Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Secondo alcuni analisti internazionali, ai motivi di preoccupazione e irritazione degli USA nei confronti della Germania, oltre l'annoso caso del gasdotto North Stream 2, si sarebbe aggiunto anche il Recovery Fund. Se così fosse, l’irritazione statunitense sarebbe del tutto comprensibile, dato che con il Recovery Fund la Germania rilancia un proprio ruolo imperialistico sull’Europa occidentale e, per di più, a costi prossimi allo zero. La narrazione sulle presunte mirabilie del Recovery Fund riguarda soprattutto i media italiani; eppure qualche voce critica si è dovuta affacciare anche tra di essi, dato che il lettore medio abituato ad un minimo di frequentazione della stampa estera sa che ormai il mito si sta sgonfiando. Ad esempio, il settimanale “l’Espresso” ha dovuto ammettere che il confronto con gli analoghi interventi del governo americano è assolutamente avvilente per il Recovery Fund: gli USA spendono cifre che corrispondono al 40% del loro Pil, contro il misero 5% dell’Unione Europea. Chi narra di una Germania che avrebbe finalmente abbandonato il dogma della “frugalità”, propina balle.
Per l’Italia il vantaggio in termini finanziari del Recovery Fund si concretizza in appena 25 miliardi, tra sussidi ed eventuali risparmi sugli interessi. Se si considera che l'anno scorso il solo BTP Italia ha rastrellato più di 22 miliardi, si comprende la pochezza dell’operazione finanziaria dell'UE, a cui si aggiungono tempi da era geologica per l’erogazione dei fondi e condizionalità talmente vessatorie da risultare surreali.
Se l'UE non è già finita sottosopra è per il “quantitative easing” della Banca Centrale Europea. L’anno scorso l’immissione di liquidità, con l'acquisto indiretto di titoli di Stato da parte della BCE, è stata di oltre 1500 miliardi.
Quest’anno la BCE ha già previsto altre immissioni di liquidità per 1850 miliardi. La Federal Reserve, la banca centrale americana, aveva avviato il “quantitative easing” con sei anni di anticipo rispetto alla BCE, e sempre la Federal Reserve era riuscita ad imporlo alla UE scavalcando le resistenze, vere o finte, della Germania. In Italia il merito di aver “salvato” l'UE e l'euro è attribuito a Mario Draghi, mentre in realtà egli è stato solo uno strumento degli USA, che, dopo aver “inventato” l’UE in funzione anti-russa, ora non possono permettersi una sua dissoluzione, per gli effetti disastrosi che comporterebbe sulla NATO.
Se la narrazione sul Recovery Fund è totalmente infondata, come si spiegano i suoi effetti sul rilancio dell’imperialismo tedesco? La domanda è basata su un presupposto sbagliato, e cioè che l’imperialismo sia esclusivamente una questione di confronto e scontro tra nazioni. In realtà l’imperialismo è anche, e soprattutto, una componente dello scontro di classe. La fiaba delle fiabe è che l’Italia “subisca” suo malgrado le politiche di austerità germaniche, mentre al contrario la lobby della deflazione, cioè la lobby dei creditori, ha in Italia una delle sue principali roccaforti. Rallentare lo sviluppo non comporta solo l’assenza di inflazione e quindi la cristallizzazione del valore dei crediti; comporta anche la crescente dipendenza dal debito, persino se gli interessi sono bassi. La lobby italiana dei creditori cerca sponde e tutori all'estero per imporre all’interno politiche recessive, mascherate da “risanamento dei conti” e da “riforme strutturali”.
Si tende quasi sempre a sottovalutare la potenza ideologica della lobby dei creditori, che riesce a dissimularsi piegando ai propri interessi il linguaggio delle altre ideologie. La lobby dei creditori è avara e quindi cerca di far lavorare i propri aedi anche gratis, inculcando nelle altre ideologie, comprese quelle di “sinistra”, i “valori morali” dell’austerità. Non si tratta solo di manipolazione dall'esterno. Ciò che il politicamente corretto non è in grado neppure di comprendere, è che la mistificazione non è dovuta solo all’opera di agenzie addette allo scopo, ma è un vero e proprio rapporto sociale, nel quale istanze diverse, e a volte addirittura opposte come l’affarismo ed il moralismo, si fanno reciprocamente da sponda, spesso in modo del tutto inconsapevole.
