbia screditato la strategia di “interventismo internazionalista” di Breznev, accelerando tutti i processi di obsolescenza del modello imperialistico sovietico. Il punto è che qui non si può parlare di sconfitta militare in senso proprio, come nel caso della battaglia di Tsushima del 1905, nella quale il Giappone dimostrò che come potenza navale la Russia faceva acqua. Mieli è traviato dal film di Rambo, e quindi si immagina un ritiro dei sovietici dall’Afghanistan fatto “all’americana”, con la coda tra le gambe, aggrappati alle ali degli aerei e inseguiti da orde di mujaheddin assatanati. In realtà fu un ritiro ordinatissimo, con la tranquilla coscienza della missione compiuta, lasciandosi alle spalle i risultati di un colonialismo illuminato, anzi illuministico, peraltro già avviato una ventina d’anni prima dell’invasione del 1979: un esercito locale efficiente, infrastrutture civili (ancor oggi le sole esistenti in Afghanistan), un sistema di istruzione moderno. La morale da trarre da questa vicenda è che non c’è bisogno di una sconfitta militare per perdere una guerra, e ci vuole sempre del tempo per sapere come siano andate effettivamente le cose.
D’altra parte bisogna riconoscere che, quanto ad autointossicazione propagandistica, ci sono esempi persino peggiori di Mieli. Il quotidiano online “The Guardian” nel 2022 andava oltre il mito confezionato in base a imprecisioni storiche, e ci propinava addirittura la fiaba di Biancaneve, con la strega cattiva che ti vuol far fuori offrendoti la mela avvelenata. Secondo l’articolo la guerra contro la Russia poteva essere vinta grazie alle energie rinnovabili, che avrebbero neutralizzato simultaneamente il tiranno Putin ed i combustibili fossili inquinanti che ci vuole vendere. I petro-Stati cercherebbero di imporci l’autocrazia tramite il veleno ambientale del loro gas e del loro petrolio, per cui la via maestra che conduce al trionfo della democrazia coincide con la marcia verso l’idillio ecologico delle rinnovabili. A questo punto ci si potrebbe chiedere se sia peggio intossicarsi di petrolio e gas oppure di scemenze del genere; infatti non sono definibili neppure come propaganda ma come spot pubblicitari.
Una reclame così ispirata alla narrativa edificante del politicamente corretto sarebbe risultata inconsistente persino se la Russia fosse effettivamente un petro-Stato. Il guaio è che risulta inesatto anche quel dettaglio. Il PIL della Russia dipende infatti dalle esportazioni di gas e petrolio soltanto per il 17%. In questi anni è stata invece la NATO a rivelarsi un bluff, e ciò soprattutto per l’incapacità industriale, che non ha consentito neanche di reggere il livello adeguato di produzione delle munizioni. La Russia sta conseguendo una vittoria militare in Ucraina, ma ci vorrà del tempo per stabilire se l’operazione sia davvero un successo oppure nasconda delle incognite insidiose. La caratteristica della guerra è infatti di poter essere persa da entrambe le parti; ma è proprio la comunicazione occidentale a dimostrarsi la più inconsapevole dell’alea delle conseguenze. Nel Sacro Occidente la leadership viene oggi identificata in un atteggiamento dispettoso, oppositivo, pretestuosamente intransigente, cioè in una regressione adolescenziale. La NATO può quindi considerare già acquisito un notevole risultato, cioè aver esibito di fronte all’intero pianeta la catastrofe antropologica che ha investito le classi dirigenti occidentali.
Dalle intercettazioni della Guardia di Finanza è risultato che il presidente della Regione Liguria gonfiava i dati sui contagi da Covid; ma in fondo lo faceva a fin di bene, per ottenere più vaccini. Magari uno crede che siamo stati due anni sotto la pseudo-emergenza psicopandemica solo perché l’hanno voluto Gates, Fauci o Bourla; oppure perché da noi la legge Lorenzin ha santificato i vaccini e asservito l’Ordine dei Medici al governo. Certo, tutto rientra nel quadro, ma l’emergenzialismo non può funzionare per trasmissione di ordini dall’alto; ci volevano quelli pronti a sporcarsi le mani stando sul campo, truccando i dati e impedendo materialmente che le polmoniti si curassero come si era fatto sino al 2019. Non è un caso che l’Italietta sia stata l’epicentro e il motore dell’emergenza Covid in tutto il Sacro Occidente; ciò è stato dovuto ad un sistema sanitario permeabile al protagonismo, soprattutto illegalitario, dei presidenti di Regione. Il bello è che dopo la strage al Pio Albergo Trivulzio, l’eventuale reato ipotizzato per Attilio Fontana e soci è stato quello di “epidemia colposa”; come se mettere insieme anziani e malati di Covid potesse essere un gesto di distrazione; un’altra inchiesta giudiziaria su Fontana si è appuntata sulla questione di un suo eventuale ritardo nell’istituire una “zona rossa”; come a dire che avrebbe potuto delinquere di più e meglio. Sarebbe quindi ingenuo ritenere che la scoperta di altri imbrogli comporti la possibilità di fare chiarezza e giustizia sugli abusi di quel periodo. A dar retta alle pantomime vittimistiche della destra, sembrerebbe che il potere politico ed il potere giudiziario siano in un conflitto perenne e inconciliabile, infatti l’attuale ministro della Giustizia del governo di destra è un magistrato; quando si dice la separazione delle carriere.