I media e gli intellettuali si fanno così strumenti, più o meno volontari, di questa offensiva ideologica, che può essere definitiva come “pedagogia del genitore malevolo”, cioè i genitori che, come nel famoso film di Troisi, ti dicono che gli altri bambini sono sempre più bravi di te. Gli altri Paesi sono meno corrotti, non sono così spreconi, quando hanno i soldi sanno spenderli, eccetera. In tal modo si coltiva nell'opinione pubblica il senso dell'inadeguatezza e il bisogno di dipendenza, la ricerca di “vincoli esterni”. Più le gerarchie sociali sono arbitrarie, più cercano di camuffarsi sotto la falsa “oggettività” delle emergenze, della scarsità e delle inadeguatezze.
Ciò che gli USA non sono riusciti ancora a capire è che la vera risorsa dell’imperialismo tedesco è l’autocolonialismo italiano. Non a caso l’Italia è l’unico Paese che accederà completamente ai prestiti del Recovery Fund. Non sono certo quei pochi soldi che interessano alla nostra lobby dei creditori, ma proprio quelle condizionalità vessatorie che consentiranno di trovare i pretesti per comprimere ulteriormente le richieste delle classi subalterne.
Il denaro è di solito catalogato, con tipico approccio riduttivo, nell’ambito della cosiddetta “economia”, mentre invece è gerarchia, rapporto di potere tout court. Sin dalle sue origini, legate al fisco, il denaro infatti ha sempre avuto bisogno di dissimularsi, di avvolgere il suo potere nell’alone delle suggestioni, delle affabulazioni e delle mistificazioni. Nel caso del cosiddetto conflitto israelo-palestinese si può avere un’ulteriore riprova del potere illusionistico del denaro. Certi eccessi di servilismo filoisraeliano e di razzismo antipalestinese sono talmente rivoltanti da indurre al sospetto. Quando il mainstream concede tanto spazio agli squallidi di mestiere, vuol dire che c’è da nascondere qualcosa di evidente.
Nella Cisgiordania occupata dagli Israeliani nel 1967, l’Autorità Nazionale Palestinese, gestita da Al Fatah, non è in grado di impedire i continui insediamenti di coloni israeliani. Questi coloni sono organizzati in vere e proprie formazioni paramilitari e in più si avvalgono dell’apporto dell’esercito israeliano, che opera restrizioni, brutalità e uccisioni nei confronti della popolazione araba. Il procedimento di pulizia etnica si è esteso a Gerusalemme Est, anch’essa occupata da Israele nel 1967, dove persino i residenti arabi con cittadinanza israeliana vengono sbrigativamente sfrattati. Il partito laico Al Fatah e il partito religioso Hamas, ispirato ideologicamente ai Fratelli Mussulmani, avevano trovato un accordo per indire le elezioni, ma gli USA hanno premuto per rimandarle, in modo da scongiurare la scontata vittoria di Hamas, che riscuote consensi sia per il suo welfare, sia per essere riuscita a sloggiare i coloni israeliani da Gaza. Hamas è considerato dal Sacro Occidente una organizzazione “terroristica”, nonostante sia finanziato da uno Stato coordinato con la NATO, il Qatar, lo stesso che ha finanziato l’aggressione contro la Siria. La situazione sembrerebbe quindi premiare l’estremismo religioso di Hamas e l’estremismo nazionalistico del primo ministro israeliano Netanyahu, che inoltre ha tutto l'interesse a fomentare l’emergenza dato che ha sul capo quattro processi per corruzione da bloccare.
Da più parti si fa notare che il sionismo, con la sua aspirazione ad uno Stato ebraico, implica necessariamente le attuali pratiche di apartheid. Del resto quando il sionismo nacque alla fine dell’800, le pratiche di segregazione etnica, religiosa e razziale non erano considerate politicamente scorrette. Nell’800 inoltre l’appartenenza religiosa era indicata sui documenti di identità, perciò erano gli Stati a farsi carico della certificazione dell’identità ebraica. Il sionismo si avvaleva quindi della sponda di un antisemitismo istituzionalizzato. Oggi l’identità ebraica risulta invece evanescente. Centinaia di migliaia di russi sono immigrati in Israele in base ad una “Legge del Ritorno” che considera ebrei anche i “pronipoti” di un ebreo, cioè nulla di realmente riscontrabile, tanto che ci si è ritrovati persino dei neonazisti.
C’è anche da considerare che un apartheid applicato ad una larga parte della popolazione risulta insopportabilmente costoso. In Israele, e nei territori da essa occupati, la popolazione “ebraica” e quella araba numericamente si equivalgono, con una tendenza demografica che pare stia portando ad una maggioranza araba. In queste condizioni il sionismo sarebbe destinato all’estinzione per mero effetto di incertezza anagrafica e spinta demografica. La stessa questione se l’antisionismo sia o meno antisemitismo appare quindi superata dai fatti, dato che l’antisionismo tende a diventare una scelta astratta, come essere anti-ghibellini o anti-bonapartisti. Per fortuna c’è il denaro del contribuente americano a coltivare l’illusione. Ad esempio, uno degli ultimi atti del cialtrone Trump è stato di finanziare un’Università ebraica sorta abusivamente nei territori occupati.
Ma i toni arroganti di Trump sono solo l'ultimo tassello della questione, il più folcloristico. Gli insediamenti israeliani nei territori occupati sono infatti finanziati da una miriade di fondazioni statunitensi, in gran parte espressione di associazioni evangeliche. Si tratta di fondazioni non profit, che si avvalgono quindi di un’esenzione fiscale. Con questo diluvio di denaro esentasse è possibile reclutare ogni sorta di facinorosi e delinquenti comuni che si prestino ad interpretare la parte degli ebrei estremisti, finanziando anche attività imprenditoriali. In Israele il finanziamento statunitense all’apartheid è un fenomeno ormai noto. Dopo una serie di indagini sul percorso dei soldi, anche un importante quotidiano israeliano come Haaretz se ne è diffusamente occupato.
Il fenomeno del finanziamento non profit agli insediamenti nei territori occupati è pressoché ignoto all’opinione pubblica italiana, mentre viene illustrato spesso sulla stampa estera, tanto che è stato oggetto di un resoconto addirittura da parte del New York Times. Si tratta comunque di notizie che rimangono ai margini della comunicazione ufficiale, perciò possono sfuggire ad un pubblico che si ferma alle prime pagine ed ai talk show.
Questa pioggia di denaro statunitense già dovrebbe porre dei dubbi sull’effettiva natura dello “Stato Ebraico” attuale, ma siamo appena alla superficie del problema. Si scopre infatti che gli evangelici, con il loro “volontariato”, forniscono persino la manodopera necessaria alle attività agricole e imprenditoriale degli insediamenti coloniali nei territori occupati.
Le associazioni evangeliche non hanno nulla a che vedere con le chiese protestanti tradizionali, ed esibiscono il più classico repertorio biblico-apocalittico, a base di battaglie finali contro Gog e Magog; battaglie che dovrebbero per l'appunto avere la loro origine in Terrasanta. Il repertorio dei fanatismi e delle cazzate ha però un supporto molto concreto, cioè il finanziamento del governo federale statunitense, che sostiene le associazioni evangeliche come strumento di penetrazione imperialistica. Il caso del presidente brasiliano Bolsonaro, che si è giovato del supporto delle associazioni evangeliche insediate in Brasile, è abbastanza risaputo, mentre è molto meno noto il caso israeliano. Con una partita di giro, il finanziamento pubblico alle associazioni evangeliche diventa poi finanziamento privato non profit alla colonizzazione dei territori palestinesi. Il tutto è stato documentato in un libro di Axel R. Schäfer, “Piety and public funding”, nel quale l'autore non può fare a meno di notare che, ad onta della loro retorica individualistica e liberistica, gli evangelici americani si nutrono sin dalle loro origini dell’assistenzialismo del finanziamento pubblico. Per la serie: se non si segue il denaro, si rischia di parlare di nulla.
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