Ci si è abituati alla concezione geometrica del potere, visto come un vertice che trasmette ordini ed istruzioni alla base. In realtà il potere funziona più come una cordata, e neppure tanto allineata, dato che intervengono meccanismi competitivi ed iniziative che determinano il fatto compiuto. Secondo una certa narrativa, gli anni ’90 sarebbero stati il periodo del cosiddetto “unipolarismo”, cioè del dominio incontrastato dell’unica superpotenza rimasta, gli Stati Uniti. Entrando nei dettagli si scopre invece che le situazioni sono meno univoche, e che l’imperialismo funziona come una strada a due sensi, perciò sono spesso le velleità sub-imperialistiche dei cosiddetti vassalli a determinare le sponde tra cui si muove la potenza al vertice della gerarchia. L’aggressione della NATO alla Serbia del 1999 fu dovuta soprattutto all’iniziativa angloamericana, a cui si accodò entusiasticamente il nostro governo D’Alema. In quella circostanza il paese meno entusiasta della scelta di bombardare Belgrado fu la Germania; eppure era stata proprio la Germania ad avviare la guerra alla Serbia otto anni prima. Quando Slovenia e Croazia proclamarono la propria indipendenza dalla federazione jugoslava, fu il Vaticano a promuovere inutilmente il tentativo di un riconoscimento internazionale concertato; fu però il governo tedesco nel gennaio del 1991 a rompere gli indugi e ad attuare il riconoscimento diplomatico di Lubiana e Zagabria, e ciò senza condizionarlo minimamente ad una trattativa preliminare con Belgrado per ridefinire i confini e i diritti delle minoranze eventualmente rimaste entro i nuovi confini. Il riconoscimento unilaterale e incondizionato di una regione secessionista è oggettivamente e soggettivamente un atto di guerra contro il paese oggetto di quella secessione. Si potrà sempre supporre che, con o senza quel riconoscimento, la guerra civile nella ex Jugoslavia ci sarebbe stata ugualmente; ma sta di fatto che la guerra l’hanno avviata il riconoscimento (e i soldi) della Germania.
Poi sono arrivati i soldi dell’Arabia Saudita ed è saltata anche la Bosnia. La stessa Arabia Saudita ha violato addirittura un embargo internazionale per fornire armi ed altri “aiuti umanitari” al governo di Sarajevo. Come potenza dominante gli USA hanno approfittato più di ogni altro della destabilizzazione della Jugoslavia, e si sono costruiti persino un loro staterello fantoccio a fare da contorno al grande hub militar-criminale di Bondsteel. Ma il processo è stato avviato da paesi come la Germania e l’Arabia Saudita, che hanno agito per i propri interessi o in base alle proprie aspirazioni, più o meno realistiche. L’imperialismo USA è l’ombrello di una cordata di sub-imperialismi, le cui avventure non sono sempre gloriose. Attualmente la destabilizzazione dell’Europa dell’est sta presentando alla Germania un conto salato da pagare; d’altra parte il candidato-concorrente a soppiantare la Germania nel ruolo sub-imperiale nell’area, cioè il complesso polacco-baltico-galiziano, appare piuttosto velleitario.
A livello micro o macro, lo schema del potere è lo stesso, e non è mai “unipolare”; perciò l’imperialismo funziona un po’ come il mobbing sui luoghi di lavoro, che spesso non è avviato dal dirigente, che invece trova il terreno già “arato” grazie all’opera delle mafie composte da colleghi delle vittime. Oggi vediamo Macron che si arrabatta cercando di trasformare la guerra in Ucraina in una propria occasione di protagonismo. Fu sempre la Francia, con il presidente Sarkozy, ad iniziare le operazioni militari contro la Libia nel 2011. Nell’aggressione della NATO alla Libia un ruolo ancora più determinante venne svolto da un altro paese, il Qatar, che finanziò i gruppi anti-Gheddafi e creò la narrazione mediatica atta a giustificare l’aggressione tramite l’emittente Al Jazeera.
Si è spesso rimproverato Gorbaciov di non aver fatto formalizzare per iscritto gli impegni statunitensi a non espandere la NATO verso est. Queste recriminazioni però non hanno senso, poiché nel 1972, col Comunicato Congiunto di Shanghai, gli USA si impegnarono per iscritto a riconoscere una sola Cina, di cui Taiwan era considerata una parte. Oggi Washington se ne infischia di quella dichiarazione solenne, e considera Taiwan un paese indipendente accusando Pechino di volerlo annettere illegalmente. D’altra parte è difficile credere che una Nancy Pelosi o un Antony Blinken sappiano effettivamente relazionarsi nel contesto asiatico o solo ci capiscano qualcosa. In questi decenni infatti un ruolo decisivo nel radicalizzare la questione di Taiwan l’ha svolto il Giappone, che più volte ha dichiarato di considerare l’indipendenza taiwanese come un proprio problema di sicurezza nazionale. Nonostante le innumerevoli occasioni in cui Tokyo ha soffiato sul fuoco, in molti dubitano che Tokyo sia disposta a muovere un dito se scoppiasse il conflitto con la Cina. Il problema infatti non è quello; semmai il fatto che il Giappone ha usato Taiwan come pretesto per attuare il proprio riarmo. Grazie al suo potenziale finanziario e tecnologico, il Giappone è già ridiventato una potenza marittima e in poco tempo potrà essere persino una potenza nucleare.
